Regista tra i generi, firma sfuggente all’etichetta d’autore. Fuori dalla linea Nouvelle Vague, fuori dall’esistenzialismo parisien, fuori dalla commedia bobo. Nei suoi film memorie di Rainer Werner Fassbinder e Alfred Hitchcock, di Alain Resnais, Ingmar Bergman ed Henri-Georges Clouzot. E poi William Wyler e Vincente Minnelli, Walt Disney, Luis Buñuel. E via elencando, tutti referenti di una filmografia che abita con piglio sfacciato, e nonchalance annoiata, il mondo della cinefilia. Come fosse un che di scontato, un omaggio a un parente, un amore dovuto. L’abito da indossare sempre, non solo il giorno di festa, e da rimirare non tanto per la foggia, per la trama del cinema ritessuto nel cinema, ma per quel che taglio e stoffa dicono dell’uomo. Il vestitino da donna sul giovincello di Une robe d’été (1996) è solo un facile esempio.
È un equilibrista, François Ozon, autore paradossale, capace di muoversi sospeso tra choc e frivolezza, scavo e superficie. Responsabile di un cinema obliquo, libero, fluido, queer. Letteralmente. Contemporaneo, perché sempre consapevole, post tutto. Eppure amante delle strutture narrative forti, incendiato dalla più classica delle urgenze: una storia, il piacere del racconto. Così, sull’ipotetica linea che unisce realismo e gioco di stilizzazione, Ozon il funambolo danza impudente e con grazia, mentre le sue immagini si accostano all’uno e all’altro polo, con intensità sempre differente.
Così se Il rifugio (2009) è un racconto rohmeriano, la realistica messa in scena di un lutto e di una nascita, una parabola morale concreta, militante e attuale, è anche, carsicamente, un luogo astratto di echi, di doppi, di rime interne esibite per esibire la mano di un demiurgo, per certificare l’artificio. E se, al contrario, 8 donne e un mistero (2002) ha le forme di un compiaciuto divertissement postmoderno, che ambisce al Technicolor di Douglas Sirk e sposa George Cukor e Jacques Demy, Agatha Christie e Christian Dior, è anche l’elegante palcoscenico su cui si disgrega violentemente la ronde delle menzogne, un gioco al massacro verso una possibile verità, verso il termine dello spettacolo, il fallimento dell’ipocrisia. Ma non si tratta di épater la bougeoisie, di decostruire il dispositivo cinema. È una questione di ricerca interiore. C’è sempre un momento, nei suoi film, in cui il protagonista, con lo spettatore, deve, dovrebbe abbandonare il côté fantasmatico, squarciare l’immaginario, guardarsi vis à vis. Non è un caso che il luogo comune ozoniano sia la spiaggia: di fronte all’uomo il mare, la vita riflessa, l’orizzonte da colmare di desideri. Ma ciò che interessa, all’autore, sono i corpi sulla sabbia. Oppure quegli uomini, seduti sulle panchine, a guardare le finestre affacciate sul parco, le storie possibili, le storie altrui, che sono le loro, perché narratori (Nella casa, 2011).
In una filmografia dove la figura del padre è assente o deteriore, il banco di prova non può che essere la responsabilità della realtà. Il confronto con se stessi.
Così, dal sangue mestruale di Action Vérité (1994), che inabissa nella sostanza sessuale un gioco erotico adolescenziale, alla fine del discorso amoroso di Cinqueperdue. Frammenti di vita amorosa (2004), il cinema di Ozon mette in scena la necessità, nei suoi personaggi, di un rilancio narrativo, di una prospettiva di fuga, di un’uscita, di un cambio di scena. O d’abito, o pelle, come sostiene Alessandro Baratti nel saggio che apre questo numero #2 di INLAND. Quaderni di cinema. «Ozon non ha nulla di anticonvenzionale, ma tutto di anticonservativo», scrive discutendo della scheda di un film. Ed è proprio questo il punto. È un cinema che muta e racconta mutanti, uomini e donne messi a verifica, persone che, a contatto con il trauma della morte o con quello della nascita, con un reale che sfracella il proprio principio di piacere a causa di un intruso, son chiamati a lasciare la propria prigione identitaria. Che è visibile nella forma, nell’artificio che regna nel cinema di Ozon: la sua estensione è il décor raffinato, il calco di genere, il secondo grado implicito, il gioco del cinema meta, la ridda di modelli culturali. Una nuova amica (2014), storia en travesti, film transgenere, ne è l’esempio compiuto. Nel senso che ogni momento è ipotesi di un rapporto e rilancio, pausa di un continuo movimento. Che rapporto lega, nel profondo, i due personaggi?
Nei suoi film Ozon ci lascia lontani, non cerca il cieco sopraffare del dramma: il suo cinema, anche quello realista, presenta sempre una natura fallace e artefatta, si apre al kitsch, al ridicolo, chiama al distacco. Tra i personaggi e il pubblico c’è una (giusta) distanza. Che permette di porre domande prima di avere risposte.
Questo numero #2 di INLAND è un primo tentativo, il primo volume dedicato in Italia al regista francese. Dato curioso (e indicativo), per uno che fa cinema da oltre 20 anni, e raramente non è stato distribuito. Ringraziamo tutti coloro che, con passione, si sono dedicati a questo progetto. In particolare la rivista Spietati.it, da sempre officina di pensiero su questo autore sfuggente.