Un cronista del mistero al «Corriere della Sera»
Andrea ScarabelliCosì come vi sono enciclopedie che raccolgono e catalogano fatti noti, ve ne sono altre che non vezzeggiano i successi della nostra misera razza umana ma sono dedicate a misteri insondabili, innanzi a cui la scienza tace. Ne ho in mente diverse, dal Libro dell’inspiegabile di Jacques Bergier(1) ai vari studi di Charles Fort, The Book of the Damned (1919), Lo! (1923), New Lands (1931) e Wild Talents (1923)(2), dalla longeva rivista «Luce e Ombra» ai reportage realizzati da Abraham Merritt sulle colonne dell’«American Weekly», di cui era direttore dal 1937, fino agli studi di Colin Wilson. E non sono che esempi. Anche «Antarès» ha ospitato vari resoconti di accadimenti curiosi. Mi piace ricordare Il mistero di Mircea Eliade, in cui un professore annota sul proprio taccuino un fatto bizzarro, che sfugge alla logica quotidiana, chiudendo la narrazione con queste parole: «Qui scrivo solo ciò che non sono in grado di spiegare. In altri quaderni raccolgo i fatti le cui cause sono riuscito a scoprire; e quegli appunti non hanno per me alcun tipo di valore, li uso solo per i contributi che mando al Bollettino… Ma questo non lo sa nessuno e io faccio tutto il possibile affinché nessuno venga a saperlo, mai»(3). Il narratore divide mentalmente le sue scoperte in due categorie: quelle che cadono nel rapporto causa-effetto e le altre. Le prime finiscono sulle colonne delle riviste scientifiche, le ultime in un suo quaderno segreto, destinate all’appagamento della sua immaginazione.
1. Italia magica
Nell’estate del 1965 Dino Buzzati tenne una serie d’inchieste sulle colonne del «Corriere della Sera», cui collaborava da quando era studente. Il progetto era intitolato In cerca dell’Italia misteriosa e si sviluppò in una decina d’interventi, alcuni dei quali riciclati nelle Cronache terrestri (1972) e in seguito ne I misteri d’Italia (1978), assieme ad altri scritti affini. Scopo delle inchieste era documentare gli enigmi “regionali”, le sopravvivenze folkloristiche nell’Italia degli anni Sessanta, «qualcuno dei misteri grandi o piccoli che esistono anche da noi, tanti e tanti in un Paese antico e profondo come l’Italia»(4). Un Paese che allora si apriva alla modernizzazione selvaggia, «indifferente se non rabbiosamente nemica dei valori spirituali»(5). In controtendenza a questa realtà a una dimensione, Buzzati, realista magico impegnato a rinvenire elementi fantastici nel cuore della materia e non in mondi dietro al mondo, si mise alla ricerca delle tracce di un’altra modernità.
Per trovare il mistero nel Belpaese, d’altronde, è sufficiente avventurarsi al di fuori delle città, metropoli in cui il senso comune ha massacrato le tradizioni locali per sostituirvi un cosmopolitismo pragmatico e straccione: è quel che ha fatto Buzzati, i cui servizi intercettano fenomeni bizzarri e inspiegabili, che vanno da medium a episodi di reincarnazione, veggenti e spiritisti, cartomanti e scienziati che giocano con le leggi spazio-temporali. Le sue inchieste tracciano una geografia alternativa, che cartografa donne dal potere di compiere “radiografie psichiche” a distanza, uomini che si trasformano in animali in certi momenti dell’anno oppure secondo certe fasi lunari. E, ancora, scienziati artefici di un sistema che permette di calcolare la nascita di maschi o femmine in base alla data del concepimento o marmocchi trasformati in orrendi feticci mediante strane pratiche che ricordano il voodoo. Senza escludere, ovviamente, i misteri a sfondo cattolico, dalle apparizioni di santi e madonne agli esorcismi.
Di fronte a questi fenomeni, il nostro cronista dell’insolito è scettico e curioso allo stesso tempo, e si mantiene ben distante tanto dal fanatismo credulone quanto dalla più impettita diffidenza. Misurato nei giudizi e ironico, è soprattutto curioso di sapere cosa scoprirà nel prossimo viaggio in direzione dell’ignoto, senza perdersi nei gangli orditi da medium e spiritisti né guardare professoralmente dall’alto in basso maghi e streghe. Un atteggiamento assai laico, insomma – il solo, forse che abbia senso quando si deve indagare un mondo come quello del paranormale.
Quella che Buzzati porta al 28 di via Solferino è insomma un’Italia misteriosa e magica, in via di liquidazione in quella industrializzata degli anni Cinquanta e Sessanta. Un’Italia immortalata nell’articolo dedicato a una singolare signora di nome Melinda, l’ultima strega abruzzese. Settima figlia nata al settimo mese – sette e sette, numero della malasorte – il suo destino è segnato per sempre. Condannata a essere strega, lo sarà per tutta la vita. «La gente la odiava e la temeva; in fondo erano loro che l’avevano voluta così.»(6) La sua nomea è tale che Melinda finisce per accollarsela, un po’ per sfottò, un po’ perché, come il protagonista della pirandelliana Patente, non riesce a immaginarsi una professione diversa: d’altronde ha due figli, che hanno fame. È l’amico giuliese di Buzzati Franco Manocchia, giornalista e futuro direttore delle pagine culturali del «Corsera», a raccontare il triste epilogo: «Povera Melinda. È morta tre estati fa. Forse è stata l’ultima vera strega d’Abruzzi. […] Le altre ancora vive, dai loro paeselli sono scese nelle città, si sono industrializzate, hanno aperto gabinetti di consultazione, mettono inserzioni sui giornali, piccole maghe imborghesite. È un mondo scomparso per sempre. E delle streghe defunte, come in questo paese, nessuno parla volentieri»(7). È quell’universo raccontato dall’antropologo Ernesto de Martino(8), che la modernizzazione galoppante si è incaricata di liquidare, all’insegna del disincanto del mondo.
A chiudere la narrazione è però la strega stessa, che risorge nella narrazione cronachistica per dire l’ultima parola. Secondo le leggende locali, quando una strega muore la sua anima è destinata all’inferno, a patto che qualcuno, sul letto di morte, non apra un foro nel tetto della sua casa, per consentire alla sua anima di volare in cielo: «Ero in un letto senza più forze, che non mi potevo neanche muovere, però con gli occhi ancora aperti, e sentivo fuori il diavolo che camminava su e giù aspettando e batteva lo zoccolo impaziente perché ero così lenta a morire, quando sono arrivate due con una scala di legno, hanno rotto le tegole, hanno fatto un buco nel tetto, e la mia vecchia anima se ne è volata su come una farfalletta. Così adesso, io, dormo in pace. Grazie»(9).
Tutte superstizioni popolari? Fino a un certo punto: l’inchiesta In cerca dell’Italia misteriosa è dedicata tanto alle forme folkloristiche quanto all’interesse per medium e spiritisti diffuso negli ambienti cosiddetti “alti”. Memorabile, ad esempio, la descrizione di una serata in quel di Treviso, cui fu invitato un mago della città. Alla festa erano state invitate diverse personalità, tra cui Gae Aulenti e Silvio Ceccato, che avevano assistito attonite ai prodigi orditi dal mago. Anche la cosiddetta “cultura ufficiale”, insomma, non era immune al fascino del paranormale.
Valga come altro esempio il professor Vittorio Beonio Brocchieri, storico, filosofo, giornalista e autore di Camminare sul fuoco e altre magie, uscito per Longanesi nel 1973, tutto dedicato al mondo dei misteri. In un articolo Buzzati riporta uno straordinario colloquio avuto con lui su «un Paese che sta al confine estremo del mondo conosciuto, un Paese bizzarro ed evanescente, di cui non ci sono carte geografiche e che certuni addirittura pretendono non esista neppure. Non tiene guardie ai confini, per entrarci non occorre il passaporto, per arrivarci non occorrono né treni né auto né aerei»(10). Sembra di sentire, per i toni e i contenuti, l’indimenticabile sigla di Twilight Zone, alias Ai confini della realtà, recitata da Rod Serling. Ma di quale Paese si tratta? Buzzati tira a indovinare: è il Paese degli spiriti. E prosegue, compilando mentalmente un più che esaustivo inventario di creature e fenomeni dell’Immaginario: «Alludevo a quel vasto dominio la cui caratteristica dominante è il mistero, dove trovano posto gli spiriti propriamente detti, i fantasmi, i medium, la metapsichica, la telepatia, le premonizioni, le profezie, le guarigioni prodigiose, gli occulti poteri taumaturgici, la radioestesia, gli sdoppiamenti, la reincarnazione, i maghi, le streghe, gli esorcisti, gli ipnotizzatori, gli indovini, i chiromanti, gli zombies, i vampiri, i lemuri, i lupi mannari, i diavoli e tutta la schiera di creature leggendarie che si dice popolino il mondo e il cuore dell’uomo»(11). Un’autentica rassegna del fantastico degna di un Borges o di un Meyrink. Ma l’accademico – il quale credeva nella premonizione ed era convinto che l’anno della sua morte sarebbe stato il 1976 (in realtà, mancò il vaticino di soli tre anni) – non era l’unico a credere in queste cose.
2. Federico Fellini, Dino Buzzati & Gustavo Rol
C’è da dire che Federico Fellini conosceva Buzzati, di cui ammirava la produzione letteraria, anche prima di incontrarlo fisicamente, nel 1962, alla redazione del «Corriere». In quell’occasione i due non si parlarono, ma quando finalmente ne ebbero l’occasione l’intesa fu immediata. Era l’estate del 1965: Fellini stava realizzando il suo primo lungometraggio a colori, Giulietta degli spiriti.
Uno dei reportage di Buzzati, datato «Roma, agosto 1965», è dedicato al regista, di cui sono noti gli interessi nell’ambito del sovrannaturale. Frequentatore in incognito del filosofo romano Julius Evola (abitudine che condivideva con Cesare Zavattini), Fellini, scrive Buzzati, «è attualmente in Italia la persona più carica di misteri»(12). Per girare Giulietta degli spiriti aveva compiuto un lungo pellegrinaggio in lungo e in largo alla ricerca di «maghi, indovini, streghe, invasati, medium, astrologi, operatori metapsichici, depositari di occulte potestà»(13). Questi personaggi, di fatto, non compaiono nel film: Fellini andò a trovarli solamente per produrre un’atmosfera funzionale, affinché costoro risvegliassero in lui una carica magica già latente in forma embrionale. Ne derivò un senso d’inquietudine generale, d’irrisolta attesa, un greve trepidare privo di oggetto – e, probabilmente, di soluzione.
Nella maggior parte dei casi, ovviamente, Fellini si imbatté in imposture, trucchetti elementari per impressionare gli sciocchi. In altri, tuttavia, è come se le forme evocate dagli spiritisti si fossero impadronite di loro, costringendoli a una vita eterodiretta e sonnambulica. Questi sedicenti medium sarebbero stati travolti dalle entità evocate – un esito, d’altronde, già ampiamente previsto da molta letteratura tradizionalista(14).
In un’intervista rilasciata a Rolly Marchi, il regista completa quanto scritto da Buzzati, aggiungendo curiose puntualizzazioni sul loro rapporto: «Fui felice di incontrarlo perché ero ammirato dalla sua fedeltà a un mondo che poi fu definito “il mondo di Buzzati”». Passare del tempo con lui «era come trovarsi entrambi su un palcoscenico con un pubblico invisibile»(15). Alla domanda se i due avessero mai parlato di magia, ecco la risposta del regista: «Naturalmente, perché avvertivo l’interesse che si prova per delle persone che hanno delle congenialità… la fascinazione per l’anomalo, il prodigioso, l’arcano, il mistero»(16). In quel periodo Buzzati stava svolgendo i reportage per il «Corriere» di cui stiamo parlando, e Fellini lo inondò di suggestioni, facendogli tutta una serie di nomi che poi l’autore del Deserto dei Tartari andò effettivamente a cercare – uno su tutti, Pasqualina Pezzolla, la donna capace di effettuare radiografie psichiche a distanza cui abbiamo già accennato.
In conclusione dell’articolo, Buzzati chiede a Fellini qualche informazione sull’esito di queste ricerche, se sia stato semplice o no inserirne le atmosfere all’interno di Giulietta degli spiriti. La risposta è felliniana al cento per cento: «Mi sono trovato di fronte a una quantità d’imprevedibili e strane opposizioni, quasi che una forza oscura mi volesse scoraggiare. Cose vaghe, però, forse soltanto mie assurde sensazioni… E poi, a motivo di questo film, alcune amicizie si sono guastate»(17).
Fu sempre Fellini a parlare a Buzzati del discusso sensitivo Gustavo Rol(18). Lo fece in questi toni, riportati nell’articolo dedicato al regista: «È un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha fatto l’università, dipinge, si è dedicato per anni all’antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo»(19). Descrivendolo, Fellini sembra mettere da parte lo scetticismo adottato nei confronti dei vari spiritisti nel corso delle sue ricognizioni per il film, che uscirà di lì a breve: «Quello che Rol sa fare è pauroso. Chi assiste prova la sensazione di un uomo che sprofonda in un abisso marino senza scafandro. È la testimonianza fascinosa e provocatoria di una trascendenza. Se non si resta terrorizzati è soltanto per il suo modo gioviale e scherzoso un po’ da Fra Ginepro, per l’atmosfera salutare che si sprigiona da lui. Del resto egli stesso, prima degli esperimenti, cerca, con opportuni avvertimenti, di creare un limite alla meraviglia, altrimenti si potrebbe rimanerne schiantati»(20). Dov’è finita quella pacata cautela adottata altrove?
Fellini continua, raccontando a Buzzati qualche esperimento di Rol cui ha assistito lui stesso – in sostanza, l’apparizione e sparizione di alcuni oggetti – lanciandosi in ipotetiche interpretazioni: «Rol deve compiere una serie di operazioni mentali in cui crea un certo ordine che si traduce in realtà fisica. Chissà, si direbbe conosca la famosa legge di Einstein per cui la materia può trasformarsi in energia e viceversa; solo che lui la realizza sul piano mentale»(21). Gli altri esperimenti seguono la stessa legge, anche se in questo caso non sono più gli oggetti a scomparire ma lui stesso, il quale si sposta nello spazio e nel tempo, spesso mutando dimensioni e proporzioni, trasformandosi in un nano o in un gigante.
Tutte esperienze meravigliose, ad eccezione di una. Il sensitivo estrae un mazzo di carte, intimando a Fellini di sceglierne una. Cosa che lui fa: è il sei di fiori. «Prendila in mano, mi dice, tienila stretta sul tuo petto e non guardarla; ora, in che carta vuoi che la trasformi?». Viene scelto il dieci di cuori. Mentre Rol comincia a fissare quella carta con intensità crescente, Fellini è dubbioso: «Perché mai non devo guardare? Che me lo abbia detto apposta per indurmi a trasgredire?». Non resiste alla curiosità e, come Orfeo, sbircia. E quel che vede lo terrorizza: «Una cosa orrenda che le parole non possono dire… la materia che si disgregava, una poltiglia grigiastra e acquosa che si decomponeva palpitando, un amalgama ributtante in cui i segni neri dei fiori si disfacevano e venivano delle venature rosse… A questo punto ho sentito una mano che mi prendeva lo stomaco e me lo rovesciava come un guanto. Una inesprimibile nausea… E poi mi sono trovato nella mano il dieci di cuori»(22). Come risultato, per aver disobbedito, i due giorni seguenti Fellini non riuscì a mangiare né a dormire.
Successivamente, i due vanno a trovare il sensitivo insieme. L’esperienza sarà raccontata nell’articolo Un pittore morto da 70 anni ha dipinto un paesaggio a Torino, uscito sul quotidiano milanese nell’agosto del 1965. Prima di incontrarlo personalmente, oltre a quanto raccontatogli da Fellini, Buzzati ha letto di lui sulla rivista «Planète», diretta da Louis Pauwels e Jacques Bergier, di cui è assiduo lettore (tutte casualità, ovviamente, nient’altro che sciocche casualità…), e si aspetta una persona arcigna e severa, rinchiusa nei suoi segreti fantastici e aliena alle cose del mondo. Ma di quest’uomo non c’è traccia. Rol ha sessantadue anni ma ne dimostra dieci in meno, è una personalità vitale e gioiosa: c’è in lui «qualcosa di benefico che si irraggia sugli altri. È questa la caratteristica immancabile, almeno secondo la mia esperienza, dei rari uomini arrivati, col superamento di se stessi, a un alto livello spirituale, e di conseguenza alla autentica bontà»(23).
Il pittore morto da settant’anni evocato nel titolo del pezzo è François-Auguste Ravier. Rol gli permetterà di dipingere un’ultima volta. Quando si appresta a compiere l’esperimento – che andrà a buon fine – specifica che a dipingere il quadro non sarà lo spirito di Ravier richiamato dall’aldilà, ma quella parte della sua anima che non ha mai abbandonato il mondo dei mortali. In sostanza, che accade? In presenza di cinque persone, tutte in qualche modo dotate di una “percezione sottile”, Rol si infila tra le dita sei o sette pennelli, intimando a Buzzati di spegnere la luce, e si china sulla tela adagiata a terra (che i presenti hanno firmato sul retro prima dell’esperimento). La luce rimane spenta per uno o due minuti. Al successivo ordine viene riaccesa, e i presenti vedono Rol riverso a terra. Sulla tela assistono al prodigio: macchie di colore cangianti generano forme che si materializzano sotto i loro occhi, disponendosi in paesaggi, profondità e prospettive! Rol commenta: «Sta lavorando ancora, ci sta lavorando…». Dopodiché la tela viene girata: le firme sono sempre lì.
Una sola cosa non ci racconta Buzzati nel suo reportage: che fine fece il quadro? Semplice: se lo prese Fellini, a cui Rol acconsentì di tenerlo per qualche tempo. Lo portò a Roma, per mostrarlo a una serie di suoi amici pittori – tra cui Renato Guttuso – a cui chiese in quanto tempo avrebbe potuto esser stato realizzato. Tutti parlarono di giorni interi, addirittura settimane. Il regista tenette la verità per sé, fino al gran finale, raccontato nella già citata intervista: «Lo tenni a Fregene, ma dopo otto mesi il quadro una mattina non c’era più. Lo dissi a Rol, e lui mi rispose: Te l’avevo detto che te lo potevo dare solo per un po’»(24).
3. Una parentesi sugli extraterrestri
Quando l’intervistatore chiese a Federico Fellini cosa Buzzati pensasse del fenomeno cui entrambi avevano assistito a casa Rol, il suo interlocutore rispose: «Credo di ricordare un attento stupore ma anche la serietà estrema di chi sa che questi fatti sono normali, naturalmente in una certa dimensione»(25). Che significa: non è detto che, per la semplice circostanza di non essere accaduto sul piano materiale, un fenomeno non esista. Vediamo di che si tratta, prendendo in esame due saggi mai pubblicati sul «Corriere» ma inseriti ne I Misteri d’Italia. Entrambi dedicati al controverso mistero degli Ufo, che affascinò gli studiosi, fece inarcare le sopracciglia agli “addetti ai lavori” e stregò la gente comune, sono intitolati rispettivamente Si chiama disco volante il diavolo dei nostri giorni e Dobbiamo rassegnarci: i dischi non esistono.
Non è un caso che nell’enigma dei dischi volanti Buzzati veda – citando il Carl Gustav Jung di Un mito moderno, uscito pochi anni prima(26) – una proiezione dell’inconscio, l’idea di una salvezza giunta da fuori per salvare l’umanità da se stessa. Ora, al di là della sua veridicità, il fenomeno è singolare perché rivela la presenza, al di sotto della superficie razionalista, «di uno strano mondo sotterraneo di fanatismi, di speranze, di illusioni, di pseudoscienza, perfino di magia»(27). In piena modernità, scrive Buzzati, nel cuore di un mondo in cui a fare scuola sono il razionalismo e il materialismo, «tornano alla mente le streghe degli antichi tempi, ecco il modernissimo mito prospettarsi con gli inquietanti fascini di una cosa proibita»(28). È la voluttà dell’ignoto, la sorpresa che ci coglie quando le nostre certezze apodittiche vacillano e qualcosa di esterno entra nel nostro mondo abituale, scompaginandolo.
Una vertigine che il realismo a tutti i costi ha finito per spegnere. La scienza ha dimostrato che i presunti oggetti volanti non identificati hanno cause naturali, naturalissime. Il razionalismo ha trionfato di nuovo, derubricando quelle fantasie ad allucinazioni collettive. Ha vinto lo spirito di gravità, che spegne gli entusiasmi, che ci ancora a terra, condannandoci a un’esistenza orizzontale, normalizzata e addomesticata – in una parola, miserabile. Han vinto i materialisti, cui il furibondo e innamorato Cyrano cantato da Guccini intimava: «Le verità cercate per terra da maiali / tenetevi le ghiande lasciatemi le ali». Ha vinto la modernità, una modernità che non ammette miti diversi da quelli che fagocita e trasforma in ideologia, siano le aberrazioni di comunismo e nazionalsocialismo, siano i vangeli egualitari e democratici.
Ma per Buzzati non cambia niente. Ed è singolare che lo stesso scetticismo ironico adottato nei confronti di veggenti ed esorcisti sia ora rivolto contro la scienza “ufficiale” e il suo spretato sacerdozio. Il nostro realista magico vuota il sacco: «Anch’io confesso che, nei primi anni di questa diceria, avevo tanto sperato che i dischi volanti fossero stati veri. Sarebbe stato così bello. Si sarebbe aperta una porta meravigliosa»(29). Una porta accostata sui misteri del cosmo da cui è filtrata la luce del Grande Esterno. Ma il ghigno e l’arroganza dei partigiani della terra, degli uomini di Porlock dello spirito, han subito provveduto a richiuderla ermeticamente, lasciando l’umanità sola nel piccolo pianeta che le è toccato in sorte: «Che rabbia mi facevano i gretti ragionamenti dei negatori benpensanti. Quanta idiota presunzione sembrava nascondersi in quel beffardo scetticismo. Come se fosse assurdo immaginare che nell’universo possano esistere delle creature più sapienti e progredite di noi»(30).
Ci troviamo di fronte a un Buzzati ingenuo e sprovveduto? Per niente, e infatti poco dopo il nostro si lancia in una rapida rassegna dei presunti “testimoni” di questi fenomeni, perlopiù creduloni o mistificatori. «In questi strani tipi, la fede nell’esistenza dei dischi volanti ha sostituito in un certo modo l’antica religione»(31): qualcuno afferma incondizionatamente di averli visti, qualcun altro, addirittura, di aver comunicato con loro.
Ma non diversamente vanno le cose per quegli scienziati che hanno sostituito gli dèi antichi con quelli del progresso e della scienza, nuove teologie politiche di una modernità atea e allo stesso tempo superstiziosa, laica e mitografica. Sacerdoti della materia e boia dell’immaginario, saranno questi signori a ereditare la Terra. Buon pro gli faccia, come si suol dire. Vi sono parecchie altre risorse, inaccessibili alla barbarie. Ci piace pensare che, in questi reportage e in genere nella sua opera, il nostro “cronista del mistero” abbia attinto proprio a quelle fonti, dispensandole poi ai suoi lettori, mettendole in salvo da chi, avendo ormai perso l’ambizione alle stelle, si pasce di grufolare nel fango.
Note
- Ed. it.: Edizioni Mediterranee, Roma 1977.
- Di tutti questi libri, malauguratamente, in italiano è disponibile solo Il libro dei dannati (ultima ed. it.: Armenia, Milano 2001).
- Mircea Eliade, Il mistero, tr. di Horia Corneliu Cicortaş, in «Antarès», n. 7/2014, p. 66.
- Dino Buzzati, Batticuore a mezzanotte: c’è un fantasma nel granaio, in I misteri d’Italia, Mondadori, Milano 1978, p. 9.
- Dino Buzzati, La caramella stregata vola per quattro chilometri, in ivi, p. 29.
- Dino Buzzati, Melinda, strega per forza, in ivi, p. 110.
- Ivi, p. 112.
- Cfr. Ernesto de Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 2013.
- Dino Buzzati, Melinda, strega per forza, cit., p. 113.
- Dino Buzzati, Il veggente prende un granchio sulla data della propria morte, in ivi, p. 168.
- Ivi, pp. 168-169.
- Dino Buzzati, Fellini per il suo nuovo film ha fatto incontri paurosi, in ivi, p. 39. Sul rapporto tra lo scrittore e il regista si veda anche l’articolo di Piervittorio Formichetti pubblicato su questo fascicolo di «Antarès».
- Ibidem.
- Sulla critica tradizionalista dello spiritualismo, chiedendo venia per l’autocitazione, rimandiamo al nostro Le maschere della Medusa, in «Il Cervo Bianco», a. II, n. 1, 2015.
- Rolly Marchi, Buzzati e la magia: dialogo con Fellini, in Dino Buzzati. Vita & Colori, Overseas, Milano 1986, p. 14.
- Ibidem.
- Dino Buzzati, Fellini per il suo nuovo film ha fatto incontri paurosi, cit., p. 47.
- Su di lui cfr. Remo Lugli, Gustavo Rol. Una vita di prodigi, Edizioni Mediterranee, Roma 2008.
- Dino Buzzati, Fellini per il suo nuovo film ha fatto incontri paurosi, cit., pp. 43-44.
- Ivi, p. 44.
- Ivi, p. 45.
- Ivi, pp. 46-47.
- Dino Buzzati, Un pittore morto da 70 anni ha dipinto un paesaggio a Torino, in I misteri d’Italia, cit., p. 52.
- Rolly Marchi, op. cit., p. 14.
- Ibidem.
- Ultima ed. it.: Carl Gustav Jung, Un mito moderno. Le cose che si vedono in cielo, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
- Dino Buzzati, Si chiama disco volante il diavolo dei nostri giorni, in I misteri d’Italia, cit., p. 189.
- Ivi, pp. 190-191.
- Dino Buzzati, Dobbiamo rassegnarci: i dischi non esistono, in ivi, p. 196.
- Ibidem.
- Ivi, p. 197.