Narrativa: «L'appuntamento mancato»
Gianfranco de Turris
Parigi era sempre stata il mio sogno sin da quando, liceale, vi ero andato in gita con la scuola. Pian piano, nel corso degli anni, la sua immagine si era mitizzata e modificata: da capitale del sesso, negli anni Cinquanta, un poco alla volta si era trasformata in quella dimensione interiore e altra che tutti ci portiamo dentro, inconsapevolmente. Era diventata la città dei sobborghi fumosi e delle case di Montmartre, delle bancarelle sulla rive gauche e dei negozietti di libri usati; la capitale dove ti poteva accadere qualunque cosa, dove potevi finalmente vivere l’avventura della tua vita, quale che fosse.
La sognavo. Sognavo i suoi tetti e le sue mansarde, i mercati rionali, i grandi ombrelloni colorati e le entrate liberty della metropolitana, forse influenzato da non so più che film sulla bohème artistica parigina. Era un’immagine ideale che covavo dentro da chissà quanto, forse da quando avevo quattordici o quindici anni, e che era lievitata in me, aveva messo radici e prodotto arborescenze. Finché, come spesso accade, una serie di coincidenze mi riportò proprio al centro di quel sogno…
Alla fine degli anni Settanta, due decenni dopo, mio cognato andò a Parigi per un corso di specializzazione in cardiochirurgia e prese in affitto un appartamento sulla collina di Montmartre, proprio sopra Pigalle. Durante l’estate vi fece giungere il resto della famiglia ma, poiché per impegni non previsti fu costretto a rientrare a Roma prima della scadenza del contratto, mi propose di raggiungerlo e sfruttare l’appartamento per il restante periodo in cui aveva il diritto di abitare lì. Perché non approfittare dell’occasione? Nonostante la mia idiosincrasia per i viaggi e i cambiamenti d’ambiente, feci forza a me stesso e c’imbarcammo, io, mio moglie e mio figlio, che stava per compiere quattro anni.
Era settembre e il tempo splendido. La casa che ci accolse era situata in una via in salita, dallo strano nome: Rue de Trois Frères. L’ingresso di legno consumato, l’andito buio e sporco, scale strettissime, il cortile umido e ombroso. L’appartamento, poi, era dei più singolari: il pavimento in pendenza, non aveva ante alle finestre ma enormi e spessi tendoni interni, la cucina a gas era antiquatissima. Meglio di niente, visto che non pagavamo nemmeno l’affitto e il posto era in sé affascinante, veramente e tipicamente “francese”.
Purtroppo, però, il sogno è bello quando rimane tale; meno bello, se non proprio deludente, quando sembra realizzarsi. Sono le circostanze, di solito, a rovinarlo. Avevo pensato di andare alla ricerca della mia Parigi, quella vista da ragazzino e ricostruita per tanti anni dentro di me, e invece ero costretto a vedere la sua Parigi, cioè quella che mia moglie aveva la fermissima intenzione di voler vedere tutta in una volta durante i nostri sette giorni di permanenza.
Tutta in una volta, a passo di carica, spesso e volentieri con il figlio sulle spalle, dentro uno zainetto. Mie, naturalmente, perché uomo, padre e marito. Il Louvre e le Touleries, l’Orangerie e Versailles, Notre-Dame e la Tour Eiffel, il traghetto sulla Senna e gli interminabili tragitti a piedi per risparmiare e veder meglio, i viaggi in metrò e in treno, le merende nei giardini pubblici e presso “McDonalds” (che in Italia non era ancora arrivato), l’Arco di Trionfo e i grandi magazzini. Nemmeno una visita a quei luoghi che tanto si erano impressi dentro di me. Una volta, forse, riuscii a adocchiare una libreria devota al fantastico, ma soltanto perché era vicina alle Halles, allora appena inaugurate, che naturalmente visitammo in una calca infernale e con il rischio di perderci.
Quel soggiorno si stava tramutando in una sorta d’incubo, un incubo angoscioso, anche se un po’ surreale – tanto è vero che ancora oggi costituisce, sotto questo aspetto, un ricordo spiacevole, nonostante fosse il realizzarsi di una vecchia aspirazione. Mi vedo ancora sfilare davanti i corridoi del Louvre, dove, per lunghi momenti terribili, persi di vista i miei (i cellulari erano ancora in mente dei), o quella strada in discesa di Montmartre dove mio figlio restò incastrato con la testa fra le sbarre di una recinzione…
Verso la fine del soggiorno non ne potevo più e almeno una, una cosa dovevo realizzarla. Volevo incontrare Daniel, un ami-de-plume con cui da anni ero in corrispondenza e che era diventato redattore capo della più importante rivista fantascientifica francese. Dire che non fu semplice strappare alcune ore di una delle ultime mattinate parigine che ci restavano è un eufemismo. Sottrarre quel tempo alla nostra “visita culturale” era un delitto di lesa famiglia. Comunque sia, fra musi lunghi e oscure minacce, studiai il tragitto in metropolitana, le coincidenze, gli incroci fra linea e linea da sfruttare per arrivare il più vicino possibile all’abitazione del mio amico. In un’atmosfera non certo allegra, me ne uscii da quello stravagante appartamento sghembo e scesi alla più vicina fermata del metrò, in una piazzetta in fondo a una lunghissima scalinata.
Di quel viaggio ricordo soprattutto che il convoglio si diresse verso i sobborghi, quei sobborghi da sempre sognati, e che per un lungo tratto viaggiammo all’aperto, su piloni e lunghe sopraelevate, fra tralicci arrugginiti e sporchi di fumo, mentre in basso brulicava la vita, la gente, il traffico. Tutto era circondato da una specie di nebbia e smog che attutiva i contorni, come facendomi tornare indietro nel tempo, anche se ero ben consapevole di essere lì, in quel preciso momento.
Quando uscii all’aperto, giunto all’ultima fermata, mi ritrovai nella mia Parigi. Le case basse dai tetti spioventi, le mansarde, gli abbaini, i panni stesi ad asciugare, i fiori e le tendine alle finestre, il venditore di piante sotto un grande ombrellone colorato, le fontane con i piccioni, i vecchi lampioni, le strade strette, le facciate fuligginose, i camini, le donne che uscivano dalle panetterie con lunghissimi sfilatini sotto il braccio, in bocca un sapore che riconoscevo benissimo, un sapore di fumo, nebbia, cose perdute.
Trasognato, la cartina stradale in mano, riuscii bene o male a raggiungere la casa di Daniel, che vedevo per la prima volta. Parlammo a lungo, io nel mio francese scolastico, lui in un italiano di famiglia (la nonna, appresi, era di Modena), lo intervistai, non riuscii a farmi spiegare dove si trovasse un famoso negozio di pelletterie che cercava mia moglie (poi si scoprì che il nome era sbagliato), mi parlò della situazione editoriale francese, delle (scarse) prospettive di tradurre autori italiani, dei suoi progetti. E, poi, dei nostri autori preferiti, delle differenze della situazione culturale nei rispettivi Paesi.
Il tempo trascorreva veloce, mi accorsi con rammarico che era giunto il momento di congedarmi. Con difficoltà, lasciai Daniel e sua moglie in quell’appartamentino, laggiù, nella periferia parigina. Non l’ho più rivisto da allora.
Mi tuffai nel ventre del metrò. Ritornavo a casa.
Ero in fondo al vagone, l’ultimo del convoglio. Facevo il percorso al contrario. Lasciavo la mia Parigi per tornare in quella dei musei e delle vetrine, dei giardini e della Senna, delle chiese e delle regge. Osservavo lo scorrere dei tralicci e delle case all’esterno e, all’interno, una folla di persone, per lo più turisti inglesi, molti ragazzi americani di non so quale università, il cui nome avevano stampigliato sui maglioni. Evidentemente stavano recandosi al centro della città per una qualche visita guidata, come da programma. Guardavo e non vedevo, perché pensavo ad altro, a quanto avevo appena perduto, a quella sbirciata nella Parigi dei miei sogni e della mia giovinezza, a una Parigi che forse esisteva soltanto dentro di me e che io avevo ricostruito in quella piccola fuga dalla realtà.
All’improvviso, all’estremità opposta del vagone, sul mare di persone che si accalcavano, vidi svettare una figura alta e magra, dinoccolata quasi, il viso stretto, il naso pronunciato, il mento caratterizzato da un evidente prognatismo.
Inghiottii. Non era possibile. Le mie fissazioni mi facevano accentuare qualche vaga somiglianza fisica…
Superato il primo attimo di smarrimento, mi mossi con fatica per avvicinarmi. Cercavo di fendere la calca, ma era troppo fitta e avanzavo con grande difficoltà. Intanto, quel personaggio mi si faceva più distinto: aveva gli occhi chiarissimi, i capelli con la scriminatura, le labbra sottili. Era vestito all’antica.
Io sapevo chi era. Lo sapevo benissimo.
Anche lui si stava muovendo e sembrava dirigersi verso l’uscita. Si muoveva con calma ed eleganza nel suo abito di taglio démodé, color ferro, il colletto duro, la cravatta con la spilla. Allungò il braccio e notai i polsini inamidati, candidi.
Dovevo, dovevo raggiungerlo per dimostrare a me stesso che non avevo sognato, non stavo sognando, né ero preda di una visione.
Eravamo ancora all’esterno. La metropolitana, ora, correva all’aperto, sotto il cielo grigio di una Parigi della fine degli anni Settanta con a bordo una persona che non avrebbe mai potuto trasportare…
Oddio! Sentivo distintamente il convoglio rallentare, i freni in azione… Dovevo a tutti i costi avvicinarmi a quella figura, toccarla, provare a me stesso che era viva e reale e non un parto della mia immaginazione frustrata, anche se la vedevo parlare con gli studenti che si accalcavano intorno a lui, rispondere alle loro domande, stringere le loro mani e salutarli.
A spinte, a gomitate, un pardon dopo l’altro, preso da un’assurda frenesia, incurante delle esclamazioni di fastidio in francese e inglese, cercavo disperatamente di farmi avanti, di raggiungere l’uscita, per parlargli, toccarlo, seguirlo… Era come quando, in un sogno, si cerca di correre, e qualcosa di misterioso ti impedisce di farlo.
Ecco, il convoglio rallenta sempre più, sbuffa e si ferma. Con un sussulto, le porte si aprono, la gente comincia a scendere sul marciapiede della sopraelevata, l’uomo alto e magro, dal volto affilato e dal mento così caratteristico, segue anch’egli la corrente e si avvia all’uscita.
Il cuore mi balza in gola, sono trascinato anch’io dalla folla di studenti, allungo la mano per toccare quel “principe di Galles” vecchio di cinquant’anni. Quasi ci riesco…
Quasi.
Lo sfioro e, in quell’istante, i capelli mi si rizzano in testa, un brivido mi percorre la spina dorsale, un fremito mi scuote. L’uomo, che devo pur aver toccato leggermente, proprio mentre sta per poggiare il piede al suolo, si volta, si volta verso il muro di gente compatta che è dietro di lui e da cui spunta il mio braccio, che deve avergli sfiorato una spalla.
Quegli occhi slavati, che rivelano un abisso di candore, si fissano forse su di me. Le labbra esili si aprono e parlano.
È un secondo, un secondo eterno. Poi, tra sbuffi sonori d’aria compressa, le porte del metrò si richiudono e vedo attraverso i vetri sporchi la figura allampanata, con le ghette sulle scarpe, allontanarsi tra la folla di studenti universitari, mentre il convoglio riparte, tra i sussulti.
Mi accorgo di essere rimasto solo. Il vagone è ora completamente vuoto. Sono scesi tutti i turisti, tutti gli studenti che portavano impressi sulle loro felpe e camicette il nome, i motti e lo stemma della Miskatonic University di Arkham. Sono rimasto solo.
Giuro. Giuro su qualsiasi cosa che quello era Howard Phillips Lovecraft.
Ancora oggi, dopo tanti anni, sono convinto di aver incontrato Lovecraft un giorno del settembre 1979 sulla metropolitana di Parigi.
Non era un’allucinazione. L’ho sfiorato. Ho sentito le sue parole. L’ho riconosciuto, senza ombra di dubbio. Era reale.
Una coincidenza, direte, una straordinaria rassomiglianza, aggiungerete. Sono cose che possono succedere, così come le esagerazioni cui può giungere una mente depressa, una fantasia eccitata.
No! Vi giuro che quello era Lovecraft.
Perché la sola rassomiglianza non spiega le parole che ho udite e che, sono sicuro, erano indirizzate a me, e a me soltanto.
«I’m going to Rue d’Auseil.»
La frase esplose nel mio cervello e da allora non faccio altro che ripetermela: «Sto andando in Rue d’Auseil»…
Per fare cosa?
Da allora, ogni anno, a settembre, ritorno a Parigi. Ogni anno ripercorro quel tragitto in metrò. Ogni anno scendo a quella fermata. Ogni anno spero d’incontrare di nuovo Lovecraft. Ogni anno vorrei trovare anch’io Rue d’Auseil. Ogni anno sogno che sia lui a condurmi in visita da Erich Zann, il tedesco folle, il suonatore di viola che con la sua musica ultraterrena «tentava di tenere lontano qualcosa». Ogni anno spero di arrivare in tempo all’appuntamento, per raggiungere la sua soffitta, dove si apre una finestra che dà sul «buio di uno spazio senza limiti, uno spazio insospettato vibrante di moti e di suoni, che non aveva alcuna rassomiglianza con qualcosa di esistente sulla Terra».
Invano.
Ecco perché io so di aver incontrato veramente Howard Phillips Lovecraft sull’ultimo vagone del metrò parigino tanti e tanti anni fa. Ma ho anche la terribile, angosciosa paura che mancherò sempre all’appuntamento. Non ho voluto, non sono stato capace di approfittare dell’invito che mi lanciò allora e temo che adesso non voglia più rinnovarlo. Ho perso l’occasione di accompagnarlo da Erich Zann in Rue d’Auseil, che lui solo conosce: queste possibilità si presentano una e una sola volta nella vita di un uomo. Bisogna saperle riconoscere e approfittarne.
Io, però, nonostante questa consapevolezza, cerco ancora Rue d’Auseil.