"La disubbidienza". Il bell’addormentato in rivolta

Mario Gerosa
Aldo Lado n. 9/2019

Che cosa si prova a vivere in un flashback? È questa la sensazione che suggerisce Luca, il giovane protagonista di La disubbidienza. Il film di Aldo Lado, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Aberto Moravia, racconta la storia di un ragazzo che vive la sua adolescenza rifiutando le verità precostituite, infastidito dalle convenzioni e dalle verità di facciata. Luca Manzi, che ha la (s)ventura di vivere durante gli anni della Repubblica di Salò, ha l’occasione di vedere acuita ogni tipo di ipocrisia, in famiglia e fuori. Non sopporta gli opportunisti e cerca rifugio nei princìpi della lotta partigiana, per poi accorgersi che anche quel mondo non fa per lui. Infine, dopo il fallimento dell’ideale romantico della battaglia da eroi, trova una via d’uscita prima nella malattia – che gli permette di vivere in un protratto torpore – e poi nell’amore, cui viene iniziato da due donne più grandi: Edith, interpretata da una Teresa Ann Savoy appena venticinquenne, e Angela, impersonata dalla trentacinquenne Stefania Sandrelli.

«Egli sentiva che il mondo gli era ostile; e che egli era ostile al mondo; e gli pareva di condurre una guerra continua ed estenuante contro tutto ciò che lo circondava», dice Moravia nel suo romanzo, tratteggiando il carattere del giovane ribelle. Fondamentalmente Luca, interpretato nel film dal sedicenne Karl Zinny, disubbidisce alla vita, non accetta il corso delle cose, non aderisce alla vocazione dell’esistenza di partecipare a tutto ciò che viene offerto. Non accoglie l’invito rivolto da Gide a vivere con voracità i nutrimenti terrestri, non vive l’attimo fuggente, è bloccato in un’apatia cristallizzata e sembra non volersi svegliare da questa sua stasi prolungata. Aldo Lado fa del personaggio del romanzo di Moravia una specie di “bell’addormentato” utilizzando i canoni narrativi della favola, opportunamente patinata da un soffuso erotismo. E come in una fiaba, a un certo punto della sua vita, Luca viene svegliato dal “bacio” di Angela, l’avvenente trentenne che gli fa conoscere il vero amore e al contempo lo inizia al sesso.

Prima di questo risveglio tutto è vissuto filtrando la realtà. Il regista riesce perfettamente a dare l’idea di questa esistenza trascorsa attraverso un diaframma, non aggredendo mai la quotidianità, ma osservandola da dietro un filtro mentale. Non a caso nelle prime sequenze Lado introduce il tema del Va, pensiero verdiano suonato al violoncello dal padre di Luca: una musica qui intesa come suggerimento di una supremazia delle immagini psichiche. Tutto, in questo film crepuscolare, è visto attraverso un velo, metafora della distanza e del distacco dalla vita vera: le tende ricamate, la foschia della laguna di Venezia, la malattia che intorpidisce attraverso ricordi che accentuano e deformano l’esperienza. Luca vive in uno stato di perenne sonnolenza, di narcosi, dove si vuole dimenticare tutto, opporsi pigramente alla realtà, concedendosi a un senso di voluttuosa apatia. Capisce il suo gioco Dario (Jacques Perrin), il dottore, che si rende conto di come non voglia guarire e arriva a diagnosticare «un rigetto psicologico verso la vita».

Il personaggio si inquadra perfettamente nel contesto in cui finge di vivere. Lado lo presenta come un anti-eroe viscontiano: fin dal principio evoca indirettamente Morte a Venezia (1971), con la barchetta che si muove sull’onda della musica lieve e sussurrata di Ennio Morricone fendendo con dolcezza l’alba sulla laguna, i cui colori sono distillati da un Dante Spinotti molto ispirato. Poi, per contrasto, si entra nel vivo della narrazione con un inseguimento concitato di Luca – braccato in casa dalla vitalissima Angela – e con lui, sfinito, che si lascia andare tra le braccia di lei. «Obbedire. No, non voglio», dice il protagonista, fissando il concetto che dominerà tutto il film. Poi, secondo un andamento altalenante, ondivago, si ripiega puntualmente su momenti di grande stasi, per esempio quando il ragazzo ritorna a essere viscontiano e, simile a un piccolo Von Aschenbach, nel torpore del Lido, “subisce” la sua iniziazione sentimentale su una sdraio, con l’Hotel Excelsior sullo sfondo.

Procedendo per assonanze, in un certo senso Luca, nella lettura che ne dà Lado, è anche una versione giovane del Narratore della Recherche proustiana. Il regista regala al ragazzo la stessa compiaciuta indolenza nel ricordare la propria vita in loop, senza sosta, con la differenza che Luca possiede un repertorio molto più esiguo di memorie le quali, così, vengono dilatate e diluite, dilungate forzatamente ed estese secondo il suo bisogno di costruirsi una realtà alternativa.

A volte questa costruzione concepita dal giovane per schermarsi e schermirsi assume la dimensione della rappresentazione, di un’impalcatura psicologica creata per frapporre un muro invisibile tra sé e gli altri, destinato comunque a segnare i confini di una prigione. Per dare materialmente l’idea di questa barriera ideale (resa anche dalle scenografie di Mario Garbuglia, uno tra i più assidui collaboratori di Luchino Visconti), nei flashback Lado introduce spesso luoghi dove si imita la realtà: il teatro Goldoni in cui irrompono i partigiani, costringendo a far cantare L’Internazionale ai fascisti; la cabina di proiezione del cinema in cui lavora Tonino; il café-chantant in stile La caduta degli dèi (1969), dove i genitori di Luca si esibiscono per i nazisti; il salotto buono in cui la madre del protagonista, cambiato il vento, canta per gli americani.

Queste sono le rappresentazioni richiamate volontariamente alla memoria da Luca. Poi ci sono altri momenti teatrali indesiderati: di notte il ragazzo, mezzo malato, assiste suo malgrado alle incursioni dell’amante di uno o dell’altro ospite – tra cui anche Angela con il dottore – alle feste nella villa di famiglia. Per lui questa è una sorta di spettatorialità imposta, sulla falsariga di quanto era successo ad Alex DeLarge in Arancia meccanica di Stanley Kubrick (1971).

Infine, c’è una rappresentazione del protagonista mentre pare guardare se stesso dal di fuori come fosse una proiezione astrale: accade in una tra le scene più suggestive del film, quando Angela e Luca, sfiniti dopo una lunga notte d’amore, sembrano morti e i corvi entrano gracchiando nella loro stanza.

Questa è la vita alternativa selezionata dal giovane protagonista, che quando è costretto a vivere l’hic et nunc è dominato dal suo atteggiamento ostile nei confronti di chi prova avidità verso la vita. Lui, piccolo uomo in rivolta nell’accezione di Albert Camus, si ribella alle convenzioni: non sopporta il padre, che in età avanzata vuole laurearsi (e ci riesce, bluffando, facendosi scrivere la tesi dall’amico professore); non brama il sogno americano di Tonino, suo giovane amico ed ex partigiano; non coltiva l’ideale della famiglia. È un ragazzo-contro, disilluso per natura. Gli esempi che trova sulla sua strada lo disgustano. Soprattutto non sopporta gli adulti che, in un modo o nell’altro, si inquadrano nel sistema: i genitori (Mario Adorf e Marie-José Nat), entrambi votati alla professione di musicisti, ma poi schiavi di un denaro idolatrato anche davanti al talamo coniugale; il professore, voltagabbana e maestro nell’arte di arrangiarsi, interpretato con compiaciuto e consumato virtuosismo da Nanni Loy; Alfio (Marc Porel), capo della brigata partigiana in cui Luca aveva militato giovanissimo, che, finita la guerra, trova il modo di costruirsi una solida carriera in politica, diventando deputato.

Le uniche persone che Luca accetta e rispetta sono Edith e Angela, rispettivamente governante e infermiera. Giovani donne che i benpensanti tendono a guardare con sospetto e, invece, il ragazzo apprezza per l’anticonformismo autentico.

Il pensiero del protagonista riporta per certi aspetti al mondo dei vinti delle canzoni di Fabrizio De André. All’orgogliosa risposta esistenziale di Bocca di rosa, ma anche all’immagine di Un malato di cuore, che nell’omologo del film di Lado vive una sorta di invecchiamento precoce, di vita concentrata, avvertendo in anticipo sui tempi «il tempo sprecato a farti narrare la vita dagli occhi». Edith e Angela lo costringono a scendere a patti con la realtà e, soprattutto, a scegliere. Il regista gioca su un dubbio registro, mostrando che Luca, pigro e indolente quando vive la volontaria reclusione in villa, è in realtà un ragazzo capace di fare scelte importanti, che oppone un senso di virilità all’evidente immagine di debolezza. C’è uno scollamento tra il ragazzo malaticcio che si rigira nel letto e il protagonista delle memorie del dormiveglia, che potrebbe sembrare una specie di piccolo superuomo elaborato dalle fantasie del giovane prigioniero. Ci sono due Luca: quello visibile alla famiglia e quello rivelato dalle donne.

Fuori casa Manzi è un ragazzo sicuro di sé, si fa onore nelle fila della Resistenza e dimostra uno spirito cavalleresco quando a teatro, nel corso dell’incursione dei partigiani, scorge Angela tra le collaborazioniste messe alla pubblica gogna ed esorta i compagni a risparmiarle. Ed è sempre Luca a mantenere l’autocontrollo quando minaccia il padre con la Luger, affondandolo nel dirgli: «Non ti sei mai meritato la mia obbedienza». Ma quell’imperiosa aria da guerriero, che tra l’altro è un lascito del periodo storico di cui fa parte, si dissolve quando le donne decidono di condurre il gioco. Ed è solo allora che Luca, volontariamente, come Pinocchio con la fata turchina, diventa docile e obbediente.

Entrambe legate alle espressioni più semplici e autentiche della vita, Edith e Angela hanno il privilegio di meritarsi l’ammirazione di Luca e quindi di poterlo iniziare alle gioie e ai piaceri dell’amore. O forse è il contrario: gli schiudono il mondo delle passioni e del sesso e quindi si guadagnano la sua stima. È un aspetto controverso, che viene lasciato volutamente in sospeso.

Certo è che Edith e Angela sono per certi versi complementari, due immagini speculari. In una scena Luca, bendato per giocare a nascondino, crede di avere trovato Edith e invece tocca Angela, che sente un’attrazione fisica per il rampollo di casa Manzi. E mentre Angela accarezza voluttuosamente il ragazzo ignaro del fatale errore, Edith, prigioniera dietro il vetro satinato della porta chiusa, lo chiama senza riuscire a farsi sentire. Scoperto l’inganno Luca si arrabbia ma, poi, per una volta accetta la sensuale rapacità, approva la veemenza di Angela che riesce a imporsi su di lui, obbligandolo anche a sconfiggere la malattia. In tal senso la donna, che si procura dagli americani il rarissimo antidoto, è la versione al femminile del Principe azzurro di La bella addormentata nel bosco, in un’inversione dei ruoli classici della fiaba.

Angela è la donna che riesce a vincere la vita. Alfio ed Edith, al contrario, si piegano: il primo, entrato nel sistema della politica, si ritiene «sistemato, finito», mentre la seconda muore prematuramente, in giovane età, soccombendo. Nondimeno, in un’idea di circolarità presente in tutto il film, i caratteri delle due sembrano sovrapporsi, addirittura identificarsi, sdoppiarsi. Sono comunque donne che Luca rispetta profondamente, persone che l’hanno avvicinato alla vita e, ancora una volta, una sua costruzione mentale le rende inattaccabili, quasi perfette. Al punto che l’immagine di Edith non viene intaccata nemmeno quando si scopre essere anche l’amante del padre, oltre a una sua intima amica. D’altra parte, tutta la vita affettiva di Luca è giocata sulla confusione di ruoli e identità, e quando fa l’amore con Angela pare (ma non è certo se sia invece un astuto gioco di montaggio) che pensi alla madre. In tutto questo turbinio di presenze vere e fittizie, persiste l’immagine che Luca ha di Angela, cui perdonerà addirittura il fatto di averlo costretto per la prima volta ad abdicare all’amata malattia, a ubbidire – un estremo atto di capitolazione – accettando l’impossibilità di un rapporto tra loro, chiosando però a denti stretti: «Ma se sarà necessario, continuerò a disubbidire, anche fra vent’anni».

 

CAST & CREDITS

Regia: Aldo Lado; soggetto: Alberto Moravia (dal suo omonimo romanzo); sceneggiatura: Barbara Alberti, Aldo Lado, Amedeo Pagani; fotografia: Dante Spinotti, Paolo Tassara; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Adriana Spadaro; montaggio: Alberto Gallitti; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Stefania Sandrelli (Angela), Karl Zinny (Luca Manzi, come Karl Diemunch), Teresa Ann Savoy (Edith), Mario Adorf (padre di Luca), Marie-José Nat (madre di Luca), Jacques Perrin (Dario), Marc Porel (Alfio), Nanni Loy (il professore); produzione: Nickelodeon Films, Pantheon 1, Rai2, Les Films Molière; origine: Italia, Francia, 1981; durata: 98’; home video: vhs Playtime, dvd inedito, Blu-ray inedito; colonna sonora: Gdm Music.

 

 

 

 

 

 

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