Le belle statuine venerano e imitano, le icone sono un inimitabile oggetto di venerazione. Suzanne Pujol, la “bella statuina” di Potiche (2010) – termine che rinvia a “recipiente”, a “vaso di porcellana” e che, per estensione, qualifica un membro della famiglia avente un ruolo puramente esornativo, senza potere, funzioni o incarichi – venera il marito e ciò che egli rappresenta, imita sua madre, casalinga modello, ed ogni sua azione pare ratificare un’orgogliosa separazione dal mondo. La realtà, la vita, sono altrove. Di sicuro non sono dans la maison della casalinga, le cui principali occupazioni sono viste dal marito e dai figlio come inutilmente necessarie. Suzanne ignora o fa finta di ignorare il “fuori”, dalla fabbrica di ombrelli dei suoi avi, ereditata dal marito, alle vicende sentimentali dei figli. Reclusa in un castello dorato che assomiglia a un teatro di posa senza spettatori, passiva, accondiscendente, Suzanne è pura e amabile apparenza; un’apparenza che rivela l’appartenenza a un ceppo, una stirpe, un modello che la donna replica senza mai mettere in discussione.
Disseminata di ninnoli e pizzi, la sua dimora è, come un ombrello, un riparo dalla pioggia; uno specchio che riflette il suo status di donna asservita e servile: pura rappresentazione senza rappresentanza e senza rappresentatività, forma distante e isolata dal mondo, da una “realtà” con la quale solo l’uomo di famiglia, acido, avido, cinico, ha il diritto di interagire. In effetti, Pujol cesella per Suzanne un mondo di cartapesta, emendato dalle asperità che potrebbero incrinare l’equilibrio, destare la coscienza e, soprattutto, invertire la relazione dominato-dominante e la supremazia del maschio. Suzanne deve continuare a scrivere patetici poemi, limitarsi a corse mattutine in boschi da belle addormentate, incrociare lo sguardo degli animali della foresta. Nella sua prima parte il film è, come Suzanne, un elegante “contenitore”, al cui interno deambula la potiche, altro contenitore senza contenuto. Ozon inanella situazioni, ora ammiccanti ora parodistiche, in grado di convalidare lo status (quo) della sua eroina e di amplificare la rigidità di un carattere monocromo, un “tipo” che sembrerebbe sfuggire al movimento del tempo eattamente come certo cinema vintage e nostalgico, che ci fa vivere (nel)l’illusione dell’eternità della forma.
Un evento esterno rompe tuttavia l’incantesimo di coccio. Potiche-film muta improvvisamente registro e finalità. I lavoratori della fabbrica di ombrelli occupano gli stabilimenti, Pujol viene sequestrato. La scena che inaugura la macrosequenza della protesta è esemplare ed emblematica di tutto il cinema “nostalgico” e pseudopassatista dell’autore di Angel. La vita, il romanzo (2007): Suzanne sente gli operai gridare slogan di protesta contro il marito («Pujol, ras le bol!»), si avvicina alla finestra del soggiorno, scruta e vede un gruppo di scioperanti davanti ai cancelli. La realtà, che mai aveva fatto ingresso dalla porta principale della casa ovattata della bella statuina, entra inaspettatamente dalla finestra. Una vera e propria epifania, a seguito della quale Suzanne, e con lei il film, decidono di uscire e cominciare ad agire nel mondo: uscire dal carattere mummificato, marmoreo, della potiche; uscire in strada, nel cuore della protesta, per cercare di placare gli animi e trovare soluzioni di compromesso; uscire per presentarsi alle elezioni e vincerle. Anche il film, proprio come Suzanne, “esce fuori”, fuori dalla riproduzione passiva dei codici, modi e modelli della commedia wasp anni Sessanta e Settanta. La bella statuina si anima, il bel contenitore cinematografico si riempie di senso e comincia a parlare del presente nel passato e del passato al presente.
Dalla rappresentazione alla rappresentatività, personaggio e film gettano contemporaneamente la maschera. Potiche si rivela infine per quello che è, dietro la parvenza del film minore e minoritario: un cinema dalla confezione ammaliante che seduce prima di prendere, come Suzanne, coscienza e parola. E sorprendere. Il visibile (scenografia, costumi, trucchi e acconciature), l’innocuo contenitore-potiche, disvela così un assioma squisitamente politico: io non sono ciò che sembro; io, pura forma cinema “vintage”, ostentatamente démodé, contengo al suo interno l’affermazione del suo opposto. Potiche sembra all’inizio rifuggire il presente esattamente come Suzanne, adagiarsi sugli allori del passato alla maniera di 8 donne e un mistero (2002). Ozon pare voler rinverdire stilemi del cinema che fu senza per questo attualizzarli, adattarli al tempo presente. La riproposizione apparentemente piatta trascolora in metafora del presente nel momento in cui gli attanti si ribellano e da belle statuine diventano icone pubbliche e politiche. La casalinga Pujol scende in campo, assume lo statuto di mater politica, la mamma di tutti, l’incarnazione prodromica di Ségolène Royal, candidata socialista alle elezioni presidenziali del 2007 contro Nicolas Sarkozy, del quale Pujol marito fa proprie alcune delle più celeberrime esternazioni («Casse-toi pauvre con!», «Travailler plus pour gagner plus»). La statuina è dentro, nel e per il décor. L’icona è fuori, si afferma e afferma nel momento in cui comincia ad interagire con la “realtà” del passato. Il percorso di Suzanne Pujol è in definitiva speculare a quello del cinema dell’Ozon “iconologico”: il cinema come atto d’amore capace di trasformare figurine di cartapesta in icone con un’anima e un sogno. Potiche ci ha ingannato proprio come Suzanne, presentandosi inizialmente come contenitore vuoto, elegante confezione che all’interno non contiene altro che figurine ammiccanti; pura e ingannevole forma esteriore, esornativa e illustrativa come il vecchio cinéma de papa. Quando la forma vuota si riempie di senso e consenso, le statuine e i caratteri si tramutano in icone rappresentative del nostro tempo, rivelando l’attualità del vintage e la necessità di un cinema che occulta il suo fine “politico” in luccicanti vasi di porcellana da distruggere.