Livorno. Il giovane Roberto (Christophe Bouquin, alla sua prima e ultima interpretazione) entra da cadetto all’Accademia Navale, con il dramma-fardello di un fratello appassionato di mare scomparso anni prima alla vigilia di una regata: una sciagura di cui continua a ritenersi corresponsabile. In terra labronica intreccia una relazione complicata con Claudia, fidanzata da un lustro (ma in piena crisi) con il guardiamarina Paolo (Jonathan Horn, alla sua prima e penultima interpretazione: la seconda sarà una particina nell’ultimo film di Bido, il cultissimo Blue Tornado [1991]). Questi dapprima cerca di piazzarlo a un’amica neosingle e poi, una volta preso atto dell’infatuazione del commilitone per la sua donna, lo pone di fronte a unaut-aut: se Roberto, come suggerito – perché? Sorpresa – dal comandante Di Carlo, vorrà partecipare come timoniere alla regata della Mediterranean Cup a bordo della Gemini della Marina Militare di cui Paolo è skipper, la relazione con la sua bella dovrà finire prima ancora di essere iniziata. Diviso tra fierezza e sentimento e vessato da Paolo, Roberto farà trionfare la Gemini grazie a un’ardita manovra di cui il rivale si attribuirà il merito, pagando la scorrettezza con un’inevitabile scazzottata. E il giorno dopo, alla festa del MAK π 100 (ovvero gli ultimi 100 giorni di accademia: la locuzione, resa esotica dal pi greco, viene dal piemontese “mach pì” che significa “solo più”), Paolo presenterà Claudia ai genitori annunciando a insaputa della ragazza il suo matrimonio-lampo con lei due mesi dopo, mentre Roberto comunicherà invece al comandante la sua decisione di abbandonare l’accademia. Ma l’amore trionferà.
Nell’Italia di fine 1987, dopo l’epica reggenza Craxi e un ultimo breve governo Fanfani monocolore DC prima dell’avvento di Giovanni Goria alla presidenza del consiglio, Silvio Berlusconi era ancora solo l’imprenditore miliardario a capo della Fininvest e dell’attivissima casa di produzione ReteItalia presieduta da Carlo Bernasconi. Era l’epoca in cui il testosterone degli spettatori maschi e il cuore delle spettatrici femmine era appena stato messo alla prova da Top Gun [1986], che al di là delle rivalità virili aveva conquistato le platee anche per la love story tra il Maverick di Tom Cruise e la Charlie di Kelly McGillis. Ma era anche l’era di robecome College di Castellano & Pipolo (1984, nel 1989 in versione serie tv), delle sentimental-sceneggiate di Nino D’Angelo e delle telenovelas; e in cui avevano ancora ampia diffusione le riviste di fotoromanzi come «Lancio Lucky» che eleggevano a divi minori Ornella Pacelli, Susie Sadlow e Luigi Alfieri. Un Paese, allora come oggi, in bilico tra arretratezza e maldigerita modernità. Con questi modelli più o meno consciamente presenti, Claudia Mori in Celentano mette in cantiere come produttrice con la sunnominata ReteItalia un pacchetto-ombrello mirato a un target giovanilistico, Mak π 100, che possa anche essere il veicolo per lanciare la carriera di attrice dell’allora ventiduenne figlia Rosita, il cui solo precedente era una comparsata da bambina nello Yuppi du di papà Adriano (1975). Estraneo al progetto (unico responsabile della sceneggiatura: Berto Pelosso, in gioventù aiuto regista di Antonioni, Loy, Maselli e Petri), Bido viene ingaggiato, all’americana, come shooter.
«Il faut imaginer Sisyphe heureux» («Occorre immaginare Sisifo felice»), diceva Camus, togliendo alla vita qualsiasi significazione trascendente e indicando come assurda l’esistenza dell’Uomo. Il Nobel proponeva come unica soluzione alla pena l’accettazione/sopportazione della propria presenza nel mondo, conditio utile per dare alla vita il suo reale valore. Sisifo, condannato da Zeus sub specie aeternitatis a spingere un masso in cima a un monte per poi vederlo sempre rotolare alla base, avrebbe dovuto dunque ripetere all’infinito la sua punizione: ma occorreva immaginarlo felice, perché nella sua sanzione diveniva consapevole dei propri limiti e, quindi, assumeva su di sé il proprio destino. Che c’entra tutto ciò con Mak π 100 e il suo regista? Forse niente. Ma forse no. Perché bisogna immaginare Bido felice. Di essere timoniere su commissione di un film-masso che sembra salire e poi rotola, dall’inizio alla fine, senza soluzione di continuità. Un film modesto, nel senso etimologico dell’aggettivo (“che si contiene nei giusti limiti e non dà mai negli eccessi, temperante, semplice, decente, pudico”). Un’opera, altrettanto etimologicamente, insignificante. Ma in cui si intravedono sempre una serietà e una cura formale addirittura esagerate (o inani) e un’etica del lavoro encomiabile. Bido è totalmente a disposizione del progetto, che è banale. Ma nessuna inquadratura e nessun movimento di macchina di Mak π 100 sono mai davvero banali. Lo si vede da subito: un’elegante macchina indietro trasversale all’inizio, un volteggio dietro una scala bianca che si porta a rendere simmetrico il quadro. Piccole cose. Ma di gusto. Carrellate, panoramiche e travelling si sprecano. Non c’è amore nella messa in scena, forse: ma c’è mestiere. Lo sforzo di Bido è qui, per l’appunto, sisifeo. La pochezza dello script ovviamente lo trascende e in qualche misura lo mortifica, soprattutto perché nulla può contro la sgraziata scelta di casting dei tre prim’attori. Ma i difetti del film sono da ricercare soprattutto nella post-produzione: nel terrificante doppiaggio, nel montaggio a tratti frettoloso, nella mostruosa colonna sonora di Pinuccio Pirazzoli, pilastro del Clan Celentano, che infligge un’imitazione sintetica di rock trionfalistico onnipresente e fuori luogo (più un in-joke autopromozionale che dà al tutto una triste e casereccia misura: nella sequenza della festa i giovani definiscono «una lagna» È ancora sabato di Celentano, che passa in sottofondo). Ciò malgrado, il merito di Bido durante l’ora di preparazione al gran finale è quello di negare ogni possibilità di ricezione trash (non esistono – o quasi – momenti involontariamente ridicoli, né la messinscena può essere oggetto di ludibrio da sottoprodotto); e quando si tratta di organizzare il clou (la regata), sfodera una verve che i limiti (estetici, economici, artistici) del film sembravano non consentire: stringe i tempi, moltiplica inquadrature e punti di vista tra riprese aeree e accurate simulazioni di gara, cerca un ritmo interno alle sequenze (che non trova purtroppo un adeguato controcanto in montaggio) e alla resa dei conti riesce a conferire al tutto una ragione spettacolare impensabile se rapportata al materiale di base. Lo si immagina felice. Anche se nei titoli di coda con lo spettacolare freeze frame su Rosita in abito da cerimonia che generosamente ne enfatizza le poppe, parte la canzone-duetto (con un acerbo e sconosciuto Marco Masini!) Dal tuo sguardo in poi; che è il colpo di grazia di Pirazzoli e la dimostrazione che la Celentano avrebbe avuto difficoltosa carriera anche come cantante: e il masso rotola di nuovo da cima a valle.
CAST & CREDITS
Regia: Antonio Bido; soggetto: Berto Pelosso; sceneggiatura: Berto Pelosso;fotografia: Giulio Albonico; scenografia: Carlo Leva; costumi: Ferroni; montaggio: Antonio Siciliano; musiche: Pinuccio Pirazzoli;interpreti: Christophe Bouquin (Roberto Mauri), Rosita Celentano (Claudia), Jonathan Horn (Paolo Casati), Ray Lovelock (comandante Di Carlo), Erika Blanc (madre di Mauri); produzione: Italiana Film, ReteItalia, Azzurra Film;origine: Italia, 1988; durata: 106’; home video: inedito; colonna sonora: inedita.