Mamoru Hosoda: l’identità come asse che non vacilla
Carlomanno Adinolfi
Nel nuovo millennio, quella di Mamoru Hosoda è sicuramente stata una delle stelle che hanno brillato maggiormente nel mondo dell’animazione giapponese. Talento puro, tanto da essere scelto dallo studio Ghibli, quando era poco più di un esordiente, per dirigere un’opera dell’importanza de Il Castello Errante di Howl, prima di lasciare la produzione per divergenze con i vertici, fin da subito è sembrato il classico predestinato a cui era stata data in sorte una carriera sfolgorante. E lui non ha voluto deludere i kami che quella sorte gli avevano assegnato. Dopo aver lavorato ai lungometraggi di Digimon e One Piece: l’Isola Segreta del barone Omatsuri, Hosoda trova la propria consacrazione dirigendo La ragazza che saltava nel tempo, che nel 2006 vince il premio del Japan Academy Awards come miglior film di animazione. Il film, tratto da un romanzo per ragazzi degli anni Sessanta, racconta la storia della adolescente Makoto: la giovane s’imbatte casualmente in un congegno che le consente di saltare indietro nel tempo, capacità che userà ovviamente con la leggerezza adolescenziale per risolvere piccoli problemi quotidiani e sentimentali. Il che porterà a evidenti disastri, fino alla conclusione ciclica del film. La pellicola insegna che bisogna “correre incontro al futuro” anziché perdersi nel passato, sperando che cambi.
Forse, però, il film che vede davvero la genesi dell’astro di Hosoda è il successivo lungometraggio: Summer Wars. Uscito nel 2009 e anch’esso vincitore del Japan Academy Awards, il film vede, come per La ragazza che saltava nel tempo, la regia di Hosoda e la sceneggiatura di Satoko Okudera, ma è di fatto il primo lavoro originale dell’animatore di Toyama, che ne scrive il soggetto svincolandosi per la prima volta da altri lavori o franchise. Il lungometraggio racconta la storia di Kenji Koiso, liceale di umili origini, asociale genio della matematica che spende quasi tutto il suo tempo libero su Oz, un mondo virtuale molto simile a Second Life, che proprio negli anni in cui usciva il film era diventato un fenomeno mediatico. La tranquillità del ragazzo viene sconvolta dalla compagna di scuola Natsuki Shinoara, rampolla di una nobile e antica famiglia discendente del clan Takeda, che lo incastra, costringendolo a fingere di essere il suo fidanzato in occasione della grande festa per i novant’anni della nonna Sakae Jinnouchi, austera capofamiglia legata alle tradizioni. Durante il soggiorno nella grande casa dell’antica famiglia, Kenji conosce anche il creatore di Oz, Wabisuke, zio di Natsuki che ha però rinnegato la sua famiglia d’origine. A causa del lavoro segreto di Wabisuke, vendutosi a una potenza straniera, Oz viene “craccato”, diventando una AI senziente che evolve autonomamente fino a prendere il controllo di tutto il sistema informatico giapponese, compresi i sistemi satellitari e militari, arrivando a deviare una sonda spaziale, mandandola in collisione contro una centrale nucleare. A questo punto si scatena la guerra della famiglia Shinoara contro l’intelligenza artificiale, combattuta principalmente nel mondo virtuale di Oz – qui le influenze di Digimon sono piuttosto evidenti.
Ma il cardine attorno a cui ruota tutto il film, più che la guerra contro la macchina e la minaccia dei mondi virtuali, è lo stesso su cui si impernieranno d’ora in poi tutti i lavori di Hosoda: l’identità e la famiglia. Il personaggio più importante è infatti proprio la nonna Sakae, la matriarca di cui tutti hanno un timoroso rispetto, aristocratica signora sempre vestita in kimono e abiti tradizionali, attenta all’aspetto formale e rituale di ogni gesto, tanto da scegliere nella sala delle armi, una volta minacciata, una naginata, l’arma tipica delle donne samurai e delle amministratrici delle nobili case, piuttosto che una maschile katana.
Ma non solo. Sarà lei il fulcro attorno a cui si unirà tutta la famiglia che, memore dell’antica discendenza dal clan Takeda – il cui capostipite era quel Takeda Shingen vincitore di battaglie leggendarie e immortalato dal Kagemusha di Akira Kurosawa –, deciderà di dare il tutto per tutto per sconfiggere il nemico che minaccia il Giappone. Ciò che segnerà il cambio di passo nella guerra contro Oz sarà proprio la consapevolezza di tutti i membri della famiglia Shinoara di far parte di un antico lignaggio che deve essere onorato e di cui ci si deve dimostrare degni. Tanto che, alla fine, anche Wabisuke, riscattando il suo crimine, riprenderà il proprio posto all’interno della famiglia e del clan per onorare la madre adottiva – ovvero proprio “nonna” Sakae – e combattere insieme ai familiari. Sakae sarà anche colei che, telefonando a tutte le sue conoscenze nella polizia, nella politica e nell’esercito, le chiamerà alla guerra, chiedendo di rispettare la fedeltà che le loro famiglie avevano dato al clan Takeda e, soprattutto, di compiere il loro dovere verso il popolo e la nazione.
La coppia Hosoda-Okudera torna anche nel successivo lungometraggio del 2012: Wolf Children – Ame e Yuki i bambini lupo. Questa volta, però, oltre che regista e scrittore del soggetto, Hosoda è anche co-sceneggiatore. La volontà di fare dei lungometraggi delle creature proprie si fa sempre più chiara. E il ruolo dell’identità e della famiglia è ancora più presente. Quello che è forse il film più bello di Hosoda, vincitore anch’esso dei principali premi di animazione in Giappone, racconta la storia di Hana, studentessa innamoratasi di un misterioso ragazzo che è, in realtà, uno degli ultimi appartenenti di una razza di uomini lupo. Hana darà alla luce due bambini, la piccola Yuki (neve) e poi il piccolo Ame (pioggia), i quali mostreranno subito la doppia natura umana e lupesca. Ben presto Hana si ritroverà da sola a crescerli: il padre infatti, non potendo combattere la propria natura, esce a caccia in forma di lupo per rimediare delle prede con cui sfamare i suoi cuccioli, ma la caccia nella metropoli lo porterà incontro alla morte. Hana fugge quindi in un villaggio di campagna, isolandosi, per crescere i due figli lontani dal mondo, in modo che nessuno scopra la loro natura, essendo i due bambini ancora incapaci di controllare le loro trasformazioni. Da qui assistiamo, oltre alla maturazione di Hana da giovane studentessa a madre su cui gravano grandi responsabilità – e che, tra l’altro, imparerà l’importanza della comunità nel piccolo villaggio in cui si rifugia –, alla crescita dei bambini-cuccioli che dovranno imparare a convivere con le loro due nature, a conoscerle entrambe fin nei minimi dettagli senza rinnegarle, a scoprire la storia del padre ma anche la vera essenza sia degli uomini sia della foresta, per poter scegliere autonomamente il proprio percorso, che ovviamente sarà molto diverso da quello che lo spettatore immagina all’inizio del film.
Tre anni dopo, nel 2015, esce il primo film completamente ideato, scritto e diretto dal solo Hosoda. È The Boy and the Beast, vero capolavoro in cui identità, famiglia, clan e tradizione spirituale trovano un’alchimia perfetta in una storia magistralmente narrata. Il bambino Ren, scappato di casa dopo la morte della madre e l’assenza del padre, entra casualmente nel regno degli spiriti bestia. Qui si troverà in mezzo allo scontro per diventare Gran Maestro tra i due guerrieri più potenti del Regno: il nobile e onorevole cinghiale Iozen, rispettato e attorniato da discepoli che dipendono dai suoi consigli, e l’irruento, testardo e irascibile orso Kumatetsu, che nessuno vuole come maestro né come amico. Kumatetsu, più forte di Iozen eppure sempre sconfitto nei duelli dall’avversario, prende come discepolo l’altrettanto testardo e irascibile Ren, causando scompiglio nel regno degli spiriti: a differenza loro, infatti, nel cuore degli umani albergano le tenebre, che possono portare rovina nel Regno. Il rapporto instauratosi tra maestro e allievo, che ben presto diventerà quasi paterno/filiale e successivamente fraterno, aiuterà entrambi in un percorso di crescita personale. Insegnare la disciplina aiuterà Kumatetsu a impararla lui stesso, mentre Ren diverrà un abile guerriero. Ma Ren resta sempre un umano e, per quanto legato a Kumatetsu e al Regno degli spiriti, sa che il suo vero posto è il mondo degli uomini. Vi tornerà solo dopo aver completato l’apprendistato, ritrovando la famiglia e il padre smarriti, che per anni lo hanno cercato disperatamente: riuscirà così a governare le tenebre che porta nel cuore. A questa presa di coscienza fa da contraltare la perdita di Ichirohiko, figlio di Iozen. In realtà, anche lui è un bambino (umano) smarrito e cresciuto dal nobile cinghiale, ma, a differenza di Kumatetsu con Ren, lo ha sempre tenuto nascosto sia al bambino sia agli altri. Cresciuto con la consapevolezza di essere diverso e “altro”, sentendosi costantemente fuori posto seppur accettato e amato, non potendo conoscere le proprie radici e la propria vera identità, Ichirohiko cederà alle tenebre, rischiando di inghiottire il mondo, fino allo scontro finale con Ren, che potrà vincere solo riempiendo il proprio “buco nel cuore”, quello dove si annidano le tenebre, con la presenza del maestro e amico Kumatetsu, divenuto kami in forma di spada, che potrà così accompagnarlo e guidarlo per sempre.
L’ultimo film di Hosoda – in attesa del prossimo, di cui dichiara solamente che sarà diverso dai precedenti, ma conserverà le tematiche principali della sua ricerca artistica – è stato Mirai, del 2018. Anch’esso completamente ideato, scritto e diretto da Hosoda, è la storia di un bambino di appena quattro anni, Kun, che affronta la nascita della sorellina, Mirai, ritrovandosi di colpo a dover cedere alla neonata il ruolo di persona al centro di tutte le attenzioni di genitori e nonni. Questo sconvolgimento dapprima lo porterà a odiare la piccolina, ma ben presto incontrerà la Mirai venuta dal futuro – purtroppo in Italia si perde il senso del titolo originale, Mirai no Mirai, ovvero “la Mirai del futuro”, dato che Mirai in giapponese vuol dire proprio “futuro” – per salvaguardare un importantissimo rito familiare shintoista che la riguarda e lo accompagnerà in un viaggio onirico in cui incontrerà antenati, discendenti e spiriti familiari, conoscendo così tutta la storia della sua famiglia. Solo l’assunzione della propria responsabilità di fratello maggiore e la presa di coscienza identitaria, in quanto Kun Ota della famiglia Ota, lo salverà dalla Terra della Solitudine, una sorta d’inferno in cui si rimane da soli, svincolati da ogni retaggio e legame familiare. Potrà così tornare a casa nel suo tempo, finalmente deciso a crescere senza vizi e capricci per proteggere la piccola Mirai.
Decisivo nella vicenda, collegamento fra tutte le generazioni del passato e del futuro, unica ancora di Kun nel suo viaggio onirico, è il grande albero al centro della casa, vero perno spirituale che preserva la continuità familiare degli Ota. Un simbolo piuttosto chiaro che si ricollega a un antico insegnamento, facilmente riconoscibile in tutte le opere di Hosoda: riscoprire le proprie radici, essere ben saldi nella propria identità individuale, familiare, di clan e di popolo, è quanto permette di scoprire in se stessi quell’asse che non vacilla e che incarna l’identità profonda, fuggendo dall’oscuro destino di solitudine e smarrimento che incalza chi, al contrario, persegue l’egoismo, l’individualismo e lo sradicamento da ciò che invece deve essere ben profondo.