Nella casa degli orrori. La stagione creativa di Flanagan alla corte di Jason Blum

Matteo Marescalco
Mike Flanagan n. 16/2023

È il 2013, e Blumhouse Productions supera il primo giro di boa lanciando una delle gemme più luminose della sua storia produttiva.
Reduci da quattro anni seminali, durante i quali scoprono Oren Peli con Paranormal Activity (2007) e producono Insidious (2010), Sinister (2012) e La notte del giudizio (2013), Jason Blum e Jeanette Volturno lavorano all’affermazione consapevole del metodo high concept, low budget e acquistano i diritti di distribuzione statunitense di Oculus. Il riflesso del male (2013), film scritto e diretto da un giovane montatore e presentato in anteprima mondiale nella sezione Midnight Madness del Toronto International Film Festival. Dopo aver riabilitato James Wan e Scott Derrickson, e scoperto il regista che ha indissolubilmente legato il suo nome al franchise di The Purge (James DeMonaco) la volontà Blumhouse di recuperare grandi filmmaker reduci da fallimenti hollywoodiani e dissotterrare talenti sconosciuti porta alla luce il promettente Mike Flanagan, regista di Salem – locus omen – che collaborerà con Jason Blum anche per Hush. Il terrore del silenzio e Ouija. L’origine del male, entrambi del 2016.
Leggendo i concept di questi tre titoli sorge spontaneo pensare a quanto Flanagan fosse il regista perfetto per nobilitare il nome di Blumhouse Productions e, viceversa, la casa di produzione il mezzo a lui necessario per migrare dalle spiagge incontaminate delle produzioni indipendenti ai complessi balneari del pubblico globale. A detta di Couper Samuelson – presidente di Blumhouse Productions – il rigido vademecum produttivo della casa di produzione ha offerto a Flanagan la possibilità di trasformare le limitazioni del basso budget e del set casalingo in punti di forza1. D’altronde, l’istituzione familiare e le case infestate sono già al centro della filmografia Blumhouse, che ha prodotto «melodrammi su classi sociali, sistemi morali e famiglie che, anziché essere alle prese con divorzi e disfunzioni, devono vedersela con bambini posseduti, case stregate e comunità che succhiano l’afflato vitale delle loro vittime»2.
Dopo aver carburato grazie al clamoroso successo globale ottenuto da Paranormal Activity, ed essersi affermata come “factory à la Corman” contemporanea in grado di dettare le regole del nuovo horror statunitense sotto forma di brand riconoscibile, Blumhouse ha iniziato a perseguire la ricerca di un household name e lo ha trovato in Mike Flanagan, prima, e in Jordan Peele, poi. Il regista di Oculus, infatti, ha aperto una seconda fase di lavori per la casa di produzione che, forte di un first-look deal stipulato con Universal Pictures, raggiunge la sua nobilitazione realizzando gli elevated horrors di Peele (Scappa [2017] e Noi [2019]), segnati da dinamiche sociali contemporanee e lodati dalla critica.
Per quanto riguarda Flanagan invece, la sua filmografia può essere considerata come «una variazione sui temi della famiglia e del lutto, elementi fondanti di un discorso che parte dal dramma umano, dal vuoto lasciato da una mancanza, dal tentativo della mente di risanare un legame strappato grazie all’aiuto dell’immaginario»3. Per Flanagan, prima dell’orrore e della sua trasfigurazione a opera dell’inconscio, ci sono i personaggi, il loro strenuo combattere e il desiderio di stare uniti per superare il dolore di una perdita familiare. A dare forza e credibilità a progetti quali Oculus, Hush e Ouija è proprio l’elemento (melo)drammatico, la base emotiva su cui l’autore, poi, innesta la sua sovrastruttura orrorifica.
Uno dei grandi meriti di ambient horrors quali Paranormal Activity, Insidious e Sinister consiste nell’aver scalzato il torture porn e le dinamiche gore e splatter a favore di progetti che spingessero lo spettatore verso un «decentering scanning of the film image»4, dato che il focus dell’azione non è mai al centro dell’immagine ma, piuttosto, ai suoi margini: in un contesto del genere, il fruitore cinematografico si trasforma in un detective chiamato a indagare su quanto avviene all’interno del quadro filmico. A questo proposito, l’idea tradizionale del cinema horror targato Blumhouse è «che la casa sia un paesaggio, che le stanze, i corridoi e le scale siano foreste e deserti, luoghi in cui può accadere di tutto, posti che si deformano in grandezza e possono essere ampiamente (in)esplorati»5.
Il sottogenere della casa stregata non nasce con Blumhouse Productions ma è fortemente radicato nell’immaginario e nella cultura americani. Tuttavia, a partire dal periodo successivo all’11 settembre 2001 e a differenza del tradizionale racconto sulla haunted house e sul castello gotico, la casa preda dei fantasmi si è trasformata nell’allegoria dell’impossibilità di fuggire non solo dallo spazio fisico, ma anche da uno stato mentale di confinamento in sé stessi e incapacità di trascendere le proprie paure. Prima di essere intorno a noi, i fantasmi e gli spettri sono già nella nostra testa e suggeriscono diversi gradi di colpa nel nostro rapporto con il passato e con la morte. Il soprannaturale filmico successivo all’11/9 si rivela come un incantesimo difficile da rompere, che raggiunge lo strato superficiale della realtà nei periodi particolarmente scossi dall’angoscia esistenziale, tormentando ciclicamente i sopravvissuti. Inoltre, la sua iconografia ha collegato le paure innate e i timori inconsci allo shock provocato dagli attacchi terroristici: i traumi primari sono stati accostati a quelli secondari, frutto di “spostamenti” volti a fornire obiettivi credibili su cui scaricare l’ansia, un modo per dare volto e collocazione a concetti astratti che, in quanto tali, avevano necessità di assumere forme concrete per essere sconfitte (o, semmai, per soccombervi). Del resto, al di là del sottogenere dell’haunted house movie e delle sue ricadute sul contemporaneo, le mura domestiche sono da sempre il medium preferito dai nostri demoni interiori nonché l’archetipo per eccellenza della letteratura gotica. Così, per Flanagan immergersi in un contesto casalingo “posseduto” diviene il pretesto per indagare i legami invisibili che dominano le nostre vite e costruire percorsi dentro le psicologie di individui distrutti dalla perdita, perseguitati da un male invisibile, chiamati al passaggio di testimone dall’universo dei padri a quello dei figli – che diventeranno padri, a loro volta – e al confronto con le lacune cui la nostra memoria va incontro.
La casa inizia a fare paura quando tutto ciò che è domestico, rassicurante e consolatorio si rivela non essere tale: il terrore origina dalla consapevolezza che uno schema consueto costruito all’interno della nostra esperienza quotidiana divenga all’improvviso destabilizzante. In un suo trattato Freud si sofferma proprio sulla differenza tra heimleich e unheimlich e sulla loro radice comune6 – e non a caso anche Mark Fisher ha notato quanto, nella lingua inglese, l’etimologia di haunt abbia una doppia radice, affine al concetto di perturbante e associata anche a casa e dimora.
Pensiamo all’Overlook Hotel e a Jack Torrance, il cui orrore consiste nel fatto che l’uomo, perseguitante e perseguitato, fugga riparando proprio nel luogo in cui gli spettri lo stanno attendendo. Le rassicuranti mura domestiche – quanto di più reale e razionale possa esistere – diventano luogo dell’irrazionale, manifestazione del male e del terrore. È per questo motivo che le case stregate del cinema horror americano post 11/9 sono lo specchio malato della psiche dei loro inquilini.
Figlio diretto di quei Paranormal Activity, Insidious e Sinister che hanno costruito il marchio Blumhouse durante i suoi primi anni di vita, anche Oculus torna in una casa infestata, nella quale i protagonisti si trasferiscono pochi mesi dopo la tragedia delle Torri Gemelle. A catalizzare il dubbio relativo alla natura dell’abitazione e dei suoi inquilini è l’eco di un orrore del passato che assume la forma di un lussuoso specchio d’antiquariato, portale d’accesso a un universo infernale che possiede, distrugge e assorbe l’anima dei suoi proprietari trasformandoli in fantasmi minacciosi. Angustiati dal ricordo della morte orribile dei genitori a causa dello specchio maledetto, fratello e sorella tornano nell’abitazione in cui si è palesato il germe del Male, con l’obiettivo di riannodare l’ordito delle loro esistenze e dimostrare la natura maligna dell’oggetto attraverso un complesso sistema di videosorveglianza, che possa cogliere ciò che l’occhio umano non è in grado di percepire.
L’abitazione costruita da Flanagan è insana perché le sue coordinate spazio-temporali si annullano e l’unica e distorta realtà rimane quella percepita dalla soggettività di uno sguardo infetto, vittima di un passato destinato a corromperlo per sempre (e frutto dello slittamento di senso post 11/9 che dal Poltergeist di Hooper [1982] conduce a Insidious). È la disfunzionalità personale ad attivare la mostruosità abietta di questi spazi domestici, in modo che l’impossibile si manifesti e il senso della realtà si sgretoli.
Archiviato questo esperimento, con due linee narrative intrecciate tra loro in cui i ricordi si sviluppano su più livelli a partire da un evento traumatico, il regista di Salem riduce il suo cinema all’essenziale in Hush. A differenza che in Oculus e nel futuro Ouija, qui l’abitazione è portata in scena come mero edificio e spazio fisico destinato a intrappolare a causa della propria architettura e collocazione geografica. Nel cinema di Flanagan, l’ubiquità e il carattere polimorfico del contesto domestico sono chiari: la casa è un elemento focale del racconto, sul versante della mera presenza fisica o come epicentro del dramma familiare. Flanagan utilizza il contesto domestico non soltanto per esplorare il sentimento del dolore e il terrore del trauma, ma per portare in scena un set in cui dare vita a un orrore in grado di funzionare anche se privato di creature soprannaturali. L’immaginario non è mai il fine, bensì il mezzo che una mente e un cuore invasi da presenze parassitarie hanno per trasformare in forma concreta il rapporto con il passato, il dolore e la morte.
Infine, anche nell’ultimo titolo citato, «l’apertura di una fessura nel reale» rappresenta «una finestra attraverso la quale irrompe un altro mondo che sovverte le nostre certezze»7: Ouija, diretto nel 2016, segna l’apice ideale del rapporto tra Blumhouse e Flanagan, chiamato a dare lustro a un franchise il cui primo episodio ha fatto storcere il naso alla critica di tutto il mondo. A quali condizioni? Nessuna. Couper Samuelson ha raccontato che, pur di tornare a lavorare con lui, Jason Blum ha concesso massima libertà al regista, accordandogli la possibilità di smarcarsi dai riferimenti forti del primo film e di girare un melodramma in costume8.
La prima sequenza del film presenta la famiglia di Alice Zander che, a causa della morte del marito e dei debiti da saldare, è costretta a inscenare false sedute spiritiche convincendosi di offrire ai suoi clienti un po’ di carità e gentilezza. Il set chiuso e perimetrato della casa – così caro a qualsiasi narrazione Blumhouse – è costruito su «good bones», per citare una battuta di Alice che dovrebbe far scattare più di un campanello d’allarme nella mente dello spettatore più accorto e smaliziato9. Le ossa di cui la protagonista parla inconsapevolmente sono quelle di esseri umani utilizzati come cavie e fungono da portale attraverso cui la Storia assume la forma di un passato mostruoso da esorcizzare. I fantasmi che attanagliano l’abitazione e i cuori dei suoi inquilini, però, sono anche privati e non si limitano agli spettri della grande storia novecentesca. È con le seguenti parole che Flanagan esplica la sua naturale attrazione verso i melodrammi familiari: «Credo si tratti di una questione di sicurezza. Sono cresciuto in un nucleo familiare molto unito e ho avuto la fortuna di non patire perdite quando ero bambino. Per questo motivo associo sempre la famiglia al luogo più sicuro al mondo. Quando si tratta di portare in scena il terrore, mi piace innestare l’instabilità e la tensione in tale contesto. Il genere horror mi emoziona perché lo considero come una sorta di esplorazione metaforica. L’horror genera un universo in cui ognuno di noi può affrontare drammi privati e collettivi – il lato più oscuro della nostra natura. Per qualche motivo, la famiglia è il campo di battaglia in cui, per me, avviene questo scontro personale»10.
I numerosi cliché di genere e la normalizzazione della storia di fantasmi trasformano Ouija in un racconto di depravazione da museo degli orrori che può essere elaborato soltanto attraverso un ultimo – e illusorio – ricongiungimento familiare che, tramite l’aiuto dell’immaginario soprannaturale, possa risanare un legame strappato. Se nel cinema di Flanagan la famiglia è sempre il germe del male, è altrettanto vero che Danny e Wendy Torrance sono condannati a vita a tornare all’Overlook Hotel e a trovare un equilibrio in quell’unico luogo dentro di noi destinato a ricucire le ferite e verso il quale ci recheremo sempre, nonostante tutto.
La grande mutazione del cinema di fantasmi domestici dopo l’11/9 – di cui Blumhouse Productions e Mike Flanagan sono i principali alfieri – risiede nel fatto che a essere infestati siano i corpi e le menti dei sopravvissuti, personaggi fissati psichicamente al trauma e inondati dalla persistenza di un ricordo straziante. È il carattere disfunzionale dei protagonisti a sottolineare la loro speciale sensibilità nel rilevare presenze dall’aldilà, proiezione esterna delle loro voragini interiori.
Se la casa è malata, è perché i suoi inquilini sono vettori perfetti per essere colonizzati da virus dannosi in grado di estendersi all’intera abitazione.

Note

1 Ryan Chris, Scare Tactics, TheRinger.com, 2 novembre 2016.
2 Ibidem.
3 Compiani Marco, Sogni di famiglia – Il cinema di Mike Flanagan, PointBlank.it, s. d.
4 Sayad Cecilia, Found-Footage Horror and the Frame’s Undoing, in «Cinema Journal 55», n. 2, University of Texas Press, Austin 2016, pp. 4-6.
5 Niola Gabriele, Ouija. Le origini del male: La recensione, «BadTaste», 27 ottobre 2016 (badtaste.it/cinema/recensione/ouija-origini-male-recensione, ultima consultazione 21 settembre 2021).
6 Freud Sigmund, Il perturbante, in Freud S., Opere vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1977, pp. 81-118.
7 Carotenuto Aldo, Il fascino discreto dell’orrore, psicologia dell’arte e della letteratura fantastica, Bompiani, Milano 2002, p. 47.
8 Ryan Chris, op. cit.
9 Bocchi Pier Maria, Ouija. L’origine del male, in Cineforum.it, 27 ottobre 2016.
10 Schager Nick, How This Horror Director Is Reinvigorating the Genre by Returning It To Its Roots, in Esquire.com, 19 ottobre 2016.

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