Come i suoi connazionali Jean Cocteau con La bella e la bestia (1946) e Jacques Demy con La favolosa storia di pelle d’asino (1970), Francois Ozon utilizza la fiaba in Amanti criminali come lente per sondare le diverse forme della sessualità queer1. Tuttavia, se i primi hanno messo in scena la questione in maniera meno scoperta – attraverso la “perversione” come metafora del modo in cui la società francese guardava all’omosessualità (l’amore uomo-animale in Cocteau e l’incesto in Demy) – Ozon alla fine degli anni Novanta ritiene che i tempi siano maturi per rendere esplicito il discorso. Tra le sue mani infatti la fiaba ritorna a essere uno strumento ideale per disinnescare, attraverso le infinite possibilità del meraviglioso, la normatività in ambito sessuale. Dopo avere minato le gabbie ideologiche prendendo di mira la loro realizzazione istituzionale, vale a dire la famiglia borghese, in Sitcom. La famiglia è simpatica (1998), il regista scende ancora più in profondità, scandagliando l’animo di un individuo al suo stato di natura, ovvero nell’adolescenza, il momento in cui la contaminazione con le leggi della società borghese non è ancora irreversibile.
La storia prende avvio dall’omicidio di Saïd, studente liceale di origine magrebina, da parte della sua compagna Alice e del fidanzato di questa, Luc, e prosegue mostrando le conseguenze e la pianificazione dell’atto criminale, con una costruzione narrativa che fa del flashback la voce della coscienza fragile di Luc. I due ragazzi raggiungono un bosco per seppellire il corpo della vittima e, dopo essersi persi, trovano rifugio e viveri in una casa apparentemente abbandonata. Ma il proprietario, uomo-orco senza nome e dall’accento straniero, li scopre e decide di tenerli prigionieri. Alice viene rinchiusa in una botola, mentre Luc è sottoposto a umiliazioni fisiche e psicologiche, fino all’obbligo di avere rapporti sessuali che tuttavia lo appagano e finiscono per liberarlo dalle proprie inibizioni.
Alice e Luc persi nel bosco – l’ordine dei nomi non è casuale – sono dunque gli omologhi di Hänsel e Gretel in una versione della fiaba ambientata a pochi passi dalla Francia più benestante e perbenista. Nell’originale dei fratelli Grimm, Hänsel domina la prima parte della fiaba, grazie alla sua idea di lasciare segni per terra per ritrovare la via del ritorno; Gretel diviene invece protagonista della seconda, quando uccide la strega. In Amanti criminali, Alice è la mente del crimine iniziale, mentre Luc lo è della parte successiva, quando organizza la fuga dalla casa dell’orco. È evidente sin da questo rovesciamento di figure maschili e femminili come Ozon intenda ribaltare i generi sessuali dei personaggi per trasmettere allo spettatore un senso di instabilità: il gioco del riconoscimento, che tanto piacere può arrecare nelle opere costruite per un pubblico cinefilo, qui è costantemente stimolato e frustrato, precipitando nell’orrore più cieco qualsiasi appiglio filologico. Inoltre, se al centro della storia dei Grimm vi era l’abbandono genitoriale, sintetizzato dall’insufficienza di generi alimentari, qui a venire meno, ancora più che il cibo, è l’eros. Luc non è in grado di provare piacere con Alice, e la ragazza d’altra parte vive l’attrazione colpevole per Saïd come un risarcimento alla frustrazione sessuale che prova in coppia con Luc.
La scena della fuga con il bagno nella cascata e l’amplesso su una roccia conduce il film verso una nuova soglia di genere. Ripresi come esseri innocenti, circondati dalla flora e dalla fauna dei boschi, i due protagonisti fanno il verso agli eroi delle fiabe Disney, predestinati al congiungimento da una Natura che li ha resi simili e che li protegge. Eppure, è proprio quest’ultima condizione a essere disattesa: la volpe, il gufo e gli altri animali ripresi non sono elementi di contorno all’idillio, ma spettatori voyeur, che fruiscono dell’atto dei due giovani come di un prodotto pornografico.
Oltre a questo, l’opera seconda di Ozon rivela una forte aderenza con un substrato di pellicole che nello stesso periodo provano a definire una vague francese all’interno del cinema queer. Come osservato da Todd W. Reeser: «Tanti adolescenti gay del cinema francese di fine anni Novanta iniziano da un lato a mettere in discussione e dall’altro ad accogliere configurazioni di stabilità per la mascolinità omosessuale adulta. Questi film talvolta assumono in maniera così seria certe forme di domesticità da farle appare strettamente correlate al processo di coming-out»2. In effetti lo sbilanciamento sulla seconda parte della narrazione fa emergere il desiderio – proibito, e per questo orrorifico – di proporre una forma di omosessualità differente rispetto a quella mal digerita dal pensiero dominante, che possa essere vissuta in una dimensione domestica, casalinga, e dunque normale. Il processo di appropriazione di questa identità gay “addomesticata” non può che essere segnato dalla costrizione: Luc deve essere forzato a esprimere la sua vera natura, e per questo le umiliazioni alle quali lo sottopone l’orco possono essere lette come un percorso di addestramento a una nuova e diversa vita di coppia. La dinamica servo-padrone, rappresentata dal collare che Luc è costretto a portare, o dalla reclusione sotto il pavimento, non è che il primo approccio per spingere il ragazzo oltre i limiti della propria educazione e verso la quotidianità eversiva delle attività domestiche (la ricerca del cibo, il consumo dei pasti, l’igiene personale) e del piacere di coppia. Una volta raggiunto il climax con l’orco, Luc si libera anche metaforicamente delle catene che l’hanno tenuto prigioniero di un’eteroessualità fittizia, e può tornare alla luce e alla vita. Non senza aver impedito ad Alice di uccidere “la strega”.
Durante il cammino di consapevolezza di Luc, le figure legate a una sessualità più tradizionale devono essere allontanate. Sia il corpo di Alice, simbolo dell’eterossessualità forzata di Luc, che quello di Saïd, oggetto di un desiderio omoerotico onanista, vengono allora celati dall’orco tra le fondamenta della casa. Così, se il film si apriva sul primo piano di Luc bendato, impossibilitato a guardare la vera natura del proprio desiderio, lo sguardo finale in macchina sancisce il riscatto dal suo crimine: non essere stato in grado di vedersi.
Note
1 Cfr. Duggan Anne E., The Fairy-Tale Film in France. Postwar Reimaginings, in Zipes Jack, Greenhill Pauline, Magnus-Johnston Kendra (a cura di), Fairy-Tale Films Beyond Disney: International Perspectives, pp. 64-78.
2 Reeser Todd W., Representing Gay Male Domesticity in French Film of the Late 1990s, in Griffiths Robin (a cura di), Queer Cinema in Europe, Intellect Books/University of Chicago Press, Bristol e Chicago 2008, p. 37.