Una bocca. Il rossetto, passato gentilmente sulle labbra. Il nome di Romain Duris, l’attore protagonista, sovraimpresso (come a suggerire, per un istante, «il travestito», fingendo di soddisfare subito la prurigine accesa nello spettatore dai paratesti pubblicitari). E poi il nome di Anaïs Demoustier, mentre un eye-liner abbellisce un occhio celeste, e quello di tutti i protagonisti, mentre si susseguono particolari di corpo1, dettagli di una persona che si veste, o viene vestita, da sposa. In ultimo una mano, che le chiude le palpebre: non è David (Romain Duris), non è il travestito, ma è Laura (Isild Le Bosco), sua moglie. Defunta. La bara si chiude. Il titolo, finalmente, può palesarsi: Una nuova amica (2014). Uno sviamento sottile, il primo di una serie, e un paradosso. Un titolo che crea (quel nuova) e un’immagine funebre. Una morta, abbigliata come al principio di una nuova fase dell’esistere. Il contraddittorio si scioglie, poi, nel corso del film: David, sposandosi con Laura, rinuncia alla sua parte femminile. La morte della sposa, della mamma di sua figlia Lucie, è l’atto di rinascita del rimosso. È lui, David in drag, la nuova amica di Claire (Anaïs Demoustier), che con Laura è cresciuta2, è lui che la sostuisce. O è Claire, a sostuire Laura, agli occhi di David?
Ozon procede per aggiustamenti, chiama lo spettatore ad adagiarsi su uno schema interpretativo per poi scantonarlo, adatta il racconto di Ruth Rendell, The New Girlfriend (1985), facendo sì che il thrilling, e qui sta il punto cruciale del film, sia tutto nell’identificare la forma del desiderio che lega David a Claire, accennando scioglimenti e rilanciando continuamente, usando etichette per poi scollarle brutalmente, fino a un finale che dichiara l’intento politico dell’intera operazione. Nei titoli di testa Anaïs Demoustier/Claire è associata a un occhio: e sono lei e il suo sguardo, i veri protagonisti del film. Deceduta Laura3, Claire cerca di sottrarla alla morte: in autobus, crede di scorgerne la nuca. Dall’ufficio, si affaccia sulle finestre di un hotel (il Virginia) cercandola tra tutte quelle storie possibili (come in un’inversione di Nella casa, 2011). Il telefono le dice che «David non può rispondere», lo tace. Giunta al domicilio della defunta, scopre (scorgendone la nuca, in primis) David en travesti cullare Lucie. Tornata a casa, al compagno, Gilles (Raphaël Personnaz), dice di avere incontrato Virginia (come l’hotel), una sua amica del liceo. Il film accenna una prima possibile lettura (David come donna che visse due volte proiettata dall’amore amicale di Claire, Virginia come sua creatura), mentre David cerca un movente socialmente accettabile al suo comportamento (garantire a Lucie una figura materna) e Claire indossa da principio un ruolo pregiudiziale («Non è per Lucie che lo fai, ma per un tuo piacere personale. Sei un pervertito»). Il film – ronde irridente di stereotipi, gioco di sostituzioni e girandola di doppi, ricerca di incastri e rincorsa di ipotesi, sfacciato aggiornamento sirkiano – è il percorso verso un equilibrio, verso il reciproco riconoscimento dei due. E verso il riconoscimento, soprattutto, di se stessi. La sera, dopo aver incontrato David, Claire comincia a far riemergere la propria femminilità: si guarda allo specchio, si tocca il seno, si mette il profumo. E mentre David è presto cosciente di quel che è, ovvero Virginia (è Ozon stesso, in un cameo, a mettere alla prova la sua eventuale attrazione per gli uomini), è Claire (e l’occhio dello spettatore, con lei) a cercare di comprendere, tentativo dopo tentativo, il proprio desiderio, etichettandolo, troncandolo: prima come semplice mancata accettazione del lutto, poi insinuando l’ipotesi lesbica (il rapporto sessuale con Laura sognato, e quello interrotto, dopo che le sue mani hanno incontrato il membro di lei, con Virginia: «Non posso: sei un uomo!»), chiudendo David in una figura innocua di omosessuale (prima giustificando agli occhi del compagno la sua fuga con David dietro un coming out improvviso, perché «Omosessuale è meno ridicolo di travestito!»; poi, nella doccia, immaginandolo fare sesso proprio con Gilles) o spostando su di lui le proprie paure («Sei malato!»).
In una delle scene centrali del film, quella all’Amazone, locale LGBT, Virginia si commuove di fronte a una drag queen che canta Femme avec toi («Et enfin pour la première fois/ Je me suis enfin sentie/ Femme, femme, une femme avec toi»). Dopo l’incidente che manda in coma David, proprio mentre le sta scrivendo «No, sono una donna», Claire recupera abiti, trucco e parrucco di Virginia e veste l’uomo, così come lui aveva vestito la moglie defunta, trovando un nuovo se stesso. Qui, nello stesso ospedale in cui Laura è morta, gli canta Femme avec toi. Virginia, in uno di quei momenti in cui il cinema abiura il realismo come preciso atto politico, si risveglia. Finalmente, Claire riconosce David per quel che è: Virginia, lui, una donna. Ma è Claire, soprattutto, a liberare se stessa, perché è con lui, con lei, che s’è sentita donna: lo si nota nel progressivo femminilizzarsi degli abiti, nel crescere del desiderio sessuale, nel montaggio che alterna la seduta di trucco drag alla sua. Nel finale Virginia e Claire, incinta, aspettano all’uscita della scuola Lucie. Poi si incamminano, mano nella mano («Solo certe donne si tengono per mano»), verso il sole, in un paesaggio cartolinesco, in un’utopia finalmente possibile. Una nuova famiglia, come in Il rifugio (2009), è fondata. Una famiglia, lo si declami a gran voce, che non è mai una formula: nemmeno se fuori dal canone eteronormativo4, nemmeno se composta dal travestito, la donna, la bimba. Perché Ozon fa riaffiorare crucci e convoca crisi, cerca il queer in ogni individuo, allunga ombre. Claire, in fondo, risvegliando Virginia non resuscita finalmente Laura? E se così fosse, sarebbe un problema? E perché, per esempio, Laura e Lucie da bimbe sono interpretate dalla medesima attrice?
Note
1 Da La petite mort (1995) è ricorrente, nel cinema di Ozon, lo studio, prossimo alla fotografia, dei corpi, momenti in cui la macchina da presa scompone un fisico in parti, studiandole una a una, facendone feticcio.
2 In una simbiosi che Ozon, con sfacciato godimento da mélo classico, riassume in una serie storica di scene amicali, legate (nel senso musicale del termine), in un montaggio esibito sino al virtuosismo gratuito, all’eccesso del kitsch.
3 Che non esiste se non nei ricordi, personaggio muto, figura che è solo racconto dei personaggi, e il cui nome rimanda, con riferimento tanto puntuale quanto caricaturale a un film d’ossessione necrofila come Laura di Otto Preminger, in italiano Vertigine, 1944.
4 Quello incarnato non tanto dai genitori cattolici di Laura, ma da Gilles, che – nonostante sia attratto, sulla strada e nel segreto della sua automobile, da prostitute transessuali – di fronte alla presunta omosessualità di David ricorre alla lingua educata e offensiva di una tolleranza eterocentrica («Ormai ce ne sono tantissimi, come te, non preoccuparti» oppure «Povera Lucie: la madre morta, il padre gay»).