Poeti e no: metafisica di Dylan Dog
Sebastiano FuscoChe Dog in inglese significhi “cane” credo lo sappiano più o meno tutti. Non so però quanti siano al corrente del significato di Dylan. Varrà perciò la pena spendere qualche parola al riguardo. È un termine che si trova nella lingua e nella mitologia del Galles, regione dove si parlava (e si parla) un idioma celtico del sottogruppo insulare brittonico, indicante cioè le popolazioni autoctone, diverse dagli anglosassoni. Nel Dictionary of the Welsh Language(1) viene fatto derivare dal termine dylanw, formato dal prefisso dy-, che indica provenienza o appartenenza, e dal sostantivo llanw, che vuol dire “marea”. Quindi: “portato dalla marea” e, per estensione, “venuto dal mare”, “figlio del mare”. Interessante, dal punto di vista simbolico, l’associazione con il termine dog. Quest’ultima è una parola dall’origine incerta, che nell’inglese del tardo Medio Evo ha soppiantato l’anglosassone hound, proveniente dall’alto-tedesco antico hund. Secondo i filologi(2) deriva dal medio-tedesco tike (cfr. il norreno tik), che indicava non soltanto il cane ma anche il lupo, e quindi sarebbe una parola molto antica, risalente a prima dell’addomesticamento del nostro migliore amico, avvenuto (ma anche qui c’è disputa) fra i dodicimila e i settemila anni fa(3).
Uscendo per un istante dall’ambito filologico per entrare in quello dell’analisi allegorico-simbolica, che prevede collegamenti molto più elastici di quelli tollerati dalla linguistica diacronica, e tenendo conto che il mare è simbolo delle profondità abissali esteriori ed interiori, possiamo azzardare la traduzione, forse suggestiva ma crediamo corretta, di Dylan Dog con l’espressione “Lupo dell’Abisso”.
1. Mare monstrum
«Al soffio della tua ira si accumularono
le acque, si alzarono le onde come un
argine, si rappresero gli abissi.»
(Es, XV, 8-10)
Partiamo da qui per fare qualche ulteriore considerazione, cominciando dalla sovrapposizione simbolica Mare/Abisso e tenendo conto del famoso principio nomen omen. Il mare, scrive Juan Eduardo Cirlot(4), è un simbolo di transizione, ovvero dell’ascesa/discesa dalla terra al cielo, come nel passaggio dal solido al gassoso attraverso il liquido. Ce lo conferma l’autorità della Bibbia: «Disse Elohim: “Le acque sotto il cielo si raccolgano in un sol luogo, e appaia l’asciutto”. E così fu» (Gen, I, 9). Il mare si pone dunque fra le cose terrene e quelle celesti, ovvero, per citare la Tavola di Smeraldo, fra «ciò che è in basso» e «ciò che è in alto», e raccoglie le forze dinamiche che trasformano ciò che è greve e pesante, come il nostro corpo di carne, in quanto è immateriale e privo di pesantezza, come il nostro spirito. È grazie a quest’oceano, che ci accoglie, ma è contemporaneamente accolto «in un sol luogo» dentro di noi, che può avvenire la trascendenza, ovvero l’elevazione dall’umano sino alle soglie del divino: è l’obiettivo della Grande Opera.
Tuttavia la Bibbia, sempre nel libro della Genesi già citato, pochi versetti dopo aggiunge un fatto inquietante, rendendoci noto che «Elohim creò i grandi mostri nel mare» (Gen, I, 21). La parola che nella Bibbia del Vaticano è tradotta “mostri nel mare” in ebraico è hat-tannin, un termine che in realtà viene in genere reso come “draghi” o “serpi” (è il mostruoso “serpente di mare”). Nel testo ebraico lo si ritrova ventisette volte: soprattutto, ed è significativo, in bocca ai profeti Ezechiele, Isaia, Geremia, Michea, nonché nei Salmi. Isaia, in particolare, scrive che, alla fine dei tempi, il Signore, con la sua «spada grande e potente», colpirà «il serpente che s’attorce, e ucciderà il drago che è nel mare» (Isaia, XXVI, 1). L’allegoria è abbastanza palese: come nel giorno di Armageddon Dio sterminerà la serpe nascosta nel profondo della creazione, così l’uomo superiore, che aspira alla vita eterna, dovrà uccidere il mostro e la sua progenie che s’annidano nell’oceano di tenebre chiuso dentro di lui.
«L’acqua in tutte le sue forme, in quanto mare, lago, fiume, fonte e così via, è una delle tipizzazioni più ricorrenti dell’inconscio» ricorda Carl Gustav Jung in Mysterium coniunctionis. Con le creature mostruose che lo popolano è bene non scherzare perché, scrive ancora, «i contenuti dell’inconscio assoluto non sono solo residui di funzioni arcaiche specificamente umane, bensì anche residui di funzioni degli antenati animaleschi dell’uomo, la cui durata è stata infinitamente maggiore dell’epoca relativamente breve che riguarda l’esistenza specificamente umana. Questi residui, se attivi, sono quanto mai adatti non solo a bloccare il progresso dell’evoluzione, ma a portare ad una regressione, finché non è consumata la quantità di energia che l’inconscio assoluto ha attivato». In altre parole, guai a svegliare la bestia dell’abisso, perché si rivolterebbe contro di noi, se non siamo abbastanza forti da ricacciarla in fondo: e questo è vero non soltanto per gli individui, come ci racconta la cronaca, ma anche per i popoli, come la storia c’insegna (o meglio, c’insegnerebbe, se le dessimo retta).
È per questa considerazione di Jung che, al di là di ogni ragionevolezza e ogni conclamata adesione al più rigoroso materialismo, certe ombre che s’allungano dal nostro passato ancestrale ci provocano ancora, pur se cerchiamo di non ammetterlo, un senso d’inquietudine. Abbiamo paura del buio, noi, bestie deboli e disarmate, perché non sappiamo quali zanne e artigli possano esservi nascosti. Abbiamo paura dello straniero e dell’estraneo, perché non sappiamo cosa possa farci quella bestia sconosciuta. Abbiamo paura di un rumore improvviso, perché non sappiamo cosa possa seguirne: il boato del tuono è forse legato alla folgore? Abbiamo paura del morto, perché ci anticipa un destino di cui non sappiamo nulla. Abbiamo paura di noi stessi, perché dentro di noi è celato uno specchio che della nostra anima ci rivela molto di più di quanto una lastra di vetro possa svelarci del nostro corpo. L’ignoto, soprattutto, ci fa paura, perché non sappiamo cosa porta con sé. Era ben chiaro a Lovecraft, che lasciò sempre incerti e indefiniti l’aspetto e la natura dei suoi orrori, e per inquadrarli si affidò non alla storia, reale o fittizia che fosse, come nel romanzo gotico, ma elaborò appositamente un’intera mitologia: «Il più antico e intenso sentimento umano è la paura, e il genere di paura più antico e potente è il terrore dell’ignoto».
Sono paure che, in millenni di civiltà, si sono rivestite d’infiniti strati simbolici, collettivi e individuali, attraverso il mito, la fiaba e la narrativa fantastica. La ragione le esorcizza, la vita d’ogni giorno le sostituisce con timori molto più terreni ed efficaci, ma non possono essere soffocate, perché è grazie a quelle paure che siamo sopravvissuti come specie, sono state loro a far di noi ciò che siamo. Per questo, se vogliamo trascendere noi stessi, trasmutare la vile materia umana nell’oro dei filosofi, affacciarci al divino, non possiamo esimerci dall’affrontarle: calarci nell’abisso dentro di noi, nell’oceano interiore che Elohim, con sadica perfidia, ha chiuso nel nostro profondo e sfidare i suoi mostri, sapendo che quando li guarderemo in faccia lo specchio dell’anima ci rivelerà che hanno il nostro stesso volto. È un viaggio pericoloso, verso una meta che pochi raggiungono. Ma al nostro fianco abbiamo un amico fedele.
2. Superior stabat lupus
«I suoi giudici son lupi della notte,
che nulla serbano per la mattina.»
(Sof, III, 3)
Quando Odisseo, dopo dieci anni di viaggi attraverso un mare carico di simboli e mostri, tornò alla sua Itaca e fu trasfigurato dall’intervento divino di Athena, nessuno lo riconobbe. Non il figlio, non la moglie, non gli amici, né i servitori che aveva lasciato. Soltanto il suo vecchio cane Argo, gettato a morire su un mucchio di sterco, prima di chiudere gli occhi agitò la coda e gli leccò la mano. «Misteriosa» definisce Borges la fedeltà dei cani(5). È una fedeltà che va oltre la morte, perché il cane (ma prima di lui il lupo, quando ancora non era chiara la distinzione fra le due specie) è l’animale psicopompo per eccellenza.
In tutte le culture, la prima funzione mitica del cane è di fare da guida all’uomo nella notte della morte, dopo essere stato sua guida e compagno nel giorno della vita. Secondo quei mitologi che cercano nei fatti naturali l’interpretazione dei miti, ciò si deve al fatto che il lupo, ancora non distinto dal cane, è cacciatore notturno; vedendo nel buio, è simbolo di luce e può fare da guida a chi deve attraversare le tenebre. I cani che assistono i non vedenti lo fanno ancora oggi. Licio, cioè “lupesco”, era uno degli appellativi di Apollo, il dio del Sole e della luce. Le diverse divinità addette all’accompagnamento delle anime, a cominciare dal prototipo egizio Anubi (raffigurato con testa di sciacallo), sono costantemente accompagnate da lupi o cani: così Hecate, Hermes e la divinità celtica Lugh, che aveva al suo fianco un cane gigantesco e invincibile chiamato Fail Inis.
È antica leggenda, inoltre, che il cane (come il gatto) sia in grado di vedere le creature malefiche che vengono dal mondo invisibile – spiriti, fantasmi, larve, elementali, esseri fatati – e possa metterci in guardia contro di loro. Per questo, molti maghi d’un tempo avevano sempre dei cani al loro fianco. Quelli di Enrico Cornelio Agrippa vennero presi per dèmoni, e finirono fra i capi d’accusa contro il loro padrone; lo stesso accadde al dottor Faust. In molte incisioni che raffigurano operazioni evocatorie è presente un cane: questo perché uno degli “scherzi” frequenti delle entità evocate è di rimanere invisibili, inducendo così chi le ha richiamate a uscire dal cerchio magico protettivo. Ma non sfuggono alla sensibilità preternaturale del cane.
Quello del cane come guida delle anime è un mito pressoché universale. Tra gli aztechi il dio Xolotl, gemello di Quetzalcoatl, era raffigurato come un cane di grandi dimensioni, o un uomo dalla testa di cane, e accompagnava nel loro viaggio i morti che dovevano attraversare i “nove fiumi” dell’aldilà. Aveva anche l’ufficio di proteggere il Sole nel suo pericoloso transito notturno attraverso il “mondo di sotto”, popolato di mostri, come il cane da guardia vigila sulla sicurezza dell’uomo che dorme.
In quanto creature ctonie, cane e lupo sorvegliano gli ingressi agli Inferi. Il tricefalo Cerbero, che sosta all’entrata del terzo cerchio dantesco, «caninamente con tre gole latra». Figlio di Tifone ed Echidna, e dunque fratello dell’Idra di Lerna e di Ortro (che di teste ne aveva due), incuteva terrore in chiunque ne udisse gli spaventosi ululati («n’trona / l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde»). Ercole, il più forte degli eroi, fu l’unico che riuscì a mettergli il guinzaglio, ma poté farlo soltanto grazie all’aiuto di Hermes e Athena. Il lupo Garmr ulula incessantemente all’ingresso di Gnipahellir, l’inferno norreno, dove è legato alla catena: «Feroce latra Garmr / davanti a Gnipahellir // s’infrange la catena / ed il lupo s’avventa. // Molto so degli dèi / e molto so vedere // del destino che attende / i possenti in battaglia» (Volospa, XLIV). Alla fine dei tempi, lui e Tyr si affronteranno, uccidendosi a vicenda. Più feroce ancora era l’immane lupo Fenrir, che spezzava qualsiasi catena materiale gli venisse imposta. Allora i nani fecero il legaccio detto Gleipnir, intrecciando rumore di passi di gatto, barba di donna, radici di montagna, tendini d’orso, respiro di pesce, latte d’uccello, e con esso gli dèi lo imprigionarono (Tyr ci rimise una mano). Il giorno del Ragnarok, la fine del mondo, un altro lupo, Skoll, si libererà e, spalancando le fauci immense, divorerà il Sole (mentre al lupo Hati toccherà la Luna).
Ma cane e lupo non sono soltanto guardiani di mostri e larve. Infinite – e, ancora una volta, metaculturali – sono le leggende in cui si adattano a proteggere l’uomo quando è più indifeso, ovvero quando è ferito o è ancora un bambino. La Lupa Capitolina che allatta Romolo e Remo è l’icona di un prototipo diffuso in ogni parte del mondo: se ne trova una versione anche nella Mongolia Interna. Allo stesso modo, le storie di bambini allevati da branchi di lupi non sono note solo in India, da cui vennero raccolte e rese celebri da Rudyard Kipling col Libro della giungla, ma sono diffuse ovunque, in particolare in Europa.
I cani sono, inoltre, animali profetici. Artemidoro di Daldi, nel libro secondo dell’Oneirocritica (Interpretazione dei sogni), descrive il senso da attribuire alla loro apparizione nel sonno. Sognare cani da guardia, ci assicura, è buon segno: significa che i nostri cari e i nostri beni sono al sicuro. Per i Romani, vedere un lupo prima della battaglia è indizio di vittoria certa, perché è inviato da Marte ad annunciarla.
Nell’ambito della cultura celtica (l’atmosfera in cui si muovono gran parte delle vicende di Dylan Dog), il cane è poi considerato incarnazione del valore in combattimento, e paragonare un guerriero a un cane significava rendergli onore e riconoscerne il coraggio in senso vero e proprio. Il più grande eroe dell’Irlanda pre-cristiana, figlio del dio Lugh, era Cu Chulainn, il cui nome significa “mastino dell’Ulster”. L’alleanza fra l’uomo e il cane/lupo è forse la più solida che esista (per merito del cane, non dell’uomo), perché travalica i limiti del tempo e dei mondi, proiettandosi sull’Assoluto.
3. Ego canem, Lunam cano
«A questa vista caddi sulla mia faccia,
e udii la voce di uno che parlava.»
(Ez, I, 28)
Le varie associazioni simboliche che ho rapidamente tracciato possono chiarire perché mi sembri accettabile tradurre “Dylan Dog” con “Lupo dell’Abisso”. Il nome Dylan lo designa come venuto dal mare, che è contemporaneamente agente di mediazione fra il mondo della materia e quello celeste e immagine del nostro inconscio profondo, popolato di mostri: le nostre paure ancestrali, le angosce represse, le brame insoddisfatte e soprattutto un’immagine di noi stessi che ci rifiutiamo di accettare. Questi incubi hanno vita autonoma, ma traggono la loro forza soltanto da noi e dalla libertà che concediamo loro. Il cognome Dog lo rivela come pellegrino dell’Abisso, sondatore del buio, protettore dell’uomo, lupo guerriero e conoscitore dei terrori invisibili. Non solo ha la possibilità di immergersi nell’Abisso e affrontarne i mostri ma, come più volte comprenderà con orrore, è egli stesso soglia verso il modo degli incubi, che da lui sono attratti e attraverso di lui si manifestano: le fauci del lupo sono una delle rappresentazioni simboliche più diffuse del varco che conduce al mondo delle tenebre.
Non ho la più pallida idea di quanto Tiziano Sclavi (che non ho mai incontrato) possa riconoscersi in tutto questo, ma da quanto ne ho letto mi sembra abbia sensibilità sufficiente per riconoscere che gli autori sono gli ultimi a comprendere il significato dei loro scritti; peggio di loro sono soltanto i critici letterari. Mi hanno fatto avere una sua intervista, in cui ho colto un particolare significativo. Il nome Dylan Dog, spiega, non è stato inventato appositamente per il suo investigatore del soprannaturale, ma era una specie di “nome di lavoro” che usava per tutti i suoi personaggi in fase di elaborazione. Insomma, per lui indica una sorta di meta-personaggio, la somma di tutti i protagonisti nati dalla sua immaginazione. Precisamente quello che Joseph Campbell, uno dei più grandi mitografi del secolo scorso, ha definito «l’eroe dai mille volti», in un bel libro dallo stesso titolo in cui tratteggia la figura dell’eroe mitico, che per sua natura è la summa di tutti gli eroi (se non l’avete letto, provvedete, è uno dei pochi libri che arricchiscono chi li legge).
Questo tipo di sensibilità verso il mito (che sia ammessa o meno), questa apertura verso il mondo dell’incubo, questa capacità di dare forma e apparenza a ciò che si agita nel profondo di noi stessi fanno di Sclavi, mi sembra, qualcosa di più di un autore di buona letteratura fantastica o dell’inquietudine. Precisamente, lo qualificano come poeta, nel senso che nell’antichità si dava ai vates: persone che ascoltano le “voci di dentro” e le traducono in un loro linguaggio particolare. Un poeta dalla vena un po’ macabra e inquietante, forse, ma non per questo meno carica di suggestione e, soprattutto, di alti significati (non mi si dica che il fumetto non può essere veicolo di poesia e di alti significati, perché mi arrabbio). È la prima cosa che mi ha colpito di «Dylan Dog» quando ne ho comprato in edicola il numero uno. Ce l’ho ancora. Ed è un giudizio che sono stato lieto di confermare leggendo i numeri successivi.
Oggi, ovviamente, «Dylan Dog» non lo leggo più, perché mi fa malinconia vedere come l’hanno ridotto. E mi dicono che non sono il solo. Con questo, non voglio affermare che i nuovi soggettisti e sceneggiatori non siano bravi. Lo sono di sicuro, ma il problema è un altro. Non si può sostituire un poeta, che ascolta la musica del mito, con chi rimane appiattito sulle cronache e le ideologie del proprio tempo. Il mito è eterno, la cronaca dura lo spazio di un telegiornale. Pretendere che, quanto a presa sul pubblico, e quindi come vendite, si ottenga lo stesso risultato, mi sembra (mio modestissimo parere) un’operazione poco furba, a meno che non abbia un fine ideologico che prescinde dal vil denaro. Non credo che l’Odissea farebbe lo stesso effetto se a scriverla fosse stato anche il più bravo dei pamphlettisti che si preoccupava di denunciare le condizioni dei migranti in fuga dalla guerra di Troia.
Peraltro, capisco anche i disagi dell’editore. Avere a che fare con i poeti, specie quando si tratta di sostituirli, è faccenda scomoda. Sono persone scorbutiche e cocciute, che si ostinano nella pretesa assurda di ascoltare sempre e soltanto la loro Musa e non dare retta ad alcun altro. Non gliene frega niente né del Mein Kampf né del Manifesto del partito comunista, non si turbano per gli editoriali de «l’Espresso», né considerano la “piattaforma Rousseau” come una Sibilla. Il “politicamente corretto” è per loro, semmai, un modo di vivere la loro vita, non la loro arte. Insomma, sono riottosi e non c’è modo di farli ragionare. Lo aveva capito anche Platone, che li escluse dalla sua Repubblica.
Note
1. Geiriadur Prifysgol Cymru, University of Wales Press, II ed., Cardiff 2004. Dal 2014 ne è disponibile anche una versione online.
2. Anatoly Liberman, An Analytic Dictionary of English Etymology, University of Minnesota Press, Minneapolis 2008.
3. James Mallory, Douglas Adams (a cura di), Encyclopedia of Indo-European Culture, Fitzroy Derborn Publishers, Chicago 1997.
4. Juan-Eduardo Cirlot, Diccionario de simbolos tradicionales, Luis Miracle, Barcellona 1958.
5. «Conocí la vigilia, el sueño, los sueños, / la ignorancia, la carne, / los torpes laberintos de la razón, / la amistad de los hombres, / la misteriosa devoción de los perros» (Jorge Luis Borges, Juan, I, 14; a parlare è il Cristo).