Nell’inquadratura inaugurale di Il rifugio (2009), l’acqua oscura del fiume e il carico umano della città parigina serpeggiano quasi indistintamente l’uno accanto e dentro l’altro, prima che i residui balenanti della notte vengano proiettati e poi dissolti sulla facciata di un palazzo, dietro le cui finestre illuminate si intravedono appena alcune silhouette umane. Come in altri film di Ozon – ad esempio Ricky. Una storia d’amore e libertà, contemporaneo a Il rifugio, dove la macchina da presa passa, senza soluzione di continuità, dall’inquadratura della superficie di uno specchio d’acqua a quella dell’edificio anonimo che svetta sopra di esso – questo incipit filmico rappresenta una dichiarazione programmatica di poetica e di estetica, quella che Enrico Terrone ha definito «una figura di stile» sintomatica e precorritrice: «Ciò che vedremo nel seguito del film, per quanto possa apparire duro e solido, è sempre a rischio di infiltrazione da parte di altre dimensioni, in particolare quelle dell’inconscio, dell’immaginazione, della soggettività»1.
Il ritorno quasi ossessivo, nella filmografia ozoniana, di queste immagini d’acqua minimamente variate, sembra volere esorcizzare la morte come fine della possibilità di elaborare forme diverse e alternative (di cui il bambino-angelo di Ricky, messaggero laico di un lieto fine alternativo, è la figura più compiuta) capaci di raccontare e rappresentare realisticamente l’umanità e la sua routine della resistenza di fronte alla crisi e al disfacimento dell’orizzonte salvifico del quotidiano (il prologo di Ricky nega addirittura il controcampo dell’assistente sociale a cui la protagonista, in primissimo piano, rivolge una disperata richiesta di aiuto). Data questa premessa, il cinema di Ozon può essere letto come l’espressione di una volontà di liberare l’immagine da una de-finitezza prestabilita e, appunto, mortifera: eroderla quasi matericamente, per lasciare filtrare in superficie ciò che sta sotto, preme, sovverte. A questo rimanda forse il ritorno, di film in film e all’interno dello stesso film, di immagini situazioni azioni che sono quasi le stesse, ovvero che sono le stesse ma segnate da un sommovimento che le ha attraversate.
L’acqua, spesso soggetto dell’immagine ozoniana, è «il serbatoio di tutte le possibilità dell’esistenza»2: così l’essenza “liquida” del cinema di Ozon, che in quelle immagini si riflette, è rappresentata dal suo continuo figurativizzare la virtualità e rimandare alla dissoluzione del prestabilito, del preconcetto, quale preludio alla pratica di sopravvivenza dell’umano.
In Il rifugio, la fine della relazione degli amanti eroinomani Louis (Melvil Poupaud) e Mousse (Isabelle Carré) in un appartamento in cui si sono susseguite le intrusioni dell’estraneo (lo spacciatore, la madre di Louis, i portantini), fluisce quasi naturalmente – dopo la morte di Louis per overdose, la scoperta della gravidanza di Mousse e la sua decisione di tenere il bambino – nell’arrivo di Paul (Louis-Ronan Choisy), fratello omosessuale di Louis, al «rifugio», la casa che digrada verso il mare in cui Mousse trascorre l’estate. Proprio la presenza di Paul, figura al principio infiltrata, intrusa, obbliga Mousse a confrontarsi con quegli slanci e quelle pulsioni – raccontati da una narrazione ellittica ed essenziale che scarnifica i dialoghi e si sofferma sui micromovimenti fisici e scopici dei protagonisti – che conducono problematicamente alla consapevolezza di non poter diventare la madre del figlio che sta per mettere al mondo.
Se specchi e corsi d’acqua rimandano all’intromissione nel reale di istanze fittizie, inconsce, oniriche (significativamente, il mare che accoglie il bagno giocoso di Mousse e Paul è quello di una dimensione forse solo onirica), nell’immaginario ozoniano è propriamente il mare ‒ declinato in Il rifugio secondo un approccio materialistico che dà spessore alla sua alterità ‒ l’elemento che convoglia le forze dissolutrici ed eversive del racconto, i cui interventi aprono il campo all’imprevisto, alla variabile capace di rifondare, anche in modi spaventosi (Regarde la mer, 1997), l’esistenza; è il mare che rimanda incessantemente a quella tensione fra dissoluzione e preservazione che è al centro della poetica ozoniana, secondo la quale esso si contrappone alla «vasca» che chiude e imprigiona la materia, ed è l’immagine della «bella sensazione di pericolo, di poter essere trascinati via da un momento all’altro» (Swimming Pool, 2003). In Il rifugio, il mare è successivamente elemento di un insieme paesaggistico più vasto e insondabile, fuoricampo dal quale sopraggiunge l’altro, confine lungo il quale si muove il perturbante, «vista magnifica» che predispone al simulacro, presenza acusmatica roboante, oggetto dello sguardo che fa dell’orizzonte marino il proprio controcampo forse conciliatorio. Come scrive Carl Schmitt, «è significativo il fatto che l’uomo, quando si trovi su una costa, guardi spontaneamente dalla terra verso il mare aperto»3, per contemplare l’elemento che rappresenta «il fondamento originario di ogni vita»4. Fino alla fine Il rifugio inverte questa disposizione ontologica dell’umano, forse prefigurando la scelta finale di Mousse, certo facendo del contraddittorio la dimensione primaria in cui si manifestano il turbamento di Mousse e i suoi tentativi sofferti di compensare la propria manchevolezza con il simulacro (Mousse chiede al suo corteggiatore di cullarla come faceva Louis) e con la fuga (il latino refugium deriva da refugere «rifuggire»: Mousse abbandona la figlia neonata e la affida a Louis, promettendo di fare prima o poi ritorno).
Se il cinema di Ozon è la messa in scena di un ritorno impossibile, l’orizzonte di salvezza serenamente interpellato da Mousse nell’epilogo è suggellato da un’immagine (Paul che tiene in braccio la neonata) in cui ciò che se ne è andato e ciò che è rimasto si ricostituiscono finalmente in una forma diversa da quella pregressa, della quale prende il posto: il rifugio lieto rappresentato dall’inquadratura finale di Paul (il cui taglio di capelli è ora simile a quello di Louis) che, in una stanza di ospedale, culla dolcemente la bambina di cui è appena diventato il padre.
Note
1 Terrone Enrico, François Ozon. I suoi film, il suo cinema, in Mondadori Giacomo (a cura di), Scioperi e ombrelli, Feltrinelli, Milano 2011, p. 24.
2 Eliade Mircea, Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaca Book, Milano 1981, p. 135.
3 Schmitt Carl, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002, p. 12.
4 Ivi, p. 13.