Emil Cioran: un abisso di vitalità
Mario Bernardi Guardi
Se c’è uno scrittore che per la sua vocazione apocalittica e il suo moralismo bruciante, cupo e derisorio, si presta a definizioni “tranchant”, questo è Emil Michel Cioran, di volta in volta battezzato «barbaro dei Carpazi», «eremita antimoderno», «esteta della catastrofe», «apolide metafisico» o «cavaliere del malumore cosmico». Ma anche lui, da buon Narciso, ci ricamava sopra e sulla sua “carta d’identità” scriveva cose come «idolatra del dubbio», «dubitatore in ebollizione», «dubitatore in trance», «fanatico senza culto», «eroe dell’ondeggiamento» (si veda il suo Squartamento, Adelphi, Milano 1981). E, nei suoi “manuali di dissoluzione”, si divertiva a lanciare folgori di tenebra. Lo fece anche nell’ultimo libro pubblicato in vita, apparso in Francia nel 1987, otto anni prima della sua morte – una sorta di «biografia compendiosa», per usare un’espressione cara a Borges, sodale dello scrittore romeno in brividi metafisici e dissacranti sberleffi gnostici (Confessioni e anatemi, Adelphi, Milano 2007).
Già nelle prime pagine E. M. ci atterrisce e atterra. Come sempre, in conformità con la sua vocazione. E che di questo si tratti ce lo conferma il fatto che lo scrittore, all’insegna di un pessimismo vorticoso, vergò il proprio epitaffio nel 1949, quando aveva solo trentotto anni: «Ebbe l’orgoglio di non comandare mai, di non disporre di niente e di nessuno. Senza subalterni e senza padroni, non diede né ricevette ordini. Sottratto all’imperio delle leggi, e come anteriore al bene e al male, non fece patire anima viva. Nella sua memoria si cancellarono i nomi delle cose; guardava senza percepire, ascoltava senza udire; profumi e aromi svanivano all’avvicinarsi delle sue narici e del suo palato. I sensi e i desideri furono i suoi soli schiavi: perciò non sentirono e non desiderarono. Dimenticò felicità e infelicità, seti e paure; e se gli capitava di ricordarsene, disdegnava di nominarle e di abbassarsi così alla speranza o al rimpianto. Il minimo gesto gli costava più sforzi di quanti non costino ad altri per la fondazione o il rovesciamento di un impero. Nato stanco di essere nato, volle essere ombra: quando visse dunque? E per colpa di quale nascita? E se, vivendo, portò il suo sudario, per quale miracolo riuscì a morire?».
Come vediamo, in lui tutto è iperbole, barocchismo scatenato ed enfasi debordante, anche se siamo in presenza di un retore d’eccezione che non si perde in scoppiettanti banalità, ma inanella immagini di rara extravaganza.
Ora, raccontare Cioran significa fare i conti per intero con l’indubbia vocazione a un coltissimo (e studiatissimo) annientamento. E, d’accordo, questo è l’elemento caratterizzante. Ma significa anche prendere atto che queste suggestioni dissolutrici non solo si intrecciano, ma trovano punti di forza in una vita per tanti versi scandalosamente “affermativa”, visto che prima del Cioran “parigino” – è nel 1937 che il Nostro approda in Francia –, capace di confezionare le proprie auree sentenze nihilistico-gnostiche in un brillantissimo francese, c’è un Cioran duro e puro, di fiera stirpe rumena, che fa propri i miti del radicamento e dell’identità, simpatizzando per il fascismo di Codreanu e delle sue Guardie di Ferro e scrivendo numerose pagine che si riveleranno “compromettenti”.
Di questo aspetto, Antonio Castronuovo, in un agile profilo pubblicato da Liguori nel 2009 (Emil Michel Cioran), dà solo rapidi cenni, ricordando che comunque E. M. dedicò un intero capitolo del suo Sommario di decomposizione (Adelphi, Milano 1996) alla “Genealogia del fanatismo”, così collocandosi «all’opposto delle fascinazioni giovanili». E cioè di quelle, chiamiamole così, “fascio-fascinazioni”.
Ora, Castronuovo fa bene a mettere in evidenza il grande “stilista” e “moralista”, lo scrittore impertinente e beffardo che s’interroga sul senso della vita e della morte, il chierico blasfemo che cerca di stanare Dio dai suoi misteri e dai suoi abissali silenzi. E tuttavia siamo convinti che Cioran e altri “dannati” dello scorso secolo – Pound e Céline, Drieu e Heidegger, Eliade e Jünger, tanto per fare i primi nomi che ci vengono in mente – non debbano essere alleggeriti dalle proprie “responsabilità”. Basta, insomma, con la vecchia storia dei “peccati di gioventù”, una specie di rituale giustificativo-assolutorio che li “disinfetta” e rende “presentabili”, ma toglie loro qualcosa, e cioè le ragioni di una scelta. Per scandalose che possano apparire alle “animule vagule blandule” che vorrebbero, fortissimamente vorrebbero, che Cioran non avesse detto e/o scritto “certe cose”. Senza rendersi conto che “sbianchettare” E. M. significa strappargli la carne e lo spirito.
A farla breve, il Cioran della “tentazione fascista” ha un rilievo e un peso. Come emerge dalla lettura del saggio di Emanuela Costantini Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran. Antiliberalismo, nazionalismo alla periferia d’Europa (Morlacchi, Perugia 2005) e da quello di Alexandra Laignel-Lavastine Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco nella bufera del secolo (UTET, Torino 2008), che testimoniano appunto quella milizia. “Scorrettissima”, visto che il Cioran «in camicia verde» auspicava per la Romania «un destino aggressivo da grande cultura».
Insomma, E. M. non si esaurisce nell’ambito delle acuminate provocazioni. Non si può immaginare la sua vita solo come una fiammeggiante costellazione di (coltissime) invettive. Perché fu appunto “vita”, appassionatamente e dolorosamente “vita”.
Sia dunque reso merito a Friedgard Thoma per averci raccontato un Cioran innamorato (Per nulla al mondo. Un amore di Cioran, l’orecchio di Van Gogh, Falconara Marittima 2010). Anzi, più che innamorato: addirittura un Cioran “maniaco sentimentale”. Da non crederci: un genio dell’aforisma ma anche un umanissimo, fragile, tenero settantenne, tutto preso da lei, giovane insegnante tedesca di filosofia e letteratura che, folgorata dalla lettura del libro L’inconveniente di essere nati, nel febbraio del 1981 gli scrive una calda lettera di ammirazione.
C’è da stupirsi del fatto che Cioran non fosse “corazzato” di fronte ai complimenti di una donna intelligente e affascinante? Come, lui, l’apocalittico, così inerme, così indifeso! Eppure, in Sillogismi dell’amarezza (Adelphi, Milano 1993), è proprio il «barbaro dei Carpazi» a invitarci a tenere la guardia alta di fronte al vorticoso nichilismo degli “apocalittici” e magari a scavarvi dentro. «Diffidate – scrive – di quelli che voltano le spalle all’amore, all’ambizione, alla società. Si vendicheranno di avervi “rinunciato”. La storia delle idee è la storia del rancore dei solitari».
Dunque, Cioran, uomo d’idee ma anche di emozioni, compiaciuto per quella lettera affettuosa, risponde immediatamente alla sua “fan”, con un mezzo invito ad andarlo a trovare a Parigi.
Lei, che ci tiene a essere un’interlocutrice culturale e cita Walser, Hölderlin e Gombrowicz, non manca di allegare alla risposta una sua foto (il perché lo faccia si perde negli abissi dei misteri femminili…). E, siccome si tratta di una donna giovane – capelli sciolti, bocca carnosa, sguardo intenso –, “le coeur en hiver” di Cioran, che è, sì, un “barbaro dei Carpazi”, ma anche un ammiratore del cosiddetto sesso debole, comincia a battere furiosamente. Lui stesso le confesserà un paio di mesi dopo: «Tutto in fondo è cominciato dalla foto, con i suoi occhi direi».
È una tempesta dei sensi, un’«eruzione emotiva». Ancor più incontrollabile, allorché lei decide di trascorrere qualche giorno a Parigi. Lui va a prenderla all’hotel e arriva dieci minuti prima: è «un uomo di costituzione fragile, con un ciuffo di capelli grigi, arruffati, e gli occhi dello stesso colore». Lei «cerca di apparire attraente, indossando un abito nero non troppo corto, sotto un lungo cappotto chiaro». Di nuovo l’interrogativo: perché «cerca di apparire attraente»?
Seguono conversazioni, passeggiate, cene, visite a musei, telefonate… Cioran vive una sorta di voluttuoso invasamento al punto che, quando lei torna a Colonia, le scrive con spudorata audacia: «Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a lei solo dopo averle confessato al telefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna». Insomma, non siamo di fronte a una venerazione di tipo platonico…
Poi, è lui ad andarla a trovare in Germania. «Vestita di rosso e nero», e non già con un abitino accollato da collegiale, Friedgard lo accoglie alla stazione. Lui è innamorato pèrso, lei, sedotta intellettualmente, continua a sedurlo fisicamente, senza nulla concedere.
Lui soffre, la chiama «mia cara zingara», le scrive: «Non capisco cosa sto cercando ancora in questo mondo, dove la felicità mi rende ancora più infelice dell’infelicità».
Friedgard vuol tenere intatte «venerazione e amicizia», parlando di autori e libri, entrando nella sua intimità, portando alla luce le sue contraddizioni. Ma confessando anche, con franchezza: «Dunque, caro: Lei mi ha trascinato nell’immediatezza inequivocabile d’una relazione fisica, mentre io cercavo l’erotica ambiguità della relazione “intellettuale”». Proprio quella che a Cioran non basta. È innamorato, desidera la giovane prof. con una sensualità “vorace”, le fa scenate di gelosia perché lei, ovviamente, ha un “compagno” cui è legata.
«Sono vulnerabile – le scrive – e nessuno quanto Lei può ferirmi tanto facilmente». E consolarlo, anche. Così, la immagina nelle vesti di una suora, «dalla voce sensuale però». E come uno studentello inebriato d’amore, che non rinuncia alle battute, confessa che vorrebbe morire insieme a lei: «A una condizione, però, che ci mettessero nella stessa bara». Così potrebbe raccontarle tante cose, «tante, ancora non dette».
Non manca nemmeno la proposta di matrimonio. Friedgard annota: «Al telefono, Cioran si dilettava volentieri con la proposta di sposarmi, contro tutti i suoi principi, addirittura secondo il rito ortodosso (“su questo devo insistere”), il che per lui significava essere cinti entrambi da corone. Quante risate, su un sogno triste».
Un sogno che, così, non poteva certo continuare. La non appagata, sofferta ed estrema accensione dei sensi di Emil «s’incanalerà negli anni lungo i binari d’una tenera, affettuosa amicizia». Nella cui calma piatta si spegnerà fatalmente la «tentazione di esistere»: carne e spirito, almeno una volta, insieme.