Gocce d'acqua su pietre roventi. «Sognare un amore vero è proprio un bel sogno»
Matteo MarelliPovero Franz, che dopo aver conosciuto Léopold hai semplicemente scoperto qualcosa cui non puoi rinunciare e a cui sei disposto a sacrificare ogni altra cosa, persino te stesso, e cioè l’essere amato; invece che leggere, come ti vediamo fare alla metà del terzo atto, L’amore è più forte della morte di Heinz Günther Konsalik, forse avresti dovuto vedere L’amore è più freddo della morte di Rainer Werner Fassbinder (1969). Allora avresti capito che «L’amore costa fatica […]. Si è liberi soltanto nelle limitazioni. E non c’è cosa più terrificante dell’aver paura del terrore. Detto altrimenti: essere lasciati non ti fa piombare nella solitudine come quando si è presi dall’angoscia che sta finendo; perché quell’angoscia evoca un clima in cui tu hai addosso l’angoscia del terrore. […] Sognare un amore vero è proprio un bel sogno, ma le stanze hanno sempre quattro pareti, le strade sono quasi tutte asfaltate e per respirare c’è bisogno dell’ossigeno»1.
Franz e Léopold sono i protagonisti attorno ai quali l’appena diciannovenne Rainer Werner Fassbinder costruisce il teorema al centro di Tropfen auf heiße Steine (“Come gocce su pietre roventi”), pièce incompiuta, e quindi mai rappresentata, ripresa da François Ozon per realizzare il suo terzo lungometraggio, Gocce d’acqua su pietre roventi: «Era tanto tempo – dichiarò l’allora trentaduenne regista francese – che volevo fare un film su una coppia. Un film che parlasse delle difficoltà della convivenza e della routine quotidiana. Quando ho scoperto l’opera di Fassbinder, ho capito subito che non avrei dovuto scrivere una sceneggiatura originale perché esisteva già un testo che parlava esattamente di quello che mi sentivo di raccontare»2.
Un testo che si spalanca al gioco delle passioni, tra figure che sanno e vogliono soprattutto amare (Franz), e altre (Léopold) che puntano invece alla sopraffazione, metafora dell’avidità del potere che si ciba dei corpi altrui. Del resto per Fassbinder non può esistere “democrazia” nei sentimenti, ma solo un’applicazione più o meno drammatica del sadomasochismo; ai suoi occhi l’urgenza d’amore finisce per trasformarsi, ogni volta, nella sottomissione del più debole al desiderio dell’altro. E così sarà fino a quando continuerà a esserci «una classe che vuole educarne un’altra, un uomo la sua donna, un uomo un altro uomo: sempre questo rapporto di educazione, questo rapporto servo-padrone […]. Un rapporto che è quasi fascista»3.
Sebbene Léopold e Franz siano una coppia omosessuale (di cui Ozon accentua la differenza d’età), questo non rappresenta di certo il cuore del film, che invece batte per le crudeli dinamiche insite in ogni relazione sentimentale. E proprio sulla scelta di cosa tenere a fuoco del soggetto, Ozon dimostra di avere assimilato ed elaborato la lezione fassbinderiana, poco interessata a soffermarsi sulle “diversità” delle minoranze sociali, e più attenta invece ad osservare come queste «Cercano – stando a quanto dichiarato dallo stesso Fassbinder – in modo ancora più cosciente della borghesia, di comportarsi come borghesi», compromettendosi, nelle abitudini di tutti i giorni, in quella rete di ricatti sentimentali in cui qualsiasi persona potrebbe trovarsi e dimostrandosi quindi altrettanto dipendenti dal potere coercitivo dell’apparato sociale sovrastante.
E infatti, una volta che entra in scena Anna, l’ex fidanzata di Franz, il ragazzo tenta di farle subire quello che lui sta vivendo e soffrendo con Léopold; cerca di reinterpretare il loro rapporto secondo quelle immagini di dominio e possesso che si è ormai convinto regolino tutti i legami interpersonali.
Ma non ci si limiti a leggere in maniera sbrigativa e superficiale Franz come una vittima: la sua infatti è una strategia di sottomissione, adottata per ottenere quella semplicissima cosa che desidera, un poco di amore. E pur di conquistarla è pronto ad annullarsi, consapevole di condannarsi all’alienazione e alla sofferenza.
Proprio come Vera, un personaggio che, secondo Ozon, nella versione originale «non aveva alcuna utilità drammatica ed era una specie di soprammobile»4, mentre ora, nella sua rilettura cinematografica, diventa uno specchio deformato della condizione di Franz. Il regista plasma il suo carattere su quello del protagonista di Un anno con 13 lune (1978). La parabola che compie ricorda, infatti, quella di Erwin/Elvira. Vera entra in scena come un’amica di Léopold, il quale prontamente la sbugiarderà (godendosi la parte del carnefice), raccontando a Franz e Anna, senza troppi di giri di parole, che la donna di fronte a loro in realtà è un transessuale operatosi a Casablanca pur di continuare a farsi amare da lui. In Léopold non c’è vero desiderio, ma soltanto fame e voracità; ha bisogno di riflettersi nel desiderio dell’altro per potersi sentire vivo.
Ozon rilegge la pièce attraverso le forme predilette di rappresentazione del cinema fassbinderiano, adottando una costruzione che riprende e illustra il rigore teorico, geometrico, e l’intimo funzionamento dell’universo poetico del regista tedesco, così visceralmente compatto. Gocce d’acqua su pietre roventi è un Kammerspiel che chiude il mondo in un appartamento, tutto interni claustrofobici che imprigionano letteralmente i personaggi: questi sono vere e proprie proiezioni estensive del dramma domestico. La casa di Léopold non è altro che la diretta espressione delle regole di comportamento da osservare per viverci; un autentico collegio infernale, una gabbia, uno strumento di repressione di ogni spontaneità (e la chiusa del film, con la carrellata all’indietro che mostra Vera imprigionata dietro ai vetri che non si aprono dell’abitazione – riuscendo a creare nello stesso tempo una doppia sensazione di presa di distanza estatica e di prossimità emotiva – è in tal senso inequivocabile). Il riferimento più forte, per quanto riguarda il lavoro cinematografico compiuto sugli spazi, è probabilmente Martha (1974), da cui Ozon prendere a prestito situazioni e idee registiche, come quella della ripresa realizzata per filmare il primo faccia a faccia, carico di tensione erotica, tra Léopold e Franz. Esattamente come nella sequenza in cui Martha incontra il suo futuro marito-carceriere Günther, anche qui la macchina da presa compie un movimento di 720° intorno ai due personaggi: un doppio giro che sembra significare sia la girandola d’emozioni, la vertigine del momento, sia il nodo soffocante in cui si strozzerà il loro legame. Perché alla fine, come diceva Fassbinder «L’amore non esiste. Esiste solo la possibilità dell’amore».
Note
1 Fassbinder Rainer Werner, I film liberano la testa, Ubulibri, Milano 2005, p. 21.
2 Ozon François, Un’intervista a François Ozon in Gocce d’acqua su pietre roventi, Pressbook Keyfilms, 2001, p.5.
3 Fassbinder Rainer Werner in Gran Jacques, Entretien avec R.W. Fassbinder, in «Cinéma 74», 193, citato in Traina Giovanni, Ascesi all’inferno. Un anno con tredici lune di Fassbinder, «ARCO Journal», e-journal del Dipartimento di Arti e Comunicazioni dell’Università di Palermo, p. 3.
4 Ozon François, op. cit., p. 7.