"La corta notte delle bambole di vetro". La verità sul caso di Mr. Moore
Marco R. Locatelli
«La voce sembrava giungere ai nostri orecchi – o, almeno, ai miei –
da una distanza immensa, o da qualche profonda caverna sotterranea»
Edgar Allan Poe, La verità sul caso di Mr. Valdemar
La voce è quella di mister Ernest Valdemar, impegnato a convincere il suo ipnotista d’essere morto. Ciò accade nel racconto omonimo e ancor più nell’episodio di I racconti del terrore di Roger Corman (1963) nella cui sceneggiatura, a opera di Richard Matheson, il trapassato si profonde addirittura in una descrizione di ciò che “vede” nell’Oltretomba. In La corta notte delle bambole di vetro (1971) Gregory Moore (Jean Sorel) ne potrebbe essere a buon titolo un discepolo eretico, dato che, ritrovato esanime in una piazza di Praga (anzi di Malà Strana, letteralmente “piccolo quartiere”, sulla riva sinistra della Moldava: il titolo di lavorazione era, appunto, Malastrana), tenta per tutto il film di richiamare l’attenzione di coloro che lo circondano sulla propria singolare condizione di morto che in realtà vede, sente e, soprattutto, ricorda. «Forse è sempre così quando si muore e non possiamo tornare a dirlo agli altri…»: così il moribondo cinematografico riecheggia il corrispondente letterario. Intanto, anche se il montaggio è attribuito a Mario Morra, nel suo sviluppo presenta chiare tracce del “metodo Arcalli”, che a cavallo tra anni Sessanta e Settanta aveva costituito una vera novità in materia. L’andamento circolare della vicenda, i flashback secchi disseminati per l’intera durata e il loro valore progressivo portano quindi la firma nota di Franco “Kim” Arcalli, il quale tra l’altro, veneziano d’adozione come Aldo Lado, si era trovato più volte a incrociarne la strada. A cominciare da Il conformista di Bernardo Bertolucci (1970), dove quest’ultimo aveva fatto da aiuto regista. Perché dunque non pensare a un intervento “arcalliano” di Lado nella moviola del suo debutto?
I vecchi e i giovani, ovvero i morti e i vivi
Sia chiaro: la Praga che vediamo attraverso gli occhi di Gregory – e quindi di Lado, che scrive oltre a dirigere – non è una città comune, ma un puzzle idealizzato. Sicuramente c’è la città politicizzata che ognuno si aspetterebbe di ritrovare in un film del periodo (1971, con la “primavera di Praga” e la conseguente prova di forza sovietica a base di carri armati per le strade che distavano solo tre anni), richiamata dalla figura del commissario organico al potere e dalla parata militare trasmessa in tv, nonché dai discorsi dell’équipe giornalistica accampata nella capitale. Tuttavia non è questa la preoccupazione principale di Lado. In trasparenza c’è Praga come società degli offesi e dei potenti, le cui tracce sono dispensate a piene mani lungo l’arco del racconto: è questo l’oggetto del reportage del medium Greg, la sua cronaca dal regno dei morti diversamente dotati. La scena del rinvenimento del corpo del protagonista – inerte all’apparenza, ma assai ciarliero de facto – prima dei titoli di testa, con l’intervento dell’uomo privo di gambe, introduce la parata di individui menomati, handicappati o lombrosiani tout court che accompagneranno la vicenda fino in fondo. La nota narrativamente inedita è come tale inquietante popolo non sia per il regista circoscritto a una categoria economica, lavorativa o intellettuale precisa, ma si presenti al contrario trasversale, vedi le fisionomie ripugnanti degli iscritti al nefasto Klub 99. Ci sono freaks palesi e altri più ardui da smascherare, ma comunque riconoscibili. I quali, al solito, sono i più pericolosi. C’è poi la Praga dei Vecchi, che è la peggiore. Al pari dei Grandi Antichi lovecraftiani, la macchina da presa ne scruta le sembianze enigmatiche nella scena in piazza durante il rintocco, dove il luogo pare frequentato (infestato?) unicamente da anonimi passanti ottuagenari; in altra occasione ne fissa la consumata, esangue presenza negli spettatori dei concerti di musica classica. «Mummie da museo delle cere» li definisce Mira (Barbara Bach), ragazza di Gregory, la cui scomparsa è il motore di La corta notte delle bambole di vetro. Vampiri, piuttosto, di un nuovo vampirismo che è generazionale e non sociale, mai soprannaturale. «Sono belli i nostri giovani…», commenta laido un socio della congrega mentre i non-morti postmoderni si riuniscono incalzanti e famelici attorno alla fanciulla, pregustando un laico banchetto di sangue fresco. Greg assiste e riferisce. Peraltro, la messa nera che racconta al culmine del delirio può essere frutto della sua fantasia limitata da uomo della strada.
In ogni caso qui c’è «poca puzza di Dio», per dirla alla Carmelo Bene. E tantomeno del diavolo, ceduto tranquillamente alla Hammer. Al Klub 99 si rubano più volgarmente la vitalità e i sogni dei giovani, farfalle cui è impedito di volare (e l’iniziale titolo di distribuzione era, appunto, La corta notte delle farfalle).
Il make-up che la città indossa per camuffare questa schizofrenia è d’ordinanza, fatto di un’umida, “veneziana” lentezza. Di scena sono figure retoriche ritornanti nel cinema di Aldo Lado: l’ex amante che ancora coltiva una speranza di rivincita (Ingrid Thulin), l’amico giornalista superficiale con una zona d’ombra nel carattere (Mario Adorf), l’avvocato subdolo eccessivamente disponibile interpretato da José Quaglio, futuro volto feticcio del regista. Le musiche di Ennio Morricone, poi, accompagnano l’abbrutimento di maschere utili a mandare avanti gli ingranaggi disturbanti dell’umanità secondo il regista fiumano. Certi messaggi arrivano ugualmente forti e chiari anche torturando… un pomodoro – simbolo dell’essere vivente da dominare – come fa il professor Karting (Fabian Šovagović), altro socio del club di mostri monitorati da Greg.
Finale di partita con dubbi
L’orgia dei Grandi Vecchi nudi, impegnati ad assorbire l’energia vitale della preda sacrificata che Moore/Valdemar ci descrive, anziché chiuderli genialmente apre nuovi scenari d’incomprensione: è realtà o delirio del febbricitante protagonista gettato da ignoto nella gelida Moldava? La vittima che questi osserva essendone osservato è Mira – come appare di sfuggita anche in precedenza – o un altro, sconosciuto “agnello”? E se si tratta di Mira, lo sguardo lascivo che gli rivolge sta a significare che la ragazza è scomparsa per arruolarsi nel multinazionale Klub 99 o che, al contrario, lo ha rifiutato ed è stata “addormentata” per punizione? Ma soprattutto, è il regime comunista a reprimere la gioventù della primavera di Praga o il consumismo che promette ricchezza e sesso? Aldo Lado interrompe bruscamente i contatti con il suo corrispondente dall’Altro Mondo e non lo sapremo mai. Del resto, che Moore nel finale venga chiaramente giustiziato non significa nulla. Come al solito non ci crederà nessuno, come afferma sconsolato un altro Poe in un altro film.
CAST & CREDITS
Regia: Aldo Lado; soggetto: Aldo Lado; sceneggiatura: Aldo Lado; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; scenografia: Gisella Longo, Želiko Senečić (come Zeliko Senecic); costumi: Gitt Magrini; montaggio: Mario Morra; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Jean Sorel (Jacques Versain), Barbara Bach (Mira Cerkova), José Quaglio (Valinski), Fabian Šovagović (professor Karting), Relja Basic (Ivan); produzione: Rewind Film, Surf Film, Dieter Geissler Filmproduktion, Doria G. Film, Dunhill Cinematografica, Jadran Film; origine: Italia, Germania Ovest, Jugoslavia, 1971; durata: 97’; home video: dvd Surf Video, Blu-ray Camera Obscura (import Germania); colonna sonora: Dagored.