Un professore seduto da solo in un androne, uno studente nel piazzale deserto di un liceo. Presto lo spazio di entrambi si riempie, colleghi e compagni come segni che vorticosamente affollano la pagina bianca. Poi lo schermo si ripartisce in minuscole porzioni, dentro cui scorrono immagini di ragazzi. Di potenziali personaggi. I riquadri si fanno sempre più grandi e meno numerosi: sembra di assistere all’esercizio di un algoritmo, a un complesso e al contempo lineare meccanismo di selezione.
È sufficiente il prologo di Nella casa (2011) per stabilire che quello che François Ozon sottopone allo spettatore è un esperimento, il resoconto di un tentativo in definitiva fallito. Distrutta l’esistenza (professionale e privata) del suo mentore, Claude non ha trovato un degno epilogo alla propria storia. Come il suo gioco ha determinato la rovina di Germain, così pure lui è rimasto vittima del disegno del proprio autore, che ha assemblato un film teorico come un manuale di sceneggiatura, astratto e frammentario, scandendo le domande giuste – si parla di motivazioni, lettore ideale, verosimile, conflitto – ma evitando volutamente di risolverle, per declassarle a formule vuote al rango di quelle che dovrebbero “spiegare” l’arte contemporanea. D’altronde, ricorda Jeanne, la letteratura e l’arte in generale non ci insegnano nulla: forse a distinguere il bello, di sicuro non a vivere. Dunque proprio dall’osservazione, anzi dalla frequentazione della vita bisogna muovere, sublimandola con l’immaginazione: come sancisce la scena conclusiva, con i due protagonisti che si godono lo spettacolo di un condominio-alveare come davanti a un gigantesco multischermo televisivo, congetturando sui romanzi ancora da scrivere dietro quelle pareti di vetro. Perché l’unica certezza è che di storie avremo sempre bisogno. Ozon sceglie quindi di concentrarsi sul processo che ne conduce alla nascita, architettando un teorema delle possibilità che è chiave funzionale a quella giustapposizione – più che mescolamento – di generi e all’incastro di verità e finzione che (con la libertà sessuale) costituiscono i tratti più tipici della sua opera.
Sebbene alla base della pellicola vi sia la pièce teatrale El chico de la ultima fila di Juan Mayorga (2006), Ozon immette temi e figure con abbondanti precedenti nella sua produzione: la satira familiare di Sitcom. La famiglia è simpatica (1998), la perfidia dell’innocenza giovanile di Amanti criminali (1999), il sesso come potere e la disillusione dei sentimenti di Gocce d’acqua su pietre roventi (2000), il fallimento di coppia di CinquePerDue. Frammenti di vita amorosa (2004), la commistione di realtà e letteratura di Swimming Pool (2003) o Angel. La vita, il romanzo (2007). Confermando inoltre un gusto eccessivo per la citazione, affastella modelli nobili (Hitchcock, Allen, Pasolini) senza tralasciare la favola morale di La Fontaine, che con la vicenda della canna e della quercia getta nuova luce sui rapporti di forza tra maestro e allievo (chi impartisce all’altro la lezione?), mentre gli sguardi si soffermano sugli angeli di Paul Klee e i dialoghi sulla relazione di Flaubert o Dostoevskij con i personaggi.
Infine, cerca la complicità del mito classico, con quel “labirinto del Minotauro” che è denominazione spaventosa della galleria delle gemelle e per metonimia dell’arte contemporanea, sbeffeggiata come catalogo di oggetti incomprensibili e inservibili che a ogni nuovo vernissage espongono l’inadeguatezza di Jeanne come Arianna, incapace con i suoi slogan fumosi di salvare il visitatore dal brutto e inutile che lo circonda. Ma se il Minotauro assume di volta in volta le grevi fattezze di una bambola gonfiabile con la faccia di Hitler, Stalin o Mao («la dittatura del sesso») o quelle evanescenti delle presenze di Feng Tang (quasi una versione digitale delle variazioni di Monet: comunque, non si vendono), è prima il mostruoso groviglio di rancore, abitudine, estraneità e rimosso che si annida in ogni nucleo familiare superficialmente “normale”, stanato nelle sue esplorazioni di labirinti domestici da Claude-Teseo (che se non convincerà Esther-Arianna a evadere dalla casa dei Rapha, nemmeno donandole il filo di carta di una lirica inestricabile, in quella dei Germain ucciderà il Minotauro-professore).
Eppure, a proposito del Minotauro, ci si smarrisce facilmente nel dedalo del senso. E si dimentica che la bestia non è la padrona dei cunicoli che dissemina di terrore e morte, ma la loro reclusa più antica. Come Esther, prigioniera della noia e poi di una nuova gravidanza, e Jeanne, costretta in un ménage raggelato e inappagante, in cui le velleità intellettualistiche si sono mangiate la carne e il sangue. Se Minosse comanda di progettare dei meandri inesplicabili per rinchiudervi quel figlio abominevole, il Minotauro è il primo a essersi perso nel labirinto, senza averne più trovato l’uscita. Allora, in ultima analisi, egli è l’autore – Claude e Ozon insieme – alle prese con una collezione pressoché illimitata di passaggi obbligati, scorciatoie, biforcazioni e ripensamenti per guidare i personaggi fuori dalla narrazione, còlto a imboccare innumerevoli strade dentro e attraverso il film, nell’incertezza della creazione letteraria come nella rappresentazione cinematografica della stessa, solo all’apparenza meno dubbiosa. Che alla fine ci consegna lo scontro di intelligenze fra due costruttori di storie (uno aspirante e uno mancato) e il rovesciamento di una manipolazione che da agíta si scopre subíta (come in Gli insospettabili di Joseph L. Mankiewicz, 1972); ma soprattutto il paradosso secondo il quale la sterminata possibilità di traiettorie che struttura il labirinto contempla una sola via di fuga. Come rivela Germain, è questo il segreto per un buon finale: lasciarsi aperto ogni eventuale sviluppo, ma scovare l’unico ammissibile. I due autori di questa metanarrazione che cambia continuamente sfumature come i cieli di Feng Tang, tuttavia, paiono rifiutare tale insegnamento. Tanto Claude quanto Ozon accantonano il dovere della chiusa, preferendo l’opzione, lo slittamento di livello, il nuovo inizio. Come il cinema del passato è serbatoio di riferimenti a cui attingere, così lo squallore quotidiano è miniera di occasioni per ricominciare a raccontare, magari anche solo una serie di incipit come in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979). Perché al pari del metaromanzo di Calvino, Nella casa non è altro che una riflessione sulle infinite possibilità offerte dall’arte e sulla conseguente impossibilità di giungere a una conoscenza del reale.
Un altro paradosso: come una creatura con il corpo di uomo e la testa di toro, che infilza la nostra insaziabile fame di storie sulle corna e la tritura sotto gli zoccoli…