The Midnight Club. Il potere terapeutico del racconto (e della serialità)

Ilaria Floreano
Mike Flanagan n. 16/2023

«È il segreto del mondo che tutte le cose
sopravvivono e non muoiono,
ma si ritirano un po’ dalla vista,
e poi ritornano»
(Ralph Waldo Emerson)

Per via delle traiettorie misteriose del caso, della necessità di mantenere una qualche forma di condivisione tra coniugi guardando insieme almeno un prodotto ogni tanto tra i milioni delle sei diverse library ormai a disposizione in casa, del desiderio di trasformare il ritardo accumulato nella lavorazione di questo INLAND (in cantiere da due anni) da minus a plus (poterlo pubblicare completo anche dell’ultimo lavoro del suo oggetto di studio), mi è capitato di vedere – una dopo l’altra – la quarta stagione di Boris e l’ultima fatica di Mike Flanagan, The Midnight Club. Il che ha generato uno strano effetto.
La serie del «daidaidai» e dello «smarmella», che tra il 2007 e il 2010 aveva fatto comicamente a pezzi vizi e vezzi della fiction nostrana è tornata, dodici anni dopo e con uno sceneggiatore in meno: Mattia Torre, che con Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico tante risate e sguardi intensi così italiani ci aveva regalato, è morto nel 2019 a quarantasette anni, a causa di un tumore al rene. E con un incipit folgorante in cui viene snocciolato il rosario di tutte le novità apportate alla scrittura e alla direzione per la tv dal nuovo modello di produzione e distribuzione streaming. A farla da padroni sono i piani (alti) americani, che per poter fornire il lock (cioè il via alla lavorazione) hanno bisogno quantomeno di un trauma originante del protagonista e di una linea teen, di un cast con minoranze etniche e di una troupe con un paio di elementi gender fluid o sessualmente “alternativi”. Se queste esigenze, alla Vita di Gesù che l’ineffabile René Ferretti vorrebbe girare con protagonista Stanis La Rochelle (anche produttore, altro nuovo adagio), creano evidentemente più di un problema, per Mike Flanagan si tratta di regole accertate con cui si trova perfettamente a proprio agio (sulle sessualità presenti all’interno delle sue crew però non ci sbilanciamo): colui che ha realizzato piccoli gioielli come The Haunting (Hill House e Bly Manor, rispettivamente da Shirley Jackson e Henry James) e – soprattutto – colui che ha scritto e diretto Midnight Mass, straordinaria e abissale opera horror che decostruisce nientepopodimeno che la teologia cristiano-cattolica, non può tremare di fronte a siffatte formalità.
Ma da spettatrice, ho sorriso di fronte al momentaneo sfiorarsi tra i due pianeti agli antipodi e al cospetto dei diktat irrisi nel primo e applicati nel secondo. In The Midnight Club – ispirato all’omonimo romanzo del 1994 di Christopher Pike – Flanagan si ritaglia il ruolo di showrunner, affidando la regia dei dieci episodi da circa un’ora l’uno a regist* divers*; ha un cast quasi totalmente composto da attori giovanissimi; che interpretano personaggi etnicamente e gendericamente variegati (ci sono la cinese, gli afroamericani, l’indiano, il caucasico; e un paio di rappresentanti della comunità LGBTQIA+ quando ancora non si chiamava così). Quanto ai traumi originanti ce n’è per tutti i gusti, considerato che i nostri goonies sono tutti malati terminali – chi per cancro chi per AIDS (la serie è ambientata nel 1994 esattamente come il romanzo, anche se il titolo viene stampigliato con un font molto Eighties).
Ilonka, Kevin, Natsuki, Amesh, Cheri, Spencer e Anya (interpretata da Ruth Codd, TikToker con una gamba amputata) sono adolescenti che hanno deciso di trascorrere gli ultimi mesi della propria vita a Brightcliffe, hospice diretto dalla dottoressa Stanton, comoda ed elegante casa vittoriana costruita decenni prima e circondata da boschi con ruscelli, in cui l’obiettivo – stando alle parole della dottoressa, che ha avuto l’intuizione dopo aver perso un figlio per malattia – è concedere una parte di autodeterminazione, volontà e pace a persone che ne sono state quasi totalmente private e anziché “avere una vita davanti”, davanti – e a distanza ultra ravvicinata – hanno solo la morte.
Persone giovani che, per questo motivo, trascorrono il loro tempo preparandosi alla fine, ciascuno come gli viene: chi andando in depressione, chi pompandosi di vitamine, chi arrabbiandosi, chi come Ilonka – l’ultima arrivata, promettente studentessa patita di Mary Shelley stroncata dalla diagnosi di tumore maligno alla tiroide – perseguendo con tenacia una traccia di rituali di guarigione ispirati agli dèi greci, lasciata dietro di sé dalla setta Paragon che per prima ha occupato le stanze di Brightcliffe.
Ilonka, da buona secchiona, ha fatto le sue ricerche e scelto di trasferirsi dalla dottoressa Stanton dopo aver letto la storia di Julia Jayne, una delle prime inquiline del ricovero negli anni Sessanta, come lei malata terminale alla tiroide, eppure miracolosamente guarita. E partendo da infusioni di tè speciale, convinta che intorno a Brightcliffe ci sia una fonte o un terreno che contiene elementi magici in grado di farla sopravvivere, ulteriormente aizzata dal ritrovamento di un diario lasciato dalla fondatrice della setta (identificato dal simbolo della clessidra, due triangoli uniti in punta, uno riempito e l’altro vuoto, la Terra e il Cielo, perpetuamente invertibili e scambiabili) trascina nella sua affannosa, commovente indagine tutti i membri del Midnight Club.
Questo è il nome altisonante con cui a Brightcliffe si chiama il gruppo degli ospiti che, ogni sera a mezzanotte nell’arco dei mesi che sono loro concessi dalle rispettive malattie, si ritrovano davanti al fuoco crepitante nel camino per raccontarsi storie (anche se «“Creiamo fantasmi” suona meglio di “raccontare storie”»). Storie per farsi paura, storie per darsi coraggio. Storie che rapidamente capiamo essere meno fantasiose e più autobiografiche di quanto si potrebbe pensare di primo acchito (d’altronde viene dichiarato a metà del primo episodio, alla prima – per noi spettatori – riunione del club: «Noi siamo storie». E riecheggiato variamente in battute successive come «Scrivi di ciò che conosci», «Il suono delle storie è il suono della vita»). Storie che, a livello di messa in scena e in quadro, di fotografia e di drammaturgia, consentono di cambiare stili, colori, interpretazioni, in una frenesia (auto)citazionista e talvolta cinefila incontenibile.
Novello Boccaccio in salsa horror, Flanagan, mutuando Pike, sfrutta la cornice del racconto nel racconto facendo sfoggio di tutto ciò che ha amato da lettore e spettatore (può darsi che l’ossessione dichiarata di Ilonka per la Shelley sia anche la sua?) e che ama rielaborare e restituire in veste di sceneggiatore e regista.
Come si sarà capito dal breve riassunto di poc’anzi, in effetti, The Midnight Club evolve nel segno della sovrabbondanza: di rimandi, di generi, di trame e sottotrame. L’autore di Salem, insieme a Leah Fong che con lui ha ideato la serie, riesce a controllarle e in parte contenerle – forte della sua esperienza e della sua padronanza granitica delle tecniche di storytelling – ma non sempre ad approfondirle, correndo spesso il rischio della ripetitività implicito nello schema alla Decameron. Sfruttando le storie proposte dai ragazzi ragiona teoreticamente sul suo genere d’elezione e lo fa entrando in medias res, con 21 jumpscares nella sola prima puntata; mettendo subito le carte in chiaro quando fa criticare la storia di Natsuki da Spencer: «Scary doesn’t mean startling»; sfoderando forse per intero l’arsenale dell’horror (e del thriller, e del mistery, e del giallo), personale e tout court: ombre palpitanti, morti-viventi che grattano le finestre, libri scritti con il sangue, ritratti a olio che brulicano di pipistrellini, revenants assortiti, occhi rossi che si spalancano nel buio, voci che sussurrano, porte che si aprono o chiudono da sole (ma è davvero così?), allucinazioni visive e uditive (spettacolare il primo trasbordo temporale dagli anni Novanta ai Trenta, in cui il corridoio di Brightcliffe muta aspetto e, tra canzone gracchiante dal grammofono e grana tremolante simil-pellicola dell’immagine, gli shivers down the spine sono assicurati). E ancora strade inghiottite dalla nebbia, neonati che piangono nella notte, fantasmi nello specchio e alle spalle, forme inquietanti che colano dal soffitto, madri dementi, omicidi seriali, Dottoresse Jekyll e Signore Hyde (ma c’è sempre una spiegazione logica, più o meno razionale, dovuta ai medicinali, alla memoria, all’autosuggestione…). Omaggia il cinema nineties inquadrando la locandina di Dazed and Confused di Richard Linklater (1993), nominando un cult come Terminator di James Cameron (1984 – e va sottolineata la perizia nella ricostruzione dell’ambiente, tra videoregistratori e negozi di videogiochi). Prima ancora il noir, realizzando un intero segmento in bianco e nero, con tanto di tende a liste che ombreggiano e il tocco ironico, molto health-friendly, dello stuzzicadenti che sostituisce la sigaretta (c’è una diffusa, sottile ironia in gran parte della serie, e questo è un altro elemento che non ricondurremmo in prima istanza allo stile-Flanagan, semmai all’approccio teen, perdipiù novantesco). C’è persino un richiamo a …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà di Lucio Fulci (1981), con quell’ascensore che conduce al seminterrato in cui si svolgono gli pseudo-rituali pagani, dunque in teoria a un altro mondo.
Ed ecco però che Flanagan, senza dare troppo nell’occhio, anzi confondendoci con questi e mille altri richiami (tra gli altri, giusto per non lasciare intoccato alcun campo dello scibile umano, anche letterari, metatelevisivi e filosofici: nel frammento L’eterno nemico Spencer-cyborg legge La zona morta di Stephen King, Amesh è un patito di X-Files, la morte di Anya è l’occasione per citare Nietschze ed Emerson) trova il modo di dare una zampata. Nonostante i pancini scoperti e la camicie a sacchi in stile grunge, nonostante i Groove Armada e i Green Day, nonostante la comune naturopatica nel bosco guidata da Shasta con relativi discorsi che oggi chiameremmo new age alzando le sopracciglia, Flanagan autore continua il discorso iniziato, con altri termini e risultati drammaturgici, in Midnight Mass.
Là, aveva avuto il coraggio di proporre non solo una serie Netflix incentrata sulla religione (con tutto ciò che ne consegue in termini di riflessioni esistenziali sull’essere e il non essere), ma pure, all’interno di queste stessa serie, dieci minuti (dieci!) di monologo a testa a due dei suoi attori feticcio, Kate Siegel e Zach Gilford (che torna in Midnight Club nei panni un po’ a margine dell’infermiere di Brightcliffe), in cui la prima descrive la sua idea di dopo-morte come un paradiso riempito della gioia infinita della risata di una bambina piccola, e il secondo come un’esplosione in milioni di atomi di tutto ciò che c’era e non ci sarà mai più.
Qui, si ricollega costantemente a queste due opposte visioni (Sandra invita a riempire il vuoto di senso con Dio, per non essere preda di tutto il vaneggiante resto; nella sua lettera di addio, Anya conclude dicendo «Sono una supernova»), articolandole piano piano ma indefessamente, lasciando sullo sfondo il tema della malattia – che pure potrebbe essere centrale – per tornare ancora e ancora sul tema dei temi. Su quel morire che più di qualunque zombie, più di qualunque taglio nella carne, più di qualunque prognosi nefasta o apparizione nel buio sconvolge e terrorizza, e tuttavia «è davvero un motivo del cazzo per non vivere». Su quel vivere sapendo – in maniera più chiara degli altri, i “sani” – di essere destinati a scomparire che, insieme alla malattia, può definirti al punto che una «remissione totale» diventa una seconda condanna anziché un motivo di felicità («Non mi sento salvata, mi sento masticata e sputata»), e una «diagnosi sbagliata» (l’unica guarigione miracolosa possibile, con buona pace di Ilonka e Shasta) con conseguente ritorno alla vita “normale” una cosa di cui informare con timore gli altri, gli amici le cui diagnosi sono invece fatalmente corrette, i futuri sommersi.
La zampata di Flanagan autore sta in questo pervadere ogni dialogo, ogni jumpscare, ogni rumore sinistro e ogni ammiccamento di tale riflessione sulla morte, e sulla vita. E in questo convincersi e convincerci – forte della forma, più ancora che della sostanza – che esiste un modo assai valido per affrontare la convivenza assurda, un modo che probabilmente anche il nostro Mattia Torre aveva adottato: affidarsi alle storie.
Prendersi cura della propria, e di quelle degli altri.

CAST & CREDITS
Regia: Mike Flanagan, Axelle Carolyn, Michael Fimognari, Viet Nguyen, Morgan Beggs, Emmanuel Osei-Kuffour: soggetto: Mike Flanagan, Leah Fong dal romanzo omonimo di Christopher Pike; sceneggiatura: Mike Flanagan, Leah Fong, Julia Bicknell, Jamie Flanagan, Elan Gale, Chinaka Hodge; fotografia: James Kniest, Michael Fimognari, Corey Robson, Lindasy George; scenografia: Laurin Kelsey; costumi: Terry Anderson, Gabrielle de Barry; montaggio: Brian Jeremiah Smith, Byron Smith, Lucy Donaldson; musiche: The Newton Brothers; interpreti: Iman Benson (Ilonka), Igby Rigney (Kevin), Ruth Codd (Anya), Annarah Cymone (Sandra), William Chris Sumpter (Spencer), Adia (Cheri), Aya Furukawa (Natsuki), Sauriyan Sapkota (Amesh), Heather Langenkamp (Dr. Georgina Stanton), Matt Biedel (Tim), Samantha Sloyan (Shasta), Zach Gilford (Mark), produzione: Intrepid Pictures; origine: USA, 2022; durata: 10 episodi; home video: inedito; piattaforma: Netflix.

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