
Poiché la vita è in fondo un dialogo con la morte, ci si aspetta di trovare in quest’ultima una parola assoluta, inviolabile, definitivamente riecheggiante nella dialettica dell’esistenza e della letteratura. Nell’opera e nella vita di Jorge Luis Borges questa dialettica è intessuta dai tremendi specchi che moltiplicano il reale come le ipostasi gnostiche, i labirinti complessi, l’afflato onirico totale, il periodico ripetersi della biblioteca-universo già profilatosi nel pensiero orientale, greco e nietzschiano, l’assolutezza del mistero del tempo e degli spazi, l’onnipresente verità della finzione, la vertigine. Tuttavia, è alla morte a essere affidata la parola totale, e al sostrato fisico che la esprime nella sua pienezza.
Borges riposa sotto una lapide a Ginevra; essa, ultimo indicibile momento della trama del tutto, oscura sintesi di terreno ed eterno, non persiste nell’evocazione dei labirinti indecifrabili ma oppone loro un atavico grido di battaglia, strappato all’epica anglosassone: «And ne forhtedon na» («Giammai con timore»); lo echeggiano due versi posti sul retro: «Hann tekr sverthit Gram okk / legger i methal theira bert» («Egli impugna la spada Gram / e la pone fra le loro nudità»)(1). Non può che sorprendere questa scrittura, incisa nel biancore della pietra che ne amplifica l’apparente insufficienza, la semplicità eccessiva al cospetto del complesso; la metafisica pare messa da parte, i labirinti occultati, il sogno dissimulato. Invece li evoca incessantemente, senza interruzione alcuna, li chiama in causa nel silenzio e nella prostrazione, nell’implicita affermazione del semplice e del reale.
Per capirlo, occorre rivolgersi a Borges qua uomo, all’individuo sotteso alla trama delle lettere, carne che precede il sogno. E Borges era un individuo onirico dilaniato dal reale, o viceversa un vivente implicato in visioni metafisiche delle quali la letteratura si fa carico. Sulla terra fremente, anelata e al contempo negata, trovano spazio la guerra e la materia, la vendetta e la spada, il polemos ingenuo e perciò sacro. È regione di nostalgia, campo di quel destino mancato e parallelo legato al ramo militare della sua famiglia, di fronte al quale il corrispettivo letterario sembra scolorire: «Sono nessuno, non fui mai una spada / nella guerra. Sono eco, oblio, nulla»(2). E proprio nell’eco, ovvero nelle lettere e nel sogno, infinita ombra del vero, l’impeto è subito trasfigurato. Spesso questa geografia irriducibile e primitiva assume le stimmate dell’avida pianura argentina popolata da gauchos e brulicante di pugnali e risentimento; volentieri al gioco, già metaletterario, si prestano altresì Cervantes e Ariosto, nonché l’epica anglosassone evocata dalla lapide e le saghe nordiche, nelle quali la spada può dispiegarsi pienamente e rivendicare l’onore di chi la impugna. Una certa matrice omerica sembra costituire un rimando ultimo e costante a un obliato albore dell’Occidente, mondo iniziale dove le «chere di morte / innumerevoli» dell’Iliade attorniano l’uomo mortale, che combatte in risposta alla caducità della propria condizione.
Da Omero in avanti, infinitamente la morte è stata vista togliere senso alla vita dell’uomo, creare lo sfondo di un nihil nel quale l’individualità è dissimulata, scolorita, e la possibilità dell’identità è negata. Nell’Ade, i volti a malapena si distinguono. In Borges bisogna ravvisare un legame estremo tra identità e morte, e chiarirlo nella sua unicità, per permettergli di condurci verso una via alternativa. La dialettica tra biblioteca e universo, nella sua totalità, esprime una freddezza metafisica, numerica, formale. Un gelo eidetico ci circonda; l’infinito cancella l’uomo, il possibile lo umilia. Nella casa di Asterione, «grande come il mondo», il Minotauro non può evitare di «cadere al suolo in preda alla vertigine»(3). Ma attende un redentore. Questi è Teseo, è sua la spada insanguinata. La morte è alla fine del labirinto, dietro di esso. E così, se «tutte le parti della casa esistono molte volte»(4), costringendo l’io a un’angoscia metafisica, quest’ultimo ritrova se stesso in quanto ineludibile fondamento del tutto – un tutto che è restituito all’io e alla sua unicità. «Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole; in basso, Asterione»(5). Segue una suggestione di chiara ispirazione idealista: «Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo»(6).
Da questa prospettiva trascendentale è possibile comprendere che «una cosa, o un numero infinito di cose, muore in ogni agonia»(7). Ogni morte è la scomparsa di un mondo, il mondo del morto. È così che la fine può assurgere a possibilità dell’esistenza, in quanto disgiunzione esclusiva nel tutto, cernita metafisica che costituisce la determinazione nell’esclusione, definitiva e imperscrutabile biforcazione significante l’irripetibile dei sentieri di quel giardino che tanto piacque a Calvino. La mortalità è condizione d’identità. Nella struttura del racconto L’Aleph(8), la visione centrale del punto che contiene tutti i punti dello spazio – e quindi dell’«inconcepibile universo» – è compresa tra l’alfa e l’omega dell’esperienza individuale, dispiegantesi in primis nel dantesco amore per Beatriz Viterbo e poi nelle vicende della carriera letteraria. Ancora una volta, l’io gettato nel labirinto ne abbraccia i limiti in quanto sostrato trascendentale, irriducibile e primario. E sono proprio i Límites de L’artefice a rivelare lucidamente questa verità estrema, imperscrutabili frammenti del tutto esclusi dal corso esistenziale e dalla morte «incessante»: il «verso di Verlaine che non ricorderò mai più», insieme alla «strada vicina ormai vietata ai miei passi», lo «specchio che mi ha visto per l’ultima volta», la «porta che ho chiuso sino alla fine del mondo»(9). L’invalicabile Acheronte s’interpone tra il tutto e un io che si determina e attualizza nel tempo proprio in relazione al confine che lo circonda.
Si comprende allora come la spada possa significare questa concezione liminare della morte; è proprio nelle spade dei guerrieri che furono, ove «persiste la osadía / de la diestra viril, hoy polvo y nada»(10), che massimamente l’individuo si è appropriato di sé, e l’identità si è manifestata. Sull’esile linea della spada la vita si rispecchia intimamente nella morte e l’individuo è rimandato a se stesso. L’interesse di Borges per l’evento agonistico e la sua predilezione per personaggi più o meno eroici accomunati dal vissuto bellico spaziano dal ricordo del colonnello Francisco Borges – il nonno paterno che rimanda al già menzionato destino parallelo dello scrittore – al cuchillero Juan Muraña, fino a diverse variazioni sul tema del Martin Fierro. Ma non solo di eroi si sta parlando, bensì di uomini. Ne La forma della spada(11), il protagonista John Moon è un traditore dal passato oscuro che spiega a Borges il finto punto di vista dell’uomo che ha tradito, in modo che questi ascolti «fino alla fine»(12) senza giudicarlo anticipatamente. Moon porta sul volto il «marchio della sua infamia»(13), una cicatrice inflittagli dal tradito con una scimitarra un attimo prima di essere catturato a causa del suo disonore. Centrale è l’inciso, dichiaratamente schopenhaueriano, secondo cui «qualsiasi uomo è tutti gli uomini, Shakespeare è in qualche modo il miserabile John Moon»(14) – e, al contempo, dietro allo schermo che impone un’affrettata lettura incentrata sul soggetto universale e sulla priorità del genere sul singolo, l’individuo Moon reclama la sua unicità. Borges la ascolta e racconta, imprigionandola nel segno di spada che percorre e identifica il volto del suo personaggio(15).
Sappiamo anche che al di fuori della letteratura, o forse proprio per una proiezione illegittima sul reale, la spada di Borges seppe caricarsi d’inattualità; divenuta «chiara» e preferibile alla «dinamite illegale», venne forse a significare, nella controversa difesa di Pinochet del 1976, la riversata ingenua nostalgia di un vigore arcaizzante alieno all’indole dei tempi e il disadattamento latente di un caballero del verbo stretto nella forma dell’epoca – o di un’epoca in generale, proprio come il filosofo gomezdaviliano, «angelo prigioniero del tempo». E l’inattualità di questo arcangelo del pensiero anelante la spada, senza semplificazioni, è rivelata dalla più che discussa mancata assegnazione del Nobel, forse connessa proprio all’episodio di Pinochet. Il successivo pentimento dello scrittore riguardò l’appoggio al dittatore cileno, non il Nobel mancato, né l’incompleta organicità con i tempi; Borges visse nella biblioteca, nelle lettere che riflettono il corso dell’uomo, nella Storia.
Ed è proprio nell’intimo confine che separa e unisce letteratura e vita che dobbiamo cercare la parola finale della spada. Può darcela Il sud, il racconto prediletto di Borges, ultimo della raccolta Finzioni, insolitamente esplicito. Narra di Juan Dahlmann, ovvero di Borges, che come lui è «profondamente argentino» e, al contempo, riportato a un altro lignaggio, al «sangue germanico», alla vocazione per la «morte romantica»(16). Come Borges, Dahlmann è bibliotecario a Buenos Aires, uomo di libri, stregato dall’esemplare de Le mille e una notte che si è appena procurato, il quale, come un demiurgo corrotto e ammaliante, si interpone tra lui e la realtà. Come Borges, Dahlmann rischia la morte per setticemia; è la vita a colpirlo, nella forma di uno spigolo che lo ferisce, intromettendosi e sorprendendolo nell’assorta lettura del libro. È richiamato alla vita dall’epifania concreta e cruenta della morte; la morte implica la vita, passiva, trascendente, irriducibile. In via di guarigione, riceve il permesso di trascorrere la convalescenza nella sua tenuta al Sud, che in precedenza era riuscito a salvare. E il Sud incarna proprio questa istanza agonistica, vitale, cavalleresca: «Una vecchia spada, l’allegria e il vigore di certe musiche, la consuetudine con le strofe del Martin Fierro»(17). Ma il Sud è anche il tempo oscuro che tutto precede e ingloba: salito sul treno per un viaggio metafisico e definitivo che si snoda per l’irreale pianura argentina, Dahlmann «poté sospettare di viaggiare verso il passato e non solo verso il Sud»(18). Tenta di leggere, riprendendo Le mille e una notte, ma le figure del libro cedono inevitabilmente alla meraviglia del «mattino e al fatto di esistere»: è così che, infine, «chiudeva il libro e si lasciava semplicemente vivere»(19).
Il treno è costretto a fermarsi in una stazione «di poco precedente» alla solita; uno spazio indecifrabile s’interpone tra Dahlmann e la tenuta. Sarà lo spazio del destino, del possibile, dell’accadere infinitamente sospeso. Costretto alla cena in uno spaccio, mentre fuori, sulla pianura, l’avvento del crepuscolo simboleggia l’imminente cecità di Borges(20), è sfidato a duello dalle provocazioni di tre uomini. Uno di loro lancia in aria un coltello, ma Dahlmann è disarmato. Immediatamente un gaucho, uno di quelli che «ormai si trovano solo al Sud»(21), gli consegna un pugnale, chiamandolo irrimediabilmente alla sfida. «Era come se il Sud avesse deciso che Dahlmann accettasse il duello.»(22)
Prima di uscire a battersi, comprende due cose. La prima è che «quel gesto istintivo lo impegnava a battersi»(23); come gli eroi e i cavalieri di tutte le epoche, Borges vuole raccogliere, con l’abissale intimità del proprio essere, il compito più universale dell’essere umano, la sua possibilità essenziale: la lotta. La seconda è che «l’arma, nella sua mano impacciata, non sarebbe servita a difenderlo, ma a giustificare che l’ammazzassero»(24); Borges, come tutti, è sconfitto in partenza dalla morte. La possibilità della vittoria sta nella massima dignità della sconfitta. E la dignità risiede, in fin dei conti, proprio nella spada metaforica, nel simbolico pugnale di Dahlmann, nella tragica agonia che, tuttavia, non cede alla prostrazione(25). Questi, nel momento di uscire, sente che se «non c’era speranza, non c’era nemmeno timore»(26). And ne forhtedon na. La frase conclusiva del racconto, il cambiamento dal passato remoto al presente, traspone ogni cosa in una dimensione atemporale, universale, nella quale convivono e s’ingigantiscono a vicenda l’individualità dell’autore e il destino dell’uomo, insieme alla limpida e gloriosa assolutezza della tragica visione esistenziale che ci consegna: «Dahlmann impugna con fermezza il coltello, che forse non saprà maneggiare, ed esce nella pianura»(27).
Note
- I primi versi sono tratti dal poema epico del X secolo La battaglia di Maldon. Gli altri due appartengono alla Saga dei Volsunghi (XIII secolo) e compaiono in esergo al racconto Ulrica (in Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia, Adelphi, Milano 1996, p. 20). È l’eroe Sigfrido a interporre tra sé e Brunilde la spada, «segno insieme della sua identità di cavaliere e della sua ambiguità di persona» (Emilia Perassi, Le saghe, i bardi, le spade. Con Borges nelle terre della grande memoria concava, «Doctor Virtualis», n. 2, 2003).
- Jorge Luis Borges, Sono, in La rosa profonda, in Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, Mondadori, Milano 1984, vol. I, p. 687.
- La casa di Asterione è uno dei vertici della raccolta L’Aleph, del 1949 (ed. it. Adelphi, Milano 1998).
- Ivi, p. 58.
- Ivi, p. 59.
- Ibidem.
- Jorge Luis Borges, Il testimone, in L’artefice, Adelphi, Milano 1999, p. 61.
- Ossia il racconto che dà il titolo alla già citata raccolta.
- Jorge Luis Borges, Limiti, in L’artefice, cit., p. 185.
- La poesia Espadas non figura nell’edizione Mondadori delle Opere complete borgesiane.
- In Jorge Luis Borges, Finzioni, Adelphi, Milano 2003.
- Ivi, p. 111.
- Ibidem.
- Ivi, p. 109.
- Vale la pena spendere, di sfuggita, un paio di parole in più sulla visione borgesiana del soggetto, dell’io. Dal maestro Schopenhauer Borges riprende senza ombra di dubbio l’idea dell’illusorietà dell’individuazione, concezione alla quale ben si affianca la centralità di temi quali il destino, il tempo, l’infinito. Ma Borges è anche lo scrittore dell’irripetibilità dell’esperienza individuale, dell’irriducibile unicità del vissuto in prima persona che si staglia sulla presunta “verità” di ciò che invece ne implicherebbe la negazione. È insomma un’abissale antinomia a percorrere le pagine borgesiane. Valgano come paradigma le parole che Borges appone a Fervore di Buenos Aires, sua prima opera, nelle quali questa tensione risalta sullo sfondo della magica ironia dell’argentino: «A chi mai leggerà. Se le pagine di questo libro consentono qualche verso felice, mi perdoni il lettore la scortesia di averle usurpate io, previamente. I nostri nulla differiscono di poco; è banale e fortuita la circostanza che sia tu il lettore di questi esercizi, ed io il loro estensore» (Jorge Luis Borges, Fervore di Buenos Aires, in Tutte le opere, cit., vol. I, p. 9).
- Jorge Luis Borges, Il Sud, in ivi, p. 154.
- Ibidem.
- Ivi, p. 158.
- Ivi, p. 157.
- «A poco a poco l’oscurità si portava via la campagna, ma il suo odore e i suoi rumori gli giungevano ancora attraverso le inferriate» (ivi, p. 160). Borges, che aveva ereditato dal padre la malattia agli occhi, divenne definitivamente cieco negli anni Sessanta.
- Ivi, p. 161.
- Ibidem.
- Ibidem.
- Ibidem.
- Come l’«imperiosa agonia» di Beatriz Viterbo che apre L’Aleph (cit., p. 123), la quale «non si abbassò un solo istante al sentimentalismo né al timore».
- Jorge Luis Borges, Il Sud, cit., p. 161.
- Ivi, p 162.