Un sipario rosso su cui scorrono i titoli di testa, con in sottofondo rumori tipici dell’aula di tribunale più che del teatro. Una macchina che arriva, con la camera fissa sulla casa che vedremo tante altre volte nel corso del film, quasi solo in interni. Voci fuori campo, ma dentro la casa, di un compleanno a sorpresa. Spari. Urla. Mentre da fuori continuiamo a guardare come ossimorici voyeur che non sanno cosa succede. Così comincia Sitcom. La famiglia è simpatica di François Ozon. Ci vorrà uno scatto indietro nel tempo (molti mesi prima, ci dice la didascalia) e un’ora di film per tornare a questo punto di partenza.
Nell’incessante produzione del regista francese Sitcom. La famiglia è simpatica (ma l’orribile titolo italiano sarebbe da dimenticare) si colloca all’inizio, primo lungometraggio dopo una serie di corti e mediometraggi. Ci sono già i temi e certe atmosfere che ricorreranno lungo tutta la sua carriera, l’attenzione per la sessualità, per i corpi, le famiglie sballate (che fanno spesso una brutta fine), i toni fassbinderiani e via dicendo. È la storia di una famiglia che abita fuori città: c’è il padre assente e anaffettivo, il figlio secchione che diventa viveur dopo essersi dichiarato omosessuale, la madre annoiata bisognosa di cura e affetto, la figlia depressa aspirante suicida (non riesce a togliersi la vita ma rimane sulla sedia a rotelle), la donna di servizio con il marito nero e bisex, infine il fidanzato della figlia. Soprattutto c’è il topo: un innocuo topino bianco, di quelli da compagnia, che il padre di famiglia porta in regalo e si rivelerà il detonatore di ansie, paure, bisogni. Tocchi il topo e ti trasformi. È l’unico personaggio dotato di soggettive, alcune delle scene più belle sono mostrate proprio dal punto di vista del roditore che vede le sbarre dall’interno della sua gabbietta. Chi è in una gabbia, lui o tutti gli altri personaggi? Lo chiede Ozon, e la domanda è tanto stilizzata quanto azzeccata.
Non si salva nessuno, in questa satira grottesca, o forse si salvano tutti perché di insegnamenti morali non ce ne sono. In un film ricco dei più svariati riferimenti e richiami (Luis Buñuel e Marco Ferreri, ma anche John Waters e Pedro Almodóvar) Teorema di Pier Paolo Pasolini è quello che più vale la pena di indagare. Nell’opera pasoliniana era l’arrivo di un misterioso personaggio a sconvolgere gli equilibri della famiglia. Il topo di Ozon è il Terence Stamp del film del 1968, l’ospite innominato che seduce un protagonista dopo l’altro. In questo caso però il carico di tensioni è già presente, in nuce, nei membri della famiglia, non c’è bisogno di una persona ad attivarli, basta un innocuo topino. Il primo a cadere è il figlio, che scopre la propria omosessualità toccando il topo, e nel film incorrerà nella trasformazione più radicale, fino a lanciarsi in orge casalinghe rinominate “sessioni di gruppo”. Ma attenzione, le orge sono caste: il sesso in Sitcom è un continuo rimando, con poca azione e molto contorno. Si vedono corpi nudi (si intravede anche un pene eretto, sempre più impressionante di una vagina) ma soprattutto si parla, si discute di numerosi incesti solo intuiti, le scene di sesso nudo e crudo però non ci sono. Il regista mette in scena semmai l’incapacità, l’impossibilità del sesso: è il caso della figlia, che dopo l’operazione cerca soddisfazione in giochi erotici estremi con il noioso fidanzato, ma che, hanno detto i dottori, forse non ritroverà più la piena funzionalità sessuale. E il ragazzo, frustrato, si rifugia presso la donna di servizio, ma sul più bello i due sono interrotti dalla fidanzata, che li fotografa. Impossibilità, inabilità, costante rimandare ad altri momenti.
Momenti che spesso non è chiaro se siano sogni o no, visto che più di una volta nel corso del film si alternano passaggi onirici e “realtà”, con sfumature intermedie. Neppure lo psicologo, interpellato dalla madre, riesce a trovare il bandolo della matassa, al contrario si illude che l’incesto madre-figlio (anche questo più raccontato che visto) sia solo un sogno. Del resto il framing di questi sogni/realtà è sempre quello della quinta teatrale che vediamo all’inizio, richiamata anche da altri elementi (come il rettangolo della finestra da cui si lancia la figlia) che hanno il ruolo di inquadrare, di incorniciare. Tra i punti altamente simbolici va segnalato uno dei classici topoi cinematografici: lo spiare dal buco della serratura. Ma alla ragazza sulla sedie a rotelle non appare la casta orgia in atto nella stanza del fratello, cioè quello che voleva spiare, ma un paesaggio tropicale: siamo di nuovo in un sogno? No, è la carta da parati della stanza. La confusione tra illusione e realtà.
Alcuni critici, soprattutto anglosassoni, hanno rilevato nel film la ripetizione di alcuni luoghi comuni. È vero probabilmente il contrario. Indubbiamente Abdu (interpretato da Jules-Emmanuel Eyoum Deido) è un personaggio stereotipato all’estremo, un corpo nero (quasi soltanto) nudo veicolo di sesso e trasgressioni: ci si possono scorgere, a volerli cercare, secoli di colonialismo e di passione per l’esotico. Però: Abdu non è passivo, non è solo un corpo, ha passioni, guarda oltre a essere guardato e si fa allora veicolo anche di un ribaltamento, di una presa di coscienza, di un’evoluzione postcoloniale. L’altro personaggio non francese del film, la governante Maria (Lucia Sanchez, tra le attrici feticcio di Ozon), tipica donna di servizio spagnola in Francia (come in Le donne del 6º piano di Philippe Le Guay, 2011) non accetta la sua situazione di serva, prende coscienza e smette di servire, attuando un’aperta ribellione che include approcci sessuali nel bagno di casa.
Il film è un’esplosione di queerness a più livelli, l’incesto è la normalità, le identità di genere vengono alterate e sovvertite, la logica binaria tra eterosessualità e omosessualità completamente cancellata. Non mancano neanche, specie nel finale, elementi splatter, sintomo di una violenza liberatoria e catartica. Il patriarcato – distratto e ripiegato su se stesso – alla fine crollerà, lasciandosi dietro soprattutto macerie e relazioni mancanti e mancate.
Non ci sono lezioni in questo film, né proposte per un mondo migliore. Solo una satira radicale sull’istituto della famiglia, che pone l’accento sulla questione dei rapporti egemonici e considera il sesso lo strumento per comunicare messaggi in costante reinvenzione e personaggi in continuo flusso.