Tra il 1988 e il 1998 François Ozon gira una serie di lavori brevi che non solo contengono in nuce elementi e tematiche che si ritroveranno nei suoi lavori lunghi, ma che stupiscono per la qualità e la maturità dello sguardo: sono lavori contesi dai festival di settore, molto premiati, che conferiscono al regista, fin da subito, una solida reputazione.
Nel Super 8 Photo de famille (1988), la primissima macabra sitcom (Casa Ozon…), quella che sembra una normale serata in famiglia (tra tv, studio, preparazione della cena) finisce con l’omicidio, da parte del figlio, di genitori e sorella. La strage è il frutto evidente di un conflitto di visioni: la famiglia riunisce sotto un unico tetto letture diverse della realtà, anche se violentemente uniformate in una ritualistica convenzionale comune che il giovane assassino, nel finale, decide di omaggiare e dissacrare nello stesso tempo (l’autoscatto sul divano, circondato dai congiunti uccisi, mette in scena un controverso quadretto familiare). Les doigts dans le ventre (1988) si muove nello stesso alveo: è il pedinamento di una ragazza bulimica che trascorre la sua giornata vagabondando per Parigi, ingozzandosi. Rientrata a casa, dopo aver vomitato, la protagonista si mette a tavola con i familiari e mangia insalata. Anche in questo caso domina la scissione tra una dimensione intima e personale, ignota al nucleo parentale, in cui il corpo costituisce oggetto di una preoccupazione e di un’attenzione abnormi, e un microcosmo, quello familiare, quale contesto fassbinderianamente innaturale e disumano, costruito su abitudini e usi ridotti a insensibili automatismi.
Mes parents un jour d’été (1990) si concentra, invece, sulle dinamiche di una coppia di coniugi: la loro quotidianità è scandita da pacate consuetudini, attraversate da tensioni e inquietudini latenti (lui beve di nascosto, lei reprime un istinto omicida, giocando a scarabeo formano parole che alludono a una crisi), trovando infine l’unico momento di comunione al cimitero, di fronte a una tomba senza iscrizione che sottintende, forse, la morte recente di un figlio (in questo senso il titolo sarebbe ambivalente, essendo i protagonisti i genitori del regista).
Sono temi ripresi, nei toni più marcati del grottesco, dal primo corto in 35mm, Victor (1993), in cui il protagonista, soffocato dalla vita familiare condotta in una sontuosa magione, dopo aver rinunciato al suicidio e ucciso gli opprimenti genitori, profana lo scenario in cui ha condotto la sua vita borghese. Una volta esorcizzato il legame familiare, attraverso una sorta di macabra messa in scena simbolica, e ottenuto anche il battesimo sessuale, Victor recide il cordone ombelicale. Poi abbandona definitivamente quel luogo primario e si prepara ad affrontare la vita e il mondo esterno.
Nell’incontro tra Rose e Paul di Une rose entre nous (1994) va vista, invece, la prima decisiva collisione tra personaggi che determina sconvolgimenti di equilibri e conseguenti, intime scoperte. Rose convince Paul a prostituirsi, lui accetta, sopraffatto dall’attrazione per la ragazza, anche se pulsioni diverse fanno già capolino. La serata si chiude con i due a letto, ma per Paul l’amplesso è un’esperienza rivelatoria, un rito di passaggio al rapporto omosessuale: come in Victor, il corto mette in scena l’ultima fase di un processo di elaborazione che si conclude con una nuova nascita. Nella stessa ottica vanno considerati i folgoranti quattro minuti di Action Vérité (1994): un gruppo di adolescenti sta giocando a “Action, Vérité, Conséquence”, in cui ciascun partecipante deve scegliere tra il dire una verità o compiere un’azione richiesta. Tra rivelazioni e ammicchi sessuali, i ragazzini si provocano a vicenda, ma l’ultima azione, concludendosi con la scoperta del sangue mestruale, segna la fine del divertimento innocente e, metaforicamente, dell’età dei giochi.
La petite mort (1995) alza la posta: Paul è un giovane artista segnato dal racconto del ricordo della reazione paterna alla foto che lo ritraeva neonato (il genitore, lontano, lo aveva definito «brutto»), che lo ha portato, da adulto, a vivere con disagio le relazioni sociali, compresa quella con il suo amorevole compagno. Recatosi al capezzale del padre morente, con cui è in rotta da sempre, Paul non viene riconosciuto. Alle prese con un progetto che lo porta a immortalare uomini nel momento della «piccola morte» (l’orgasmo), Paul affronta quella gigantesca del padre, fotografandolo di nascosto sul letto d’ospedale. La famiglia, che nei corti precedenti determina un tacito dissidio in atto e un passaggio evolutivo, qui si presenta come esperienza rifiutata, ma di fatto mai superata, che torna, dunque, sotto forma di trauma da elaborare. La svolta significativa è data dall’azione della sorella del protagonista che, dopo il lutto, regala al fratello una foto che la ritrae con il padre e gli fa credere di esserne il soggetto. La donna sembra agire altruisticamente, concedendo a Paul, attraverso questo inganno, la possibilità di allontanare da sé l’ingombrante fantasma del rifiuto genitoriale, ma in realtà riconduce egoisticamente il fratello a sé, rendendolo di nuovo organico a quel nucleo familiare e borghese dal quale si era brutalmente distaccato. Opera di straordinaria densità tematica e di precisa, tagliente scrittura, il film rappresenta un netto scatto in avanti anche sul piano strettamente stilistico, colpendo per l’organica orchestrazione visiva.
La felicità del tocco è confermata dal capolavoro Une robe d’été (1996), corto che riassume con miracolosa levità e poesia i temi già esplorati nei precedenti lavori, offrendone un compendio decisivo: Luc, diciottenne, dopo un litigio con l’amico-amante con il quale è in vacanza si reca da solo al mare dove incontra una giovane spagnola con cui fa l’amore nel bosco. È la sua prima volta con una ragazza. Tornato in spiaggia, scopre che i suoi abiti sono stati rubati, quindi si reca a casa indossando l’abito della giovane. Dapprima imbarazzato, Luc, durante il percorso in bici, si sente sempre più a suo agio e, una volta a destinazione, ha un rapporto con l’amico. Il giorno dopo va a restituire l’abito: la ragazza glielo regala. Smascheramento dell’artificialità dei consolidati ruoli sessuali, delicato percorso di formazione identitaria, Une robe d’été propone, con disinvolta mistura di registri (il musical, la commedia, il coming of age movie), una soave ode all’età dell’innocenza (quella in cui la sessualità si esprime senza schemi, prima di essere inquinata dalle convenzioni), alla naturalezza del desiderio (il primo rapporto sessuale avviene tra le piante boschive, in una sorta di spazio mitico), all’ambivalenza dell’attrazione erotica. Tutti temi che trovano la loro sintesi visiva/visibile nell’abito-feticcio (oggetto simbolo per eccellenza del cinema ozoniano, qui, in una trafila significativa, prestato, indossato, strappato, ricucito, legato al collo, restituito, infine donato) che diviene emblema evidente, significativamente colorato, di gioiosa emancipazione e libertà.
Nel mediometraggio Regarde la mer (1997) la giovane inglese Sasha – che sta trascorrendo le vacanze sull’isola di Yeu in una villetta isolata, con la figlia neonata, attendendo il marito – autorizza Tatiana, turista da poco sbarcata sull’isola, a piantare la tenda nel suo giardino. Le donne instaurano un rapporto ambiguo, al punto che Tatiana finisce con l’uccidere Sasha e lasciare l’isola portando con sé la piccola. Considerato dal regista il suo primo film, Regarde la mer mette a confronto due mondi femminili – quello di una donna dalla vita apparentemente normale che nasconde profonde frustrazioni, e quello di una creatura sradicata il cui atteggiamento rimane insondabile – ed è il primo esempio di quella modalità intrusiva prediletta da Ozon, da Swimming Pool a Il rifugio, che decreta il contatto potenzialmente traumatico tra due persone in uno spazio concentrato,. Delle protagoniste, peraltro, non sappiamo nulla: come in un dramma pinteriano, esse non si autodefiniscono, ma si identificano esclusivamente attraverso azioni e dialoghi. Il regista stilizza ulteriormente la messa in scena tramite inquadrature fisse, intepretazioni prosciugate, rilevanza dell’aspetto cromatico (il vestito rosso di Sasha indossato da Tatiana nel finale ufficializza la raccapricciante sostituzione), affidando il senso di ambiguità e minaccia a pochi, penetranti dettagli (lo sguardo iniziale di Tatiana che fissa dall’alto madre e figlia, il contatto dei corpi, l’uso dei chiaroscuri, la disposizione dei piani). Chiamando in causa il contesto naturale come simbolica cornice di un confronto animalesco tra un rapace e la sua preda, è un lavoro che, con il senno di poi, rappresenta un passo decisivo verso la definizione di una dimensione autoriale sempre più riconoscibile e complessa.
Poco più di un divertissement è invece il successivo Scènes de lit (1998) che Ozon gira in due weekend, ironico excursus tra le tematiche predilette: sette microepisodi che vedono due protagonisti a letto, secondo combinazioni varie e in situazioni differenti. Si va dal soldato con la prostituta che, al buio e cantando La Marsigliese, pratica fellatio “particolari” (Le trou noir) al rapporto occasionale tra una donna e un uomo che rifugge l’igiene personale (Monsieur Propre); dal ragazzino che ha abbordato una cinquantenne (Madame) alla coppia che chiude il conto alla rovescia pre-coito al 69 (Tête bêche); dalla ragazza che confessa i suoi rovelli sentimentali a un’amica la quale alla fine, facendo la parte del soggetto spasimato, la bacerà (L’homme idéal, titolo ironico che contiene una poetica) alle esigenze inconciliabili della coppia di Love in the dark. Per chiudere con i due ragazzi (uno non ha mai avuto rapporti con un uomo, l’altro li ha avuti solo con una donna) che in Les puceaux, attraverso l’esperimento del sesso, svelano un’attrazione amorosa (il bacio finale apre un nuovo scenario). Gli sketch compongono un mosaico che ribadisce la visione di Ozon del rapporto amoroso e dell’intesa sessuale come frutto dell’incontro tra soggetti che sfuggono a categorizzazioni, azzerando barriere di genere, sociali, generazionali, culturali, per cui il letto si afferma come metaforico campo “neutro” nel quale il teorema viene dimostrato.
In X2000 (1998) il protagonista si sveglia in un appartamento dopo i festeggiamenti del capodanno 2000. Vaga nudo per la casa per perlustrare questo Eden devastato, pianeta che sembra a lui sconosciuto, seguito dalla sua Eva, donna matura con la quale ha dormito e che, nuda a sua volta, si immerge nella vasca per un bagno; intanto in soggiorno due gemelli, immobili nello stesso sacco a pelo, sembrano un serpente enigmatico, mentre dalla spazzatura una colonia di formiche sta per invadere la cucina. Lavoro volutamente ermetico che, narrando dell’alba del nuovo millennio, fonde, in un contrasto spiazzante, una narrazione realistica e minimale con suggestioni fantascientifiche.
Ozon torna inaspettatamente al mediometraggio nel 2006 con Un lever de rideau, da un testo di Henry de Montherlant (Un incompris). Il giovane Bruno attende in casa, in compagnia dell’amico Pierre, l’arrivo di Rosette: ha deciso che se anche stavolta la ragazza arriverà con tre quarti d’ora di ritardo metterà fine alla loro relazione. Eutanasia di un amore, sacrificato sull’altare della ragione, in cui i personaggi si muovono ognuno sulla base della propria esperienza e del proprio sentire: Bruno che vuole mettere fine a un legame che lo fa soffrire, Rosette che ascolta solo i suoi sentimenti, Pierre che vuole vedere felice l’amico. Colto gioco filosofico, in odor di Rohmer, che il forbito linguaggio e l’atemporalità della messinscena trasformano in asettica riflessione sulla rappresentazione (l’attesa di Rosette è quella dell’entrata in scena, l’addio è il testo da rappresentare, la discussione finale con Pierre rimanda al riscontro del pubblico e della critica). Il motivo è ribadito, per accumulo, dalla scelta del titolo: l’espressione lever de rideau – letteralmente “alzata di sipario”, ma anche “avanspettacolo” – allude a un lavoro breve che precede la rappresentazione canonica, così come questo mediometraggio potrebbe essere l’antipasto di un lungo.