Somnia. Dalle case infestate ai sogni infestati: i fantasmi della mente
Mattia Caruso«“È dentro la mia testa” pensò Eleanor, coprendosi il volto con le mani.
“È dentro la mia testa e adesso esce fuori, esce fuori, esce fuori…”»
L’incubo di Hill House, Shirley Jackson
Ha un nome che è già una dichiarazione di intenti il terzo lungometraggio di Mike Flanagan, Before I Wake (2016). Un titolo (Somnia, da noi) che traccia confini e li riempie, chiuso in quella dimensione tra sonno e veglia, realtà e allucinazione che contraddistingue tutta la vicenda.
Parla da sempre la lingua delle storie di fantasmi, del resto, il cinema del regista di Salem. Storie liminali per definizione, spesso ambivalenti, capaci di segnare una filmografia sempre giocata, come i migliori esempi del genere, sulla sottile linea di demarcazione tra soprannaturale e inconscio, tra un “male esterno”, direbbe un autore caro a Flanagan come Stephen King, e uno irrimediabilmente “interno”1. Il terreno ideale, insomma, per accogliere l’irriducibile anima melodrammatica del regista, la sua attenzione – presente ben prima dell’irrompere dell’orrore – verso i sentimenti di famiglie tormentate da un passato ingombrante e da lutti difficili, se non impossibili, da elaborare.
Una formula, fatta di case infestate e fantasmi spesso più emotivi che reali, ben rodata e da cui pare non scostarsi, almeno in prima battuta, nemmeno un film come Somnia. Opera che parte proprio dal lutto di due genitori per la perdita del figlio e dai tentativi, anche drastici, di superarlo, ed evolve in un horror pronto a concretizzare le loro paure in presenze misteriose e fuori dall’ordinario.
Per farlo, come di consueto, Flanagan ricorre a un immaginario preso in prestito dagli universi orrorifici a lui da sempre più congeniali, tanto letterari quanto cinematografici. Un calderone in cui le diverse suggestioni prendono posto in ordine sparso, dove Stephen King convive (ben prima dell’adattamento di Doctor Sleep [2019]) con lo Shining [1980] kubrickiano – tra bambini dai poteri misteriosi e vasche da bagno teatro dell’indicibile. Dove attori “kinghiani” come Thomas Jane si ritrovano in un mondo che guarda all’ambiguità degli immancabili L’incubo di Hill House e Il giro di vite (versioni cinematografiche comprese) ma non disdegna nemmeno le strizzate d’occhio esplicite a La casa dei fantasmi di William Castle (1959) e altri classici del genere. Il tutto racchiuso e condensato in uno spazio domestico il più possibile familiare ma pronto, all’occorrenza, a trasformarsi in una prigione asfissiante.
Premesse perfette per dar vita all’ennesima storia di possessioni spiritiche e rapporti disastrati, traumi del passato e un presente diviso tra soprannaturale e disturbi psicologici. Eppure, dal momento in cui il piccolo Cody (Jacob Tremblay) e la sua “luccicanza” varcano la soglia degli Hobson, diventa chiaro come questa volta ci sia dell’altro. Perché il potere di Cody, bambino incredibilmente dolce, buono ed educato2, sballottato non si sa come e perché da una famiglia affidataria all’altra, non si limita, a differenza di Danny Torrance, a svelare l’invisibile, ma palesa, creando direttamente i propri fantasmi, gli stessi meccanismi di senso che regolano le apparizioni spiritiche, rendendo esplicita e concreta l’idea del fantasma come entità generata dall’inconscio.
Ma andiamo con ordine. Dopo che i coniugi Jessie e Mark Hobson (Kate Bosworth e Thomas Jane), reduci dalla recente morte in un incidente domestico del loro unico figlio Sean, hanno deciso, nel tentativo disperato di “voltare pagina”, di adottare Cody, cose strane iniziano ad accadere la sera: misteriosi e colorati sciami di farfalle irrompono nella tranquillità del loro soggiorno, per poi sparire altrettanto misteriosamente, mentre oscure presenze sembrano attendere fameliche ai margini della scena. Una volta capito che le apparizioni sono il contenuto dei sogni del bambino, il quale, dormendo, dà vita al proprio subconscio (a partire dai suoi “resti diurni”, in questo caso i libri sulle farfalle che legge cercando di non addormentarsi), diventa chiaro come Flanagan inserisca nel suo universo orrorifico una nuova variabile. Aggiungendo al binomio fantasmi-inconscio il sogno, il regista introduce infatti un ulteriore livello di senso per parlarci, ancora una volta, della memoria, della mancanza e del peso sostanziale delle immagini a esse collegate. In questo passaggio – che potremmo definire dalle case (o dalle cose, vedi Oculus [2013]) infestate ai sogni infestanti, dai fantasmi ambiguamente reali a proiezioni dichiarate dell’inconscio – il cinema di Flanagan diviene dunque il tentativo di mettere in scena le dinamiche mentali ed emotive dei suoi personaggi attraverso le logiche del sogno e la legge del desiderio.
Seguendo quasi pedissequamente l’Interpretazione dei sogni di Freud, secondo cui i sogni sono l’appagamento mascherato di un desiderio rimosso e represso3, Somnia si trasforma così in un piccolo (ed elementare) manuale psicanalitico virato al nero, tra un passato dimenticato e uno che si vorrebbe disperatamente far tornare.
«Insonnia significa assenza di sogni. E cosa sono i figli se non un sogno?», viene detto, proprio da uno psichiatra, a una Jessie Hobson incapace di dormire dopo la morte del figlio. Cosa sono, cioè, se non la manifestazione di un desiderio profondo dei genitori? Ma se le cose stanno così, se sogno e desiderio sono davvero interconnessi, non è forse logico, allora, che proprio il sogno possa essere il mezzo di ricongiungimento con quei figli perduti?
Pare porsi questa domanda, Jessie, quando – una volta capito come attivare i poteri di Cody (influenzando, cioè, le sue esperienze diurne attraverso foto e video di Sean) – è portata a desiderare, per interposta persona, di riabbracciare il figlio scomparso. Un evento che avverrà puntualmente, ma non senza conseguenze.
Attenzione a ciò che si desidera, sembra dirci Flanagan in una scena che ricorda, oltre al Pet Sematary dell’onnipresente autore di Bangor, il celebre racconto di William Wymark Jacobs La zampa di scimmia, perché l’incubo è appena dietro l’angolo. E non è solo l’abuso (un altro tema ricorrente nel mondo del regista statunitense) che Jessie compie su Cody a sconvolgere lo status quo della famiglia, ma anche ciò che di inespresso e dimenticato il bambino si porta dietro. L’oscuro Uomo Cancro, babau grezzo e naif che presto irrompe negli idilli onirici di Cody sovvertendoli, non è altro che l’ennesima concretizzazione di un’immagine mentale inconscia e latente, un rimosso ambulante che sa di senso di colpa e terrore infantile. La malattia, la morte e la perdita della madre biologica, vissute da un bambino troppo piccolo per comprenderle ed elaborarle, diventano così, attraverso la deformazione onirica, il vero demone da sconfiggere, il vero spettro in attesa di redenzione.
Uno spettro pericolosamente concreto ed esplicito, quello messo in scena dal regista, che trasporta la vicenda, per citare ancora Stephen King4, dal terrore all’orrore, dal Male suggerito delle storie di fantasmi – sia L’incubo di Hill House o il racconto di Jacobs – a uno più manifesto e terribilmente tangibile, portando il mostro a un altro livello di realtà. Ma, come nel quasi contemporaneo Babadook di Jennifer Kent (2014), è comunque un mostro con cui bisogna scendere a patti quello che tormenta i protagonisti. Nessun esorcismo o facile vittoria è possibile in questi mondi dove l’orrore è esplicitato e si confonde con la patologia mentale e con l’inconscio. L’unica soluzione, casomai, è la drammatica consapevolezza che con il dolore, una volta smascherato e guardato in faccia, si può imparare a convivere.
Somnia, attraverso la liberazione di un bambino dalle sue paure, diventa così anche il viaggio speculare di una donna che non solo sconfigge le proprie, ma impara a guardare le immagini che consuma e, così facendo, a gestirle. Cosa sono, del resto, quei sogni proiettati dalla mente di un ragazzino addormentato se non la messa in scena di un immaginario orrorifico in fieri, modellato sui desideri e i timori di personaggi divenuti un tutt’uno con gli spettatori? E quell’uso quasi eccessivo (almeno per Flanagan) degli effetti digitali, con la loro estetica grossolana e derivativa, non sta forse a indicare la natura allucinatoria e artefatta di tutta l’operazione?
Tornando al vecchio concetto di cinema come sogno, alla capacità tutta cinematografica di confondere livelli di realtà distinti fino a dare vita a vere e proprie immagini ipnagogiche o, più significativamente, a «fantasmi coscienti»5, Flanagan finisce così per parlare della sua idea di horror, del desiderio di vedere (un’altra pulsione che si basa sulla mancanza, ci ricorda Christian Metz6) e di un immaginario, nato da questa tensione, che può salvare così come dannare per sempre. Essendo il cinema l’esibizione fantasmatica di una mancanza – quella di un oggetto imprendibile sostituito dal suo riflesso – e, allo stesso tempo, il tentativo di dimenticare tale assenza, diventa chiaro come la vicenda messa in scena da Flanagan sia speculare al meccanismo cinematografico stesso, «una pratica di soddisfazione affettiva»7 che, proprio come il sogno, si basa su un’illusione di realtà. Illusione che porta a confondere immagine e percezione e caratterizza le vite stesse di personaggi che, proprio come spettatori cinematografici, devono credere, sebbene consapevoli si tratti di un inganno. È proprio questa capacità di finzione – per cui un oggetto può «essere allucinato se la sua presenza è desiderata con sufficiente forza»8 – a rendere possibile a Jessie, almeno per un fugace momento, di riabbracciare Sean, di ricongiungersi con quell’oggetto tanto desiderato quanto inafferrabile.
Aspetti, questi, che si ripercuotono, in maniera speculare, anche sul piano estetico e stilistico dell’opera, trovando nello sguardo del regista il mezzo più congeniale per prendere forma.
Così, la tendenza di Flanagan a privilegiare le lente panoramiche e gli svelamenti progressivi a scapito dei soliti, abusati jumpscares, assieme all’abilità nel gestire spazi sempre più claustrofobici, fino all’incubo finale, qui si rivelano estremamente funzionali a una vicenda giocata tutta sull’ambivalenza dello sguardo. Un cinema d’atmosfera, del fuorifuoco piuttosto che del fuoricampo, potremmo dire, che svela quanto basta senza concedersi mai del tutto e che, come tutti i film di suspense, «punta contemporaneamente sull’eccitazione del desiderio e sul suo impedimento»9. Così facendo Flanagan mette in scena non solo le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi ma anche quelle degli spettatori che, con loro, si ritrovano a sognare a occhi aperti, a illudersi, in una sorta di allucinazione condivisa, di colmare un’assenza incolmabile, di ricongiungersi a un fantasma che non è e non sarà mai di questo mondo.
Se è vero che, come un paziente sul lettino di uno psichiatra, il cinema horror, allegorico e simbolico per natura, ci racconta una cosa volendo intenderne un’altra10, Flanagan, nella sua seduta psicanalitica collettiva, fa ciò esplicitamente, senza mezze misure, nascondendo a stento dietro a un film solo apparentemente prevedibile e convenzionale le istruzioni per l’uso di un cinema ancora acerbo eppure ben consapevole dei meccanismi che lo regolano, delle dinamiche umanissime che stanno dietro ai suoi – e ai nostri – fantasmi.
Note
1 King Stephen, Danse macabre, Frassinelli, Milano 2016, p. 290.
2 «La sua presenza era tale da rimuovere ogni altra sensazione che non fosse fondata sulla tenerezza più appassionata. Quello che lì per lì mi conquistò fu qualcosa di celeste che non ho mai più trovato, nello stesso grado, in altri bambini: la sua indescrivibile aria di non conoscere altro al mondo se non l’amore»: James Henry, Giro di vite, Mondadori, Milano 1989, p. 25.
3 Freud Sigmund, L’interpretazione dei sogni, Newton Compton, Roma 2006, p. 135.
4 King Stephen, op. cit., p. 35.
5 Metz Christian, Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia 2006, p. 138.
6 Ivi, p. 71.
7 Ivi, p. 117.
8 Ivi, p. 120.
9 Ivi, p. 92.
10 King Stephen, op. cit., p. 42.
CAST & CREDITS
Regia: Mike Flanagan; soggetto e sceneggiatura: Mike Flanagan, Jeff Howard; fotografia: Michael Fimognari; scenografia: Patricio M. Farrell; costumi: Lynn Falconer; montaggio: Mike Flanagan; musiche: Danny Elfman, The Newton Brothers; interpreti: Kate Boswmorth (Jessie), Thomas Jane (Mark), Jacob Tremblay (Cody), Annabeth GIsh (Natalie), Dash Mihok (Whelan), Jay Karnes (Peter), Lance E. Nichols (Detective), Topher Bousquest (Canker Man); produzione: MICA Entertainment, Intrepid Pictures, Demarest Films; origine: USA, 2016; durata: 97 minuti; home video: edizione ITA blu – ray/dvd, Midnight Factory