Un thriller di nome Argento. Buchi neri nella linearità del giallo
Giancarlo GrossiniCi sono persone che non si dimenticano, e in tanti anni di interviste e incontri mi è capitato di godere di una cena molto riservata. Eravamo in tre. Ospite sommo lui, il Maestro della suspense: Dario Argento, chiamato a dirigere la sua prima regia lirica, il Macbeth.
Quando Claudio Bartolini mi ha domandato se potessi contribuire a questo numero di «INLAND», è stato inevitabile fare i conti con l’irresistibile voglia di tornare a ricordarmi di quell’incontro e di avere, al contempo, una plausibile giustificazione per rivedere tutti i thriller di Argento. Perché va detto: per riguardare pellicole già viste ci vuole una spinta in più, e precisa, tanta è l’offerta di materiale visivo a nostra disposizione, tra piattaforme e grande schermo.
All’editore ho quindi dato risposta affermativa, ma tormentata. Perché è stato detto e scritto di tutto e di più – e da firme eccellenti – sul pianeta Argento, capace di solleticare come pochi altri il desiderio di stare dentro a un thriller. Prima di lui solamente il nome di Alfred Hitchcock va a inserirsi nell’album dei giganti. Prima di entrambi, a fare da progenitori, ci sono state le favole, da sempre grondanti sangue e da sempre alla base del genere: da Hans Christian Andersen ai fratelli Grimm, passando per Charles Perrault e spigolando nelle varie mitologie di Paesi meno frequentati – dal Giappone ai nordici – è tutto un fiorire di tensione e orrore, un rimando a parole di quel che con la Settima arte si sarebbe trasformato in immagine in movimento.
Allora: pronti a partire con il Dario (inter)nazionale?
Prima domanda che arriva, puntuale, da chi deve scrivere di thriller: perché la suspense? Gliel’hanno chiesto in molti a Dario, e molte sono state le sue risposte. Tralasciamole. Andiamo per tentativi, che in questo modo facciamo pure salire la suspense e restiamo in contatto con il cinema di cui parliamo. La missione di trovare qualcosa di nuovo da scrivere, infatti, da impossibile diventa possibile se si ha voglia, come ne ho io, di comporre una sorta di Andante per immagini con moto verso l’inconscio.
Sì, perché proprio in questa formula sta la natura stessa del cinema.
Cito parole che mi hanno sempre catturato, quelle di un altro Maestro, Francesco Rosi, che lavorava su altri fronti e si riferiva ad altri tempi, quando si andava con golosità al cinema e lo si riempiva portando a esibire i cartelli del “tutto esaurito”: «Un film ha bisogno di mistero. Il fatto di trovarsi in cinquecento in una sala, di spegnere le luci e vedere quello che appare sullo schermo, è un fatto misterioso».
Usando un altro vocabolo, è un fatto argenteo anche se, nel 2022 post-pandemico, ritrovarsi in massa nella sala buia da misterioso è diventato difficoltoso.
Cominciamo dal confronto Hitchcock-Argento, sempre lì a turbare per la difficoltà di unire i due nomi e cercare differenze di qualità molto spesso – va detto – a favore del mago del brivido rispetto al nostro Dario. Allora mi viene in soccorso la differenza fra i due che ho sempre percepito d’istinto: perché dei film di Hitchcock ricordo le trame e di quelli di Argento un po’ meno? Perché i racconti del primo si appiccicano alla memoria mentre quelli del secondo evaporano?
Risposta: Sir Alfred racconta, con la malizia di un narratore di solida scuola poliziesca. Dario emoziona, con il talento di un analista medico dell’anima che punta a scatenare un terremoto psichico propulsivo alla cura. L’uno va alla ricerca di un soggetto che appassioni, l’altro se ne frega del soggetto e mira al bagaglio delle emozioni trainate dall’immagine.
E allora, a questo punto della competizione, quale sia il vincitore da un punto di vista squisitamente cinematografico – e cinefilo – è presto detto: le immagini di Argento penetrano in chi le contempla, un po’ più a fondo a ogni nuova visione. Quelle di Hitchcock si saldano a sceneggiatura e recitazione, spostando in un secondo piano l’emozione del materiale visivo. È come se gli effetti speciali, nei due autori, avessero un moto diverso. In Hitchcock vengono usati per entrare nella sequenza, facendola “sentire” con toni che si scostano da quanto si vede, mentre in Argento spingono al di fuori, in modo centrifugo.
Alcuni prelievi memorabili: la doccia di Psyco (1960) diventa un elemento speciale di sceneggiatura, mentre le docce messe in scena dall’autore romano, al contrario, sono immagini che si legano a un tutto che non è il soggetto del film; in Gli uccelli (1963), l’incubo arrivato dal racconto di Daphne du Maurier certamente si fissa nella memoria e chiede di stare sull’attenti, ma gli animali – e sono tanti, di ogni tipo, corvi compresi – usati da Argento hanno un altro peso specifico, perché entrano in un bestiario dal sapore universale, sorta di archetipo faunistico della suspense. I gatti, per esempio: in Inferno (1980) riposano fra le braccia di Mater Lacrimarum o passeggiano intorno a Rose Elliot, ma sono tutti pronti a digrignare i denti e farne di ogni – anche alla malcapitata Elise Du Longvalle Adler – per poi diventare ancora più intriganti e terrificanti nel finale dell’episodio Il gatto nero di Due occhi diabolici (1990).
E se proiettassimo non-stop tutti i titoli dell’Argento thriller, con venature gialle e horror, quale risultato si otterrebbe? Chi scrive lo ha in parte fatto e questi sono i frutti di una personale risposta alle re-visioni incontaminate, ovvero prive di qualsivoglia intromissione di immagini altrui.
(Lascerò da parte, perché analizzati ad libitum da tanti critici e studiosi, gli elementi notevoli del cinema di Argento, dalle soggettive alle carrellate, passando per i toni ora grotteschi ora ironici ora horror, fino ad arrivare agli “effetti speciali” del team artistico che ha sempre caratterizzato le scelte del Maestro, con in primo piano Sergio Stivaletti, i Goblin, Keith Emerson e, a seguire, tutti coloro che scorrono nei titoli di coda. Un plauso personale va al costumista Luca Sabatelli e agli abiti della indimenticabile Catherine Spaak in Il gatto a nove code (1971). Chiusa parentesi.)
Entriamo invece nel profondo (rosso) della visione, che ha avuto un suo schedule – dalla mezzanotte in poi – dettato non dalla tradizione di vedere film ad alta tensione alle ore piccole, ma da ragioni altre con una loro matrice squisitamente psicoanalitica (è come se avessi deciso di effettuare delle sedute visive che, in quanto tali, come ogni analizzando sa, vanno messe in calendario con precisione e preferibilmente allo stesso orario).
Per il recupero dei titoli ho scelto di ripassare anche qualche tv-movie e qualche film considerato minore, che però non potevano mancare, come momenti di divertimento fuori dalla canonica produzione per il grande schermo. Logico che spieghi le ragioni della selezione: ho optato per Ti piace Hitchcock? (2005) perché è sempre un gran piacere vedere Elio Germano protagonista, da recuperare nel suo ruolo di onnivoro di cinema; e per Giallo (2009) perché, fin dal titolo, gioca con lo spettatore imboccando una strada dove divertimento fa rima con trash.
Già, perché di gioco si tratta sempre, in tutto il cinema di Argento. Un gioco che ha come risultato la paura e, di conseguenza, la soluzione dell’intrigo come giallo comanda. Ma con una sottile distinzione, che fa la differenza rispetto a tutto il cinema thriller di oggi.
La ricetta è questa (è una mia interpretazione e risponde a emozioni soggettive): le parole chiave sono sicurezza e paura, molteplicità e unicità, il tutto e il particolare. Il risultato è squisitamente personale perché una passerella di tanti film di un solo autore – ripeto, senza interferenze – permette di acquisire una conoscenza diversa da quella usuale. Il tempo è quindi fondamentale nell’operazione, destinata a diventare analisi di un “tutto” che trascina in una specie di percorso di sabbie mobili che annullano. In altre parole: rivedendo tutto l’Argento thriller ho avuto una diversa reazione rispetto a quelle provate di fronte alle singole opere dell’autore. (Ormai, se dovessi analizzare altri autori, a questo punto userei lo stesso, stressante, metodo.) Ci si sente catturati. Come in una trappola che ci si è costruiti da soli. Come quando si sceglie di tuffarsi nei meccanismi di un’analisi. La scelta dell’abbuffata argentiana non è stata autolesionista – anche se così potrebbe apparire – ma dettata dalla necessità e dalla voglia di sperimentare una nuova dimensione per una rinnovata elaborazione critica. Scelta che ha prodotto uno sfinimento: è come se fossi entrato in una dimensione dove dominano la perdita di sicurezza e l’avvicinamento alla paura nella sua forma più primitiva.
Tutto questo non ha bisogno di trama e di racconto, perché vedendo i film in sequenza questi diventano sostanza malleabile, liquida, che trova una sua specificità nell’arte di realizzare un materiale fuso in un’unica unità. Il film singolo non è importante e la storia raccontata si perde nella magnificenza del racconto visivo, sempre giocato su una fondamentale ricerca: entrare nel buco nero della paura senza sapere quale sarà il fondo, con l’unica sicurezza dettata dall’aumento degli stimoli percettivi stimolato dall’ingrandirsi progressivo dell’immagine.
È un processo psicologico che ha a che fare, secondo i miei studi, con l’evocazione del vuoto e, quindi, con la mancanza di sicurezza che è all’origine della paura. Si avverte la vertigine, l’impossibilità di trovare un appiglio per non cadere. Argento ha reso visiva questa sensazione, applicandola in ogni suo film.
Ci sono sempre, infatti, momenti nei quali l’immagine diventa strumento per modificare la struttura della sequenza, abbandonando dati realistici e spingendo verso un meccanismo dove trovano posto alterazioni di un tempo sino ad allora normale. Alterazioni che rendono la camera ballerina, per un inseguimento a velocità da bolide di Formula 1. È come se l’immagine diventasse un vortice che risucchia la vista, un pozzo dentro il quale calare gli occhi sapendo già che si tratta di uno scarto improvviso, non controllato, da qualsivoglia prospettiva.
È questa la vera cifra – o lezione, la si chiami come si vuole – del cinema di Argento: lasciare la realtà d’improvviso, senza preavviso, per andare in una dimensione sconosciuta spezzando ogni regola narrativa e immergendo chi guarda in un vuoto che inquieta, che distrugge ogni sicurezza e fa cadere nella dimensione del trauma. Ma che cos’è il trauma, oltre al titolo, non casuale, di un film del nostro del 1993? La migliore definizione arriva dall’Enciclopedia della psicoanalisi di Jean Laplanche e Jean-Bertrand Pontalis: «Deriva dal greco “ferita” e “perforare”, ovvero una ferita […] con shock violento, lacerazione, e conseguenza sull’organismo»(1). I momenti traumatici dei film non sono solamente quelli dove Sergio Stivaletti detta legge con gli effetti speciali per le ferite inferte alle vittime, ma quell’entrare a ultravelocità in qualche pertugio, in qualche meccanismo che ha a che fare con l’essenza di uno stato d’angoscia.
La prima angoscia di tutti noi va fatta risalire alla nascita, primigenia esperienza traumatica che fa da modello alle successive delineando, così, quel che si definisce, per comodità di comunicazione, “aver paura”. In parole semplici: nei momenti traumatici argentiani si va indietro, si regredisce a uno stato di non-vita (la caduta equivale al sospetto di non farcela, di morire) per poi tornare a vivere, ossia rinascere con le rassicuranti sequenze che proseguono nel raccontare una situazione di vissuto dei protagonisti.
Argento lavora su queste fonti. Non so se le abbia mai considerate in quanto materia psicoanalitica, ma senza dubbio la forza del suo cinema risiede in questo tipo di percezione. I modaioli nostalgici parlerebbero di subliminale, io preferisco invece riportare l’attenzione alla forma, al suo stile unico. Usare un modello riconoscibile che si identifica con il non conosciuto, come la caduta in un buco nero, è comunque un atto creativo, riconosciuto in quanto tale da uno spettatore che assiste a uno spettacolo di ristrutturazione di una realtà a lui ignota. È la visualizzazione del trauma, operazione impossibile che diventa realtà e certifica come solamente l’immagine in movimento possa tentare di dare forma al pensiero, all’emozione, al gioco delle pulsioni: lo spettatore impregna la mente di una trama energetica che è altra cosa rispetto a quella del film.
Mi piace recuperare argomenti che, a prima vista, nulla hanno a che vedere con il cinema, ma ritengo importanti per definire quello che si prova vedendo i film di Argento. Sono le teorie della fisica sui buchi neri, sulla velocità della luce e sulle traiettorie che si rifanno alle equazioni di un ottocentesco, attualissimo, fisico britannico: James Clerk Maxwell(2). Insomma, è come se, nella loro irregolarità, le sequenze accelerate tipiche di Argento spezzassero l’uniformità e la calma “narrativa” al pari dei bagliori o dei coni di luce che procedono verso lo spazio profondo, inghiottendo l’attenzione.
Argento crea l’ordine partendo dal caos e si allea con una galassia di paura che procede come una spirale, dove si crea il disordine visivo perché l’immagine non è più allineata nella trama. E da qui si prosegue, uscendo dal buco nero per ritrovare l’ordine dei fatti narrati.
Si obietterà: in Occhiali neri (2022), manca il momento dell’accelerazione. Certamente, perché è sostituito dall’eclisse nel prologo, inquadrata per visualizzare l’idea, la percezione di quel buco nero finalmente visibile e sempre inquietante, come Argento comanda.
Note
1 Laplanche Jean, Pontalis Jean-Bertrand, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Bari 2008.
2 Per approfondire, Fleisch Daniel, Guida alle equazioni di Maxwell, Editori Riuniti University Press, Roma 2014.