Cinematografo borgesiano
Massimo ZanichelliTra le varie voci in cui si è reincarnata quella costellazione letteraria conosciuta con il nome terrestre di Jorge Luis Borges (prosatore, poeta, saggista, filologo, traduttore, teologo – più in generale, raffinato sconfinatore) quella del commentatore cinematografico è senz’altro la meno conosciuta, ma non per questo esclusivamente aneddotica. «Il cinema fu sempre per lui un’arte importante» disse Adolfo Bioy Casares(1), e c’è senz’altro da credergli. Al pari di quella letteraria, la fiction cinematografica produsse, specie nel Borges più giovane (o, quantomeno, ancora vedente), l’amore per le trame: il sottile, scintillante gioco mentale di abbandonarsi al mondo del possibile, alla geometria dell’affabulazione. Il cinema era per lui una meravigliosa superficie di elaborate apparenze, le cui più riuscite stilizzazioni allontanavano ai suoi occhi la Settima Arte dalla natura magniloquente del romanzo di matrice ottocentesca: «Delirio faticoso e avvilente quello del compilatore di grossi libri, del dispiegatore in cinquecento pagine d’un concetto la cui perfetta esposizione orale capirebbe in pochi minuti! Meglio fingere che questi libri esistano già, e presentarne un riassunto, un commentario»(2).
Nell’introduzione alla prima edizione della Storia universale dell’infamia lo scrittore confessa i propri debiti nei confronti del cinematografo: «Gli esercizi di prosa narrativa che compongono questo libro furono scritti dal 1933 al 1934, e derivano, credo, da ripetute letture di Stevenson e Chesterton e anche dai primi film di von Sternberg, e forse da una biografia di Evaristo Carriego. Essi abusano di certi procedimenti: enumerazioni contrastanti, repentine soluzioni di continuità, riduzione dell’intera vita di un uomo a due o tre scene. […] Non sono e non vogliono essere racconti psicologici»(3). Una dichiarazione di poetica che Borges avrebbe in seguito rivisto: per lui, come per molti intellettuali, il rapporto con il cinema rimase dilemmatico, sospeso tra attrazione (per la sua magia) e scetticismo (per le sue derive commerciali).
Il caso relativo a Sternberg è emblematico. In Discussione i film muti del regista, definiti «romanzi cinematografici»(4) ed esemplari nel distaccarsi dalle tentazioni del romanzo, sono presi addirittura a modello per la rappresentazione del reale nel mondo della finzione, non meno dei libri di George H. Wells o Daniel Defoe. Poche pagine dopo, però, Borges prende le distanze da Marocco (come da tutti i film di Sternberg con Marlene Dietrich), opponendo all’«organizzazione squisita» e ai «procedimenti obliqui» di Underworld, uno dei suoi preferiti, la «semplice accumulazione di comparse», le «pennellate di eccessivo colore locale» e la «laboriosa falsificazione di una città araba nei suburbi di Hollywood, con lusso di accappatoi muniti di cappuccio e fontanelle e alti muezzin gutturali che precedono l’alba e cammelli al sole»(5). La severità del giudizio è spiazzante (Sternberg indugia più su tinte oniriche che realistiche), ma Borges non aveva dimestichezza con i profumi della decadenza e il melodramma esotico.
L’obiettivo di questo capitolo di Discussione è però un altro: marcare il divario tra fantasia e realismo come categorie estetiche, con una difesa del principio d’irrealtà (da cui scaturiscono titoli come I fratelli Karamazov di Fedor Ozep, I dannati dell’oceano dello stesso Sternberg, nonché i film di Ejzenstejn, Buster Keaton, Harry Langdon e Franz Borzage) contro la prosaicità di Luci della città di Chaplin, cui Borges preferisce senza indugi La febbre dell’oro, o l’ordinarietà di Billy The Kid di King Vidor, «senza altro merito che l’abbondanza di riprese panoramiche e la metodica elusione di close-up per significare il deserto»(6) in opposizione al memorabile Alleluja dello stesso regista.
Le visioni dello spettatore Borges spaziano dal cinema argentino a quello americano, con sporadiche incursioni in quello europeo e sovietico, e i suoi gusti sono talvolta imprevedibili, come si conviene a un letterato sognatore, esigente e un po’ altero come lui. Amava i film western, in cui vedeva sopravvivere l’epica classica: «Credo che Hollywood – sia pure per ragioni commerciali – abbia salvato l’epica, in un tempo in cui i poeti avevano dimenticato che la poesia cominciò con l’epica»(7). Si emozionava con i film di gangster(8), adorava Lubitsch ed era innamorato, come l’intera sua generazione, della divina Greta Garbo.
Dalle recensioni pubblicate tra il 1931 e il 1944 sulla rivista «Sur», fondata da Victoria Ocampo, alcune delle quali confluite poi in Discussione e oggetto di due distinte pubblicazioni (il già citato Borges al cinema e Film)(9), traspare uno sguardo sinuoso e sentenzioso, curioso e ironico: Borges elogia Il club dei 39 di Hitchcock ma stronca il suo Sabotaggio, reo a suo dire di aver tradito lo spirito del romanzo di Joseph Conrad – L’agente segreto – da cui è tratto. Rimane affascinato dalla «magica influenza dell’approssimarsi della morte su un gruppo casuale di uomini e di donne»(10) ne La foresta pietrificata di Archie Mayo (uno dei primi ruoli importanti di Humphrey Bogart) come dalla cura del dettaglio ne Il traditore di John Ford, ed è inevitabilmente attratto dalle narrazioni non lineari di Potenza e gloria di William K. Howard, sceneggiato da Preston Sturges, e di Quarto potere di Orson Welles.
I suoi commenti sono lucidi quanto lungimiranti, e inevitabilmente tranchant. Giudica il doppiaggio come qualcosa d’intollerabile e mostruoso, al pari della chimera greca o del ti-iang cinese (ma nell’elenco c’è anche la Trinità dei teologi del II secolo o l’ipercubo dei geometri ottocenteschi), distinguendolo dalla traduzione letteraria per l’«arbitrario innesto di un’altra voce e un altro linguaggio. La voce della Hepburn o della Garbo non è contingente; è, per il mondo, uno degli attributi che la definiscono»(11). Si scaglia contro Il dottor Jekyll e Mr. Hyde di Victor Fleming, reo, come la precedente versione di Ruben Mamoulian, di aver rovinato il colpo di scena finale dell’amato Stevenson. La disanima, implacabile, diventa una lezione di sceneggiatura e messa in scena: «Non c’è lettore che indovini che Hyde e Jekyll siano la stessa persona; lo stesso titolo ci fa supporre che sono due persone. Niente sarebbe più facile che trasferire nel cinematografo tale procedimento. Immaginiamo un qualsiasi problema poliziesco: due attori che il pubblico riconosce compaiono nell’intreccio (George Raft e Spencer Tracy, diciamo); possono usare parole analoghe, menzionare fatti che presuppongono un passato comune; quando il problema diventa indecifrabile, uno dei due assorbe la droga magica e si trasforma nell’altro. (Naturalmente, la buona esecuzione di questo progetto comporterebbe due o tre accorgimenti fonetici: la modifica dei nomi dei protagonisti). Più civilizzato di me, Victor Fleming elude ogni stupore e ogni mistero: nelle scene iniziali del film, Spencer Tracy prende senza paura la versatile bevanda e si trasforma in Spencer Tracy con una parrucca diversa e lineamenti negroidi»(12).
Poi qualcosa s’incrina nello sguardo: a partire dagli anni Quaranta, la malattia agli occhi ereditata dal padre va peggiorando, lo schermo del cinematografo diventa irrimediabilmente buio: «Un’ostinata nebbia cancellò le linee della sua mano, la notte si fece deserta di stelle, la terra insicura sotto i suoi piedi: la cecità avvolse Borges tra le sue braccia»(13). Se la cecità può essere ovviata dalla recitazione della parola scritta, una volta diventata invisibile l’immagine del cinematografo non può essere più restituita. Il filo che legava l’occhio allo schermo si spezza definitivamente.
Il rapporto di Borges con il cinema travalica però la sua funzione di critico e commentatore. Estende il suo raggio d’azione e si ramifica: accanto alle recensioni troviamo i suoi soggetti per il cinema, gli adattamenti delle sue opere, e un aggettivo, borgesiano, diventato, al pari di kafkiano, una dimensione dell’immaginario.
Borges scrisse con Adolfo Bioy Casares un paio di soggetti (Invasión e Los otros) che divennero due film diretti dall’argentino Hugo Santiago, sceneggiati dal regista insieme ai due concittadini e inediti in Italia. Il primo, Invasión, del 1969, è riassunto da Borges come «la leggenda di una città, immaginaria o reale, assediata da forti nemici e difesa da pochi uomini, che forse non sono eroi. Combattono sino alla fine, senza sospettare che la loro battaglia è infinita»(14). È un film misterioso, sospeso, pieno di ellissi, apocopi e voluti depistaggi. Les Autres, del 1974 ma uscito in Francia l’anno successivo, traduce l’odissea mentale e sentimentale di un librario parigino che cerca di comprendere la causa del suicidio del figlio. L’incontro con l’amante del morto sarà il preludio di una serie di aggrovigliati e bizzarri avvenimenti. Santiago, già aiuto regista di Robert Bresson nella prima metà degli anni Sessanta, avrebbe in seguito scritto e diretto un altro mystery dai contorni fantastici e dai chiari accenti borgesiani, Persuasione occulta (1979), in cui un’inedita Catherine Deneuve è una private eye incaricata d’indagare sulla scomparsa dell’amante di un nobile implicato in segreti scientifici.
Più anodini sono un paio di adattamenti dal racconto Emma Zunz, contenuto nella raccolta L’Aleph: il primo, l’argentino Días de odio diretto da Leopoldo Torre Nilsson (1954), non accontentò Borges, che, nonostante la partecipazione alla sceneggiatura del film, non rimase soddisfatto del risultato; il secondo, il francese Emma Zunz, scritto e diretto da Alain Magrou nel 1969, non riesce ad andare oltre un sistema di continui flashforward che «suscitano stanchezza invece che suspense», non promettendo «l’ulteriore rivelazione di un senso alla valanga di indizi, che dovrebbero inquietare e riescono solo a irritare»(15).
Al di là di queste o altre derivazioni (cui appartengono, ad esempio, due film del 1975: Los orilleros di Ricardo Luna, tratto da un soggetto di Borges e Bioy Casares, ed El muerto di Héctor Olivera, ricavato dall’omonimo racconto de L’Aleph), più interessante, soprattutto per lo spettatore italiano, è l’adattamento, o rilettura, che Bernardo Bertolucci, in una fase cruciale della propria carriera di cineasta, fece del racconto Tema del traditore e dell’eroe (di Finzioni) nel suo Strategia del ragno (1970). Bertolucci e i suoi co-sceneggiatori (l’italiana Marilù Parolini, l’argentino Eduardo de Gregorio) ambientarono il «paese oppresso e tenace» immaginato da Borges in un borgo della Bassa che può ricordare Parma, ma è la scenografica Sabbioneta e nel film si chiama Tara, luogo dell’inconscio privato e scenario dell’epopea hollywoodiana di Via col vento. Qui arriva Athos Magnani, figlio omonimo di un martire antifascista ucciso a tradimento a teatro, il 15 giugno 1936, «dal piombo fascista», come recita l’epigrafe del suo busto all’ingresso della città. È Draifa, l’amante ufficiale del padre, ad averlo chiamato per dare un nome agli assassini. La donna si muove in scena come fosse un fantasma. Ma in questo paese di vecchi tutti sembrano fantasmi: i tre amici del padre (l’assaggiatore di culatelli Garibazzi, l’esercente cinematografico Costa, il maestro elementare Rasori), il nemico Beccaccia, latifondista ed ex fascista, nonché i contadini ostili. Fantasmi sotto la canicola di una campagna dai colori saturi, dove il lirismo della fotografia si fa sogno a occhi aperti, paesaggio di sonnambuli in ambienti surreali e stranianti. Se nel racconto il protagonista, Ryan, è pronipote di Kilpatrick, martire della rivolta irlandese del 1824, nel film di Bertolucci Athos Magnani non è solo il figlio omonimo, ma addirittura un Doppelgänger, un sosia. I continui scivolamenti tra presente e passato, dove i due personaggi sono distinguibili solo dall’aspetto e dalla foggia dei vestiti (il padre, «dandy, gagà, fatuo galletto padano»(16) con la sahariana, il fazzoletto rosso al collo e i capelli impomatati, si contrappone al grigiore del figlio), si tingono di elementi fortemente psicanalitici, dal tema del doppio ai simboli onirici, dalla ricerca del padre alla scoperta della figura materna (Draifa rimane significativamente la donna âgée del presente anche nei flashback): «L’indagine del protagonista è una specie di viaggio nella memoria atavica, nel preconscio»(17). Tra reminiscenze shakespeariane (Giulio Cesare, Macbeth) e memorie pascoliane (La cavallina storna), libretti verdiani e citazioni figurative (i quadri naïf di Ligabue, gli spazi dechirichiani, il cinema americano), Bertolucci radicalizza l’unità di due opposti (eroe e traditore) solo apparentemente inconciliabili, sdoppiando le figure e interrogandosi sulle menzogne della storia e la funzione degli idola tribus. Nonostante la sua proverbiale insofferenza alle implicazioni psicologiche, Borges avrebbe probabilmente gradito questo adattamento.
Fin dalle sue prime apparizioni nel milieu filmico francese, il termine borgesiano si è tradotto in icona culturale. Come tale è presente in Paris nous appartient di Jacques Rivette (1961), dove «l’edizione francese di Otras inquisiciones appare come livre de chevet della protagonista: quasi sicuramente la prima intromissione di Borges nel cinema europeo, e il primo anello di una catena incalcolabile»(18). Di seguito, in due film di Jean-Luc Godard, il più intellettuale dei cineasti della Nouvelle vague: una citazione di Borges campeggia nell’incipit di Les carabiniers (1963), mentre in Alphaville (1965) il computer Alpha 60 ne recita un’altra, tratta dalla Nuova confutazione del tempo, ripresa poi dal meno conosciuto Paris n’existe pas (1969), esordio registico del critico Robert Benayoun(19).
Dagli incunaboli della Nouvelle vague la figura di Borges diventa citazione raffinata e intellettualistica, colta e cerebrale, che attraversa il cinema d’autore e a partire dalla metà degli anni Ottanta genera un aggettivo, borgesiano, oggi presente nel dizionario, che rappresenta uno stile specifico, un codice di rappresentazione, una categoria intellettuale: «Relativo a Borges e alle sue opere, con particolare riferimento alle atmosfere fantastiche che le caratterizzano»(20). Non sarà dunque pratica oziosa applicare questo aggettivo – un mondo speculativo e fantastico le cui porte si spalancano su specchi e labirinti – a una serie di film dei quali lo scrittore argentino è stato spettatore più ideale che reale.
Il punto di partenza non può che essere Quarto potere, con cui Borges ebbe un rapporto dilemmatico, tra ammirazione e delusione: «Oso sospettare che Citizen Kane perdurerà come “perdurano” certi film di Griffith o di Pudovkin, il cui valore storico nessuno nega, ma che nessuno si rassegna a rivedere. Soffre di gigantismo, pedanteria, tedio. Non è intelligente, è geniale: nel senso più notturno e tedesco di questa mala parola»(21). Il capolavoro di Welles si divide in due momenti antitetici. La storia è «di un’imbecillità quasi banale»(22), l’intreccio, che altera il flusso cronologico degli avvenimenti ed elabora una struttura frammentaria, è «molto superiore»(23). Il tema, «metafisico e poliziesco», «mitologico e allegorico», è la «ricerca dell’anima segreta di un uomo, attraverso le opere che ha costruito, le parole che ha pronunciato, i molti destini che ha spezzato. Il procedimento è quello di Joseph Conrad in Chance (1914) e del bel film The Power and the Glory: la rapsodia di scene eterogenee, senza ordine cronologico. […] In uno dei racconti di Chesterton – The Head of Caesar, credo – l’eroe osserva che nulla è più terrificante di un labirinto senza centro. Questo film è esattamente quel labirinto»(24).
Il labirinto, dunque. «Due incubi ossessionarono Borges per tutta la vita: gli specchi e il labirinto.»(25) Il pensiero corre subito a L’anno scorso a Marienbad (1961). Il film dei due Alain, il regista Resnais e lo scrittore Robbe-Grillet, è una complicata e concettosa mise en abyme, un flusso continuo di andirivieni mentali, un dedalo di movimenti temporali in cui passato, presente e futuro si confondono, e dove labirinti figurati e narrativi s’intrecciano indissolubilmente, moltiplicati dagli specchi del decor e dell’intreccio. Robbe-Grillet, capostipite del nouveau roman e sceneggiatore dell’opera, si era ispirato proprio a L’invenzione di Morel, il capolavoro di Adolfo Bioy Casares da cui nel 1974 Emidio Greco trasse un bel film, curiosamente interpretato da Giulio Brogi, già protagonista di Strategia del ragno di Bertolucci.
Seguendo il filo rosso dell’attrazione di Borges per la narrazione non lineare, mi piace pensare che lo scrittore argentino avrebbe amato alcune delle più ardite destrutturazioni della cinematografia del nuovo millennio, come il viavai mentale di Se mi lasci ti cancello (2004) di Michel Gondry (di cui avrebbe senz’altro apprezzato il titolo, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, omaggio ad Alexander Pope), il flusso rizomatico di Last Days di Gus Van Sant o la messa in scacco della realtà e della sua percezione di Niente da nascondere di Michael Haneke, ambedue del 2005. Me lo figuro non meno affascinato dalle arditezze di due opere complementari di David Lynch: il nastro di Moebius che si attorciglia lungo lo snodo di un’infinita fuga musicale in Strade perdute (1997) e il canone inverso di Mulholland Drive (2001), due film sul doppio, sul labirinto della mente e sulle aberrazioni dello spazio-tempo – temi squisitamente borgesiani.
Né lo immagino indifferente alla vista dei perfetti congegni narrativi di Christopher Nolan(26), dalle strutture binarie di Memento (2000), trionfo di un impeccabile paradosso (mentre il running time procede, il tempo narrativo arretra), alla perfezione della mise en abyme di The Prestige (2006), un congegno a orologeria dove la forma si specchia nel racconto, fino a Inception (2010), apogeo del sogno dentro un sogno dentro un sogno, intreccio folgorante di personaggi che sognano altri personaggi e vertiginose invasioni mentali. Accanto a Escher, Nolan ha spesso citato Borges come fonte d’ispirazione per questo suo celebre titolo, raro esempio di film dove la realtà, letteralmente inghiottita dallo spazio onirico, occupa un ruolo minoritario all’interno della diegesi. Per un sognatore che amava raccontare i propri sogni, perdersi nel lago onirico dell’inception avrebbe potuto essere il coronamento di una lunga ossessione.
Ho sempre pensato che l’apice borgesiano del postmoderno sia però Pulp Fiction. Probabilmente sorprenderà l’accostamento tra il raffinato cantore di luoghi immaginari e il “nuovo cannibale” della cinematografia americana. Eppure il capolavoro di Tarantino, punto di non ritorno del cinema contemporaneo, è probabilmente l’unico a realizzare il paradosso narrativo del Giardino dei sentieri che si biforcano. Nel racconto l’invenzione di Ts’ui Pên è la costruzione di un libro a guisa di labirinto. La chiave di volta è la biforcazione del tempo, non dello spazio: «In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang – diciamo – ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti: e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni. Talvolta i sentieri di questo labirinto convergono: per esempio, lei arriva in questa casa, ma in uno dei passati possibili lei è mio amico, in un altro è mio nemico»(27). Le conseguenze di queste permanenze sono spettacolari: «Nel terzo capitolo l’eroe muore, nel quarto è vivo»(28).
È quanto accade in Pulp Fiction: Vincent Vega muore a metà film ma è vivo nel finale. L’antitesi del principio di realtà, la negazione del racconto tradizionale, l’oltraggio alle leggi della linearità e della verosimiglianza sono le conseguenze del continuo disallineamento operato sul tempo della narrazione (non già ricorrendo alla giustapposizione di meri flashback, che Tarantino rifugge, ma alterando continuamente l’assetto cronologico della fabula). Per citare ancora il Giardino di Borges: «Non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli». Da qui il doppio miracolo finale di Pulp Fiction: Jules abbandona la professione di killer per diventare asceta, Vincent torna in scena (e chiude il film) dopo essere stato ucciso. La logica temporale della vita viene spazzata via, l’eternità è dietro l’angolo di un cut del montaggio.
Note
- Edgardo Cozarinsky (a cura di), Borges al cinema, prefazione di Adolfo Bioy Casares, Il Formichiere, Milano 1979, p. 7.
- Jorge Luis Borges, Finzioni, in Tutte le opere, vol. I, Mondadori, Milano 1984, p. 621.
- Jorge Luis Borges, Storia universale dell’infamia, in ivi, p. 441. Corsivo nostro.
- Jorge Luis Borges, La postulazione della realtà, in Discussione, in ivi, p. 346.
- Jorge Luis Borges, Film, in ivi, p. 350.
- Ivi, p. 351.
- Jorge Luis Borges, Conversazioni con Osvaldo Ferrari, Bompiani, Milano 1986, p. 142.
- «Singhiozzava al finale di Angeli con la faccia sporca, quando James Cagney si comporta da vigliacco mentre lo conducono sulla sedia elettrica perché i suoi giovani seguaci smettano di idolatrarlo» (Alberto Manguel, Con Borges, Adelphi, Milano 2015, p. 39).
- Jorge Luis Borges, Film, Novecento, Palermo 1991. Nell’introduzione di Jean Pierre Bernés vengono riportati gli estratti di alcuni testi borgesiani sul cinema antecedenti a quelli scritti per «Sur», come El cinematógrafo, el biógrafo, pubblicato sul quotidiano «La Prensa» il 28 aprile 1929.
- Edgardo Cozarinsky, op. cit., p. 39.
- Jorge Luis Borges, Sul doppiaggio, in Discussione, cit., p. 434.
- Jorge Luis Borges, Il dottor Jekyll e Edward Hyde, trasformati, in ivi, pp. 436-437.
- Pietro Citati, La vecchiaia di Borges, in La civiltà letteraria europea. Da Omero a Nabokov, a cura di Paolo Lagazzi, Mondadori, Milano 2005, p. 1775.
- Sinossi di Borges riportata in Edgardo Cozarinsky, op. cit., p. 75.
- Ivi, p. 111.
- Stefano Socci, Bernardo Bertolucci, L’Unità/Il Castoro, Milano 1995, p. 40.
- Dichiarazione di Bertolucci (in ivi, p. 8).
- Edgardo Cozarinsky, op. cit., p. 91.
- Ivi, p. 93.
- http://www.treccani.it/vocabolario/ borgesiano/
- Edgardo Cozarinsky, op. cit., p. 59.
- Ivi, p. 58.
- Ibidem. Di Welles credo Borges avrebbe amato anche gli interrogativi sull’identità di Rapporto confidenziale e le mistificazioni di F for Fake.
- Ibidem.
- Alberto Manguel, op. cit., p. 53.
- Curiosamente, Nolan è uno dei personaggi presenti in Tema del traditore e dell’eroe. Il suo nome, va da sé, non è Christopher ma James Alexander.
- Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, cit., pp. 698-699.
- Ivi, pp. 696-697.