A guardar bene, la messa a tema di Oculus. Il riflesso del male (2013) è tutta nella prima sequenza.
Guardare bene, appunto. Guardare per vedere. Ma vedere cosa?
L’occhio è protagonista della prima inquadratura in close-up sul piccolo Tim che, terrorizzato, segue i movimenti del padre attraverso la fessura di una porta. Il bambino osserva, poi agisce in una scena rutilante: una corsa giù dalle scale con la sorella Kaylie, una breve pausa ansiogena, la visione di uno spettro non (ancora) identificato, l’irruzione di un individuo adulto che, pistola in mano, punta l’arma contro Kaylie. La messa a fuoco è lenta, la sentenza è inappellabile: l’individuo non è il padre da cui i bimbi stanno fuggendo, bensì un ragazzo.
Un colpo di pistola e un taglio di montaggio secco: lo stesso ragazzo è nello studio del suo psicanalista. È anch’esso Tim.
Nel 2013 la vista è già un senso sdrucciolevole, nel cinema di Flanagan. Il punto di vista, di conseguenza, è perennemente mobile, in bilico, incerto. In apertura d’opera lo spettatore ha subìto due disorientamenti in una manciata di minuti: la narrazione, da oggettiva, si è fatta pienamente soggettiva (il pdv, che si credeva esterno, era in realtà del Tim ragazzo); la messa in scena, da razionale (sempre e comunque all’interno di una cornice horror, dove gli spettri sono compresi nel verosimile diegetico), è deragliata sul piano onirico.
Non solo.
I due Tim che lo spettatore ha di fronte in chiusura di prologo – bambino accanto alla sorella, ragazzo di fronte a lei – contengono l’altro asse simbolico portante su cui lavorano Oculus e, più in generale, buona parte dell’arte di Flanagan: il doppio, inteso in chiave identitaria – la scissione psichica, la perdita di sé, la mancanza di riconoscimento, il doppelgänger – e in ottica (parola scelta non a caso) illusoria. Il doppio è l’inganno allo spettatore (il Tim ragazzo che non ti aspetti nel prologo) e ai personaggi (i ripetuti e fatali trabocchetti compiuti in due tempi, passato e presente, ai danni della famiglia Russell). Il doppio è l’arma con cui fare esplodere il reale diegetico in una marea di schegge impossibili da rimettere in ordine a una prima fruizione d’opera.
Ma se il doppio è l’arma, chi è l’assassino?
Si chiama specchio di Lasser e la sua storia risale a quattro secoli prima del 2002 (narrazione al passato) e del 2013 (al presente) diegetici. Disidratati, dimagriti e poi impazziti, nell’arco di quattrocento anni i suoi quarantacinque possessori sono stati plagiati e poi indotti a omicidi e/o suicidi a dir poco macabri. Lo apprendiamo da un breve resoconto che Kaylie somministra al fratellino, di ritorno dall’ospedale psichiatrico e subito coinvolto nel di lei progetto di vendetta sull’infernale oggetto.
Flanagan torna a maneggiare il Lasser sette anni dopo il suo cortometraggio Oculus: Chapter 3 – The Man with the Plan1 (2006), dove ne aveva raccontato la leggenda con una produzione artigianale in confezione semplice: un uomo in una stanza, impegnato a smascherare la natura infernale dello specchio, finiva per ammattire e diventarne l’ennesima vittima. Il fatto che l’uomo in questione si chiamasse Tim Russel rende legittima l’ipotesi che Oculus sia di fatto un prequel di quel corto indipendente. Legittima e impossibile – al termine del lungo, Tim viene nuovamente internato in istituto – ma suggestiva.
Produzione Intrepid Pictures, con sigillo di qualità apportato dalla factory Blumhouse, l’evoluzione in lungometraggio di quell’esperimento non è che l’estensione estetica, drammaturgica e ritmica del nucleo teorico originario. Beneficiando di un buon budget (circa 5 milioni di dollari), Flanagan costruisce e restituisce con precisione millimetrica un mondo i cui piani vengono continuamente intrecciati, sovrapposti, ribaltati ma mai esteticamente compromessi.
Ed è qui la prima, grande forza di Oculus: fare a pezzi i punti di vista e la credibilità del reale filmico senza la benché minima variazione di registro. L’autore, ancora in erba, muove la macchina da presa con quella cadenza sapiente e misurata che sarà perfezionata ed elevata a cifra nelle opere a venire. Senza scomodare Stanley Kubrick e il suo Shining (1980), lo studio dell’inquadratura è la base dell’arte di Flanagan, tantopiù se a farla simbolicamente da padrone è il suddetto specchio che, spesso, induce il linguaggio ad adeguarsi alla sua grammatica. E se visivamente molti fotogrammi appaiono appunto speculari – dall’esattezza dei campi/controcampi alla bipartizione di molte inquadrature – è nell’editing che questa schizofrenia trova un contrappunto mirabile. Artefice in prima persona del montaggio, il regista di Salem compie un’opera di assimilazione tra il collasso percettivo messo in atto e il sistema di consecutio temporum narrativa. In parole povere: se in un primo momento la storia procede a rette parallele temporali (il 2002 della famiglia Russell e il 2013 dei fratelli ormai cresciuti) che tra loro si specchiano, appunto, in un gioco di continui rimandi causa-effetto (al crollo psichico indotto dal Lasser al pater familias Alan e a sua moglie Marie seguono quelli dei loro figli), con il procedere della storia le linee si fano convergenti grazie proprio al montaggio, che intensifica gli interscambi e accorcia la frequenza con cui i singoli segmenti sono alternati. Passato e presente si fondono in un unicum che, a conti fatti, era stato anticipato da quel prologo in cui i “due Tim” erano compresenti. E alla congiunzione temporale fa eco la moltiplicazione degli inganni percettivi, sempre più profondi e invasivi (Kaylie che addenta una lampadina credendola mela, salvo scoprire che mela lo è davvero).
Lo specchio, dunque. Simbolo di identità ma anche di vanità, di immagine, ed è anche su questo versante che lavora Flanagan, utilizzando l’horror come strumento teorico privilegiato per una riflessione sul contemporaneo. Immerso negli anni del boom di Facebook, il film guarda al significato e alle perversioni nascoste nella proiezione dell’immagine di sé attraverso lo specchio dei social network2. Risulta difficile non pensare al fenomeno della pubblicazione fotografica sui profili personali nel momento in cui Marie Russell, pietrificata dall’ansia, fissa lo specchio di Lasser che troneggia nello studio del marito. Al di qua dello schermo, della “finestra”, la donna ha uno sguardo terrorizzato. Ma l’immagine riflessa ghigna, ammicca, tra il minaccioso e il seducente. E quante volte l’utente social, pur preda delle difficoltà e dei malumori del quotidiano, posta immagini e riflessi di sé sorridenti e a loro modo sexy? È all’interno di questa distorsione che opera Oculus, testo abissale in forma minima sulle relazioni tra l’individuo e la sua auto-rappresentazione filtrata (filtro: altro termine profondamente social; Snapchat, in quegli anni, inizia a imporsi con prepotenza) e in qualche modo perversa, drogata, manomessa dallo stesso medium filtrante.
Non è un caso, a questo proposito, che lo specchio Lasser corrompa dapprima le piante, disidratandole fino a ridurle a scheletri, e immediatamente dopo i supporti e i sistemi tecnologici. Annientando gli elementi primi della natura, sposta il campo di battaglia sul versante della tecnologia e lì affonda i colpi: le telecamere installate da Kaylie nella stanza dell’esperimento (quella ereditata dal protagonista di Oculus: Chapter 3, per intenderci) iniziano a cambiare posizione e filmare quel che il male gli mette di fronte; il telefono fisso squilla quando gli pare; i computer restituiscono quelle immagini di realtà distorta; il cellulare di Kaylie mette in contatto la donna con il suo fidanzato ormai defunto (lo uccide lei stessa, ingannata proprio dalla di lui rappresentazione), oppure restituisce l’immagine di un pavimento privo di quei cocci che gli occhi, invece, hanno di fronte. Insomma, la ragazza si fida del responso tecnologico e a esso si affida per ottenere certezze, ma lo scacco percettivo arriva proprio dagli apparecchi creduti incorruttibili, in quanto incoscienti (letteralmente: privi di coscienza). Alla fine, dunque, lo specchio attacca l’essere umano con armi (digitali) e in luoghi fisico-simbolici (casa, famiglia) che l’uomo crede propri e, in realtà, non gli sono mai appartenuti del tutto. Del resto, ci si è mai chiesti che professione svolga (dal proprio domicilio) papà Alan Russell? Programmatore di software, ovviamente. Anello di congiunzione tra uomo e macchina: programmatore (ri)programmato.
Lo scacco matto a Kaylie, infine, produce una morte che altro non è se non il punto di sutura tra passato e presente della narrazione. La pesante àncora di sicurezza in acciaio cala sulla ragazza immobile, inebetita di fronte al Lasser che sta restituendo l’immagine razionalmente impossibile della madre. Lo specchio ha apparecchiato la scena e, sadicamente, vuole il posto d’onore alla celebrazione del suo trionfo.
Tim viene di nuovo condotto in un istituto psichiatrico dopo la rinnovata carneficina, segnando il trionfo della circolarità e, perciò, di un principio universale di ineluttabilità. E mentre il ragazzo viene portato via in auto, alle finestre della casa (dei profili social?) si affacciano le immagini fantasmatiche di papà, mamma e sorella. Sono morti? Solo al di qua dello specchio. Al di là esistono ancora perché, una volta in rete, le immagini lo sono per sempre.
Difficile – ma possibile, data la precisione alla fonte – ricomporre con esattezza l’universo percettivo di Oculus. La sua visione comporta l’abbandono al flusso, l’adesione completa ai dettami dell’unico demiurgo dell’intera opera: il Lasser, che dopo aver contaminato i punti di vista dei soggetti in scena inizia a destrutturare quello spettatoriale. Il pubblico è costretto a decodificare e ricostruire le immagini secondo un principio evocato ed esposto dalla stessa Kaylie. Si tratta della teoria della “traccia sfocata” (fuzzy trace) secondo la quale la mente ricorda il globale, il senso generale, ma non i dettagli, che poi usa a suo piacimento per costruirsi una ragione3. Ed ecco che lo spettatore, mentre scorrono i titoli di coda, ha chiaro ciò che ha visto nell’ultima ora e mezza, ma al contempo cova la sensazione che qualcosa gli sia sfuggito. Succederà ancora, in Ouija. L’origine del male (2016) come in Il gioco di Gerald (2017), nelle due stagioni di The Haunting (2018-2020) come nella miniserie Midnight Mass (2021). Succede sempre, in Flanagan, perché qui sta la grandezza che eleva il regista di Salem al rango di cineasta, illusionista dalle geometrie euclidee nella cui opera tutto torna a più livelli. Basta impegnarsi e (ri)guardare attentamente, per ingrandire quella traccia sfocata e illuminarne i dettagli.
Dettagli esatti, incastrati gli uni negli altri.
Come gli ingranaggi di una macchina.
Come gli algoritmi su cui si basano i social network.
NOTE
1. Se la data del rilascio della prima versione di Facebook è il 4 febbraio 2004 e quella della registrazione del dominio attuale è nella primavera del 2005, dal 2007 il social network di Mark Zuckerberg ha vissuto un’escalation progressiva che lo ha portato, a inizio anni Dieci, a imporsi come marchio leader tanto negli Stati Uniti quanto nel resto del mondo.
2. La teoria è ben esposta in Reyna Valerie F., Brainerd Charles, Fuzzy-trace theory: An interim synthesis, in «Learning and Individual Differences», n. 7, 1995.
CAST & CREDITS
Regia: Mike Flanagan; soggetto: Mike Flanagan, Jeff Seidman; sceneggiatura: Mike Flanagan, Jeff Howard; fotografia: Michael Fimognari; scenografia: Russell Barnes, Elizabeth Boller, Michelle Marchand; costumi: Lynn Falconer; montaggio: Mike Flanagan; musiche: The Newton Brothers; interpreti: Karen Gillan (Kaylie Russell), Brenton Thwaites (Tim Russell), Katee Sackhoff (Marie Russell), Rory Cochrane (Alan Russell), Annalise Basso (Kaylie bambina), Garrett Ryan Ewald (Tim bambino), James Lafferty (Michael Dumont), Miguel Sandoval (dottor Shawn Graham), Kate Siegel (Marisol Chavez); produzione: Intrepid Pictures, MICA Entertainment, WWE Studios, Blumhouse Productions, Mist Entertainment; origine: Usa, 2013; durata: 104 minuti; home video: dvd 01 Distribution, bluray 01 Distribution; colonna sonora: Spotify.