"L’uccello dalle piume di cristallo". L’eclisse della realtà di fatto
Fabrizio FogliatoUn libro degli anni Cinquanta è fonte di ispirazione per un’opera dalle affinità elettive con il teatro, la scrittura, le teorie del cinema e Michelangelo Antonioni: le corrispondenze tra il primo film di Dario Argento e la trilogia sull’incomunicabilità del regista ferrarese consentono di (ri)leggere un’opera già d’autore come L’uccello dalle piume di cristallo (1970).
Da La statua che urla1 di Fredric Brown deriva la matrice psicanalitica secondo la lettura che sarà poi di Robert Stoller: la perversione come «forma erotica dell’odio», ogni atto perverso a celare un segreto scopo distruttivo: Monica Ranieri ha subìto uno shock durante l’infanzia, uno svuotamento che, secondo De Masi, «può sviluppare passività masochista o, al contrario, può facilmente diventare, per identificazione, sadica aggressività»2. Sempre secondo lo psicanalista, per un bambino «un trauma psichico consiste in un’azione improvvisa o ripetuta, che risulta lesiva perché non sono ancora pronte le difese necessarie alla protezione di chi la subisce»3. Nel film la perversione ‒ iconograficamente racchiusa nel quadro che l’assassino guarda prima di uccidere ‒ è tradotta dal regista nell’estetica degli omicidi inscenati secondo la lezione di Thomas De Quincey4: eliminare il tratto morale per far prevalere quello intellettuale, sublimare l’orrore esplicito per esaltare l’opera plastica e le implicazioni cliniche. Iconograficamente, il regista romano attua l’arte metafisica di Giorgio De Chirico: il tempo si frammenta, si restringe, si allenta smagliando la narrazione, cancellando i nessi causali. In De Chirico «la pittura è riflesso di un’esperienza personale di carattere emotivo, intellettuale o psichico e il vero artista deve essere un pensatore e filosofo che non si ferma all’esperienza visibile del mondo, ma fa vedere ciò che l’uomo comune non vede e che egli avverte intuitivamente, restituendolo sulla tela con un sofisticato processo di rielaborazione delle immagini»5. Per questo, sin dal suo esordio, Argento trasfigura quelle immagini che gli rivelano «l’essenza nascosta del visibile; […] non ritrae la realtà come appare ma, modificandone e ricombinandone le forme, induce nello spettatore sensazioni e pensieri analoghi a quelli provati dall’artista»6.
Strategia metafisica declinata da Michelangelo Antonioni, che innerva l’intera prima fase del cinema del nostro fino a Tenebre (1982) e si inerpica fino alle bianche visioni di Phenomena (1985), per poi diradarsi progressivamente. Sull’autore ferrarese Davide Persico scrive parole applicabili anche al romano: «Quello di Antonioni è uno sguardo che non si limita a mostrare la realtà, ma a sovvertirla, a smontarla, allungando o accorciando i tempi, costruendo dei blocchi narrativi che pongono da un lato l’esigenza di essere separati, ma allo stesso tempo di essere collocati e riunificati in nuove unità di senso sempre più aperte al possibile e a una nuova concezione della realtà»7. Come Thomas in Blow Up (1966), anche Sam Dalmas «comprende che qualcosa non va, che ci sono elementi di forte alterità, ma può comprenderlo solo attraverso un processo decostruttivo e di ermeneutica della realtà»8. Per mettere in atto tale processo è necessaria un’estensione del suo occhio: la mdp interviene come apparato tecnologico che trasforma il visibile, rivelando l’invisibile. Le immagini mnestiche sono trattate come fotogrammi da analizzare, ingrandire, avvicinare, cristallizzare in fermo immagine per evidenziare particolari e dettagli. Tuttavia – esattamente come in Blow Up ‒ la tecnologia si rivela insufficiente e fallace perché Sam riesuma il dettaglio rivelatore dal suo inconscio solo nel momento in cui vede con i suoi occhi il duplicato meccanico (secondo la lezione hitchcockiana) nell’appartamento dei Ranieri, dove si replica la scena iniziale della galleria d’arte.
La nostra premessa ermeneutica è già nelle parole di Argento: «Una delle mie ossessioni è la psicanalisi, tema presente sin dal mio primo film, dove, inoltre, ci sono anche i temi della difficoltà di comunicazione, dell’alienazione, che significano molte cose per me. Però il film è molto realistico, il protagonista realmente non riesce a comunicare. Non solo lui ha un ricordo completamente falsato – la memoria è fallace. Ricordiamo solo quello che la nostra cultura vuole che ricordiamo»9. In un’altra intervista Argento afferma, a proposito dell’omicida: «In quanto essere femminile pensava di aver suscitato i desideri di un mostro e, quindi, se non fosse stata donna e non fosse stata lì, non avrebbe suscitato questo desiderio. Allora questo tremendo shock le provoca un’identificazione schizofrenica maschile, che fa nascere dentro di lei una personalità maschile. Vive una vita schizofrenica, facendo finta di essere donna quando in realtà lei è diventata un uomo. Inoltre, nel film ho rovesciato due immagini di identificazione, il bianco che di solito viene accostato alla purezza e il nero che si assimila al male. Quando il protagonista vede una donna lottare con un uomo vestito di nero pensa naturalmente che lei sia in pericolo, mentre invece è proprio la donna a impugnare il coltello ed è lei l’assassina»10.
Temi che costituiscono la spina dorsale del romanzo di Brown e permettono di legare libro e film nella suggestione più che nei semplici, singoli dettagli. Altro aspetto intrinseco a entrambi è la presenza del feticcio, rappresentazione tattile del trauma che scatena la violenza: la statuina realizzata da Chapman Wilson e il quadro di Berto Consalvi racchiudono, in forme differenti, il medesimo contenuto simbolico. Con uno studiato effetto di montaggio – analogico, connotativo e semantico – il regista mette in relazione la riproduzione fotografica in b/n del quadro con l’originale a colori, nel momento in cui Dalmas e l’assassino lo osservano: breve sintagma che rivela come la soggettiva dello sguardo (non ancora quella dell’assassino), sia legata al desiderio (erotico/perverso). In La statua che urla Sweeney si mette sulle tracce del killer dopo aver visto Jolanda nuda e sanguinante nell’androne delle scale: vede la donna, la desidera, vuole possederla; la sua è un’indagine che non serve per rivelare la verità, ma per soddisfare un desiderio personale come indica Diomede: «Tutto quello che vuoi, purché tu lo voglia con tanta intensità da concentrarti tutto nello scopo di ottenerlo»11. Argento riprende l’ossessione sessuale di Sweeney per traslarla su quella per la scrittura di Dalmas. La sua non è un’indagine sull’omicida, ma nasce dalla proiezione mentale di un crimine che esiste solo nella sua testa: l’uso insistito del primo piano introspettivo e il far coincidere le svolte decisive dell’indagine con la sua presenza sul campo servono ad Argento per farci entrare nella mente del personaggio e assecondarne le costruzioni: esercizi essenzialmente di fantasia e manipolazione, come quelli di un narratore “interno” al racconto e impegnato a tessere un’ulteriore tela. Non a caso, Dalmas ricomincia a scrivere e, di colpo, batte a macchina quaranta pagine in cui racconta le sue vicende: «Ho riscoperto Fitzgerald. Il personaggio è azione», dice a Carlo come a motivare il proprio impegno attivo – fino a rivelarsi ossessivo – nelle indagini parallele a quelle ufficiali. Anomalie dissonanti come la Cadillac, la Balilla, il pugile dal giubbotto giallo mischiatosi ad altri suoi simili, il quadro, l’hornitus nevalis rivelatore, la galleria-acquario in cui campeggia in bella vista una gigantesca zampa d’uccello e persino la citazione da Fritz Lang (M. Il mostro di Düsseldorf, 1931) – nel tentativo di investimento di Dalmas quando cerca di avvicinarsi alla galleria d’arte – sono tutte invenzioni “da romanzo”.
Il film è una messa in scena frutto della mente di Dalmas, scrittore in crisi che si inventa una storia per poterla vergare su carta12. I personaggi si muovono in una realtà spettrale osservata, decifrata, ma che sta perdendo connotazioni storiche. Argento scrutatore fenomenologico e analitico personalizza i temi di L’eclisse (1962) ‒ il film verso cui è più debitore L’uccello ‒ con la coppia minacciata da forze esterne che impediscono il raggiungimento di uno stato di serenità. La narrazione si allenta, si sfalda, Argento procede per dissezione del contesto.
La descrizione degli ambienti si fa sempre più dilatata e priva di volumi, i personaggi vengono seguiti (qui Argento introduce la sua ossessione per i carrelli laterali) nel loro vagare all’interno di Roma, che i registi raccontano come anonima e spettrale. Gli ambienti sono attraversati dal pieno dei fatti e dal vuoto di gesti sempre più inutili: Sam scrive il trattato di ornitologia che gli garantisce l’assegno, ma non ne ritira neanche una copia; Morosini preleva il passaporto all’americano, ma poi è costretto a restituirglielo; pur abbassandone il prezzo drasticamente, Consalvi non riesce a vendere il suo quadro; Alberto Ranieri muore per coprire la moglie, ma lei viene comunque scoperta13; infine la donna, riflettendosi nel finestrino dell’ambulanza, si pettina, indifferente verso la tragedia che si è appena compiuta alle sue spalle. Si tratta di una lunga serie di azioni che si susseguono tra pause, silenzi, improvvisi scarti narrativi che testimoniano l’incapacità dei personaggi di comunicare, il loro essere totalmente immersi in una vita di fiction dai tratti fortemente onirici.
L’acquario iniziale con cui si apre il film ‒ con Dalmas chiuso tra le due pareti di vetro ‒ è già una dichiarazione d’intenti autoriali: l’uomo non può comunicare né con l’esterno, né con l’interno. L’esposizione d’arte è scenografia necessaria alla messa in scena: un palco teatrale dove, uno dopo l’altro, fanno la loro entrata in scena i protagonisti del film. Argento, come Antonioni in L’eclisse, li fa muovere in uno spazio neutro, impersonale, in cui la storicità lascia il posto a un’irrealtà che può essere solo osservata, non decifrata secondo le convenzioni: i dialoghi sono inutili e logorroici, a dominare è il silenzio. In L’eclisse e L’uccello l’epilogo è identico nello spirito e nell’assunto di fondo: resti di cose deprivate del legame con il soggetto; descrizioni vuote, poche note musicali, un lampione che si accende; l’aridità come perdita del segno e sua riferibilità. Veri e propri omicidi esistenziali. Alla fine, in entrambe le pellicole non rimane che far irrompere il rumore della città (ri)animata o di un aeroporto, unico aggancio con una realtà tattile che cancella ogni aspetto onirico e ogni rarefazione per lasciare spazio alla concretezza dei fatti. E all’inquinamento acustico, giustificazione più che plausibile all’impossibilità di comunicare.
Note
1 L’intera trilogia zoonomica è debitrice di questo testo.
2 De Masi Franco, La perversione sadomasochista. L’oggetto e le teorie, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 121.
3 Ibidem.
4 De Quincey Thomas, L’assassinio come una delle belle arti, SE, Milano 1987.
5 Baldacci Paolo, De Chirico, «Art e Dossier», Giunti Editore, 2018, p. 5.
6 Ibidem.
7 Persico Davide, Blow-Up e le forme potenziali del mondo, Mimesis, Milano 2020, p. 24.
8 Ivi, p. 118.
9 Out of the Shadows-Interview with Dario Argento in Dario Argento’s The Bird With the Crystal Plumage, Extra-DVD, Blue Underground 2003.
10 Tentori Antonio, Sensualità dell’omicidio, Falsopiano, Alessandria 1997, p. 14.
11 Brown Fredric, La statua che urla, Interno Giallo Editore, 1991, p. 30.
12 Se si fa bene attenzione allo svolgersi della vicenda, ci si accorge che l’avanzare della storia è garantito da momenti in cui lui è solo e distante tanto da Giulia quanto da tutti gli altri. Il film procede per indizi definiti e creati dallo stesso Dalmas, la storia procede come lui ha deciso debba proseguire. Quando si trova di fronte a un muro (il foglio bianco) inventa nuovi personaggi, costruiti sugli stereotipi della romanità (egli è un americano a Roma), per uscire dall’impasse. Fino all’assurdo di mascherare una comunissima gru dietro all’altisonante hornitus nevalis.
13 La soggettiva della caduta dal balcone è già presente nel finale di Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1963).
CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento; sceneggiatura: Dario Argento; fotografia: Vittorio Storaro; scenografia: Dario Micheli; costumi: Dario Micheli; montaggio: Franco Fraticelli; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Tony Musante (Sam Dalmas), Suzy Kendall (Giulia), Enrico Maria Salerno (commissario Morosini), Eva Renzi (Monica Ranieri), Mario Adorf (Berto Consalvi), Umberto Raho (Alberto Ranieri); produzione: Salvatore Argento per Seda Spettacoli, Central Cinema, Company Film; origine: Italia, Germania Ovest, 1970; durata: 96’; home video: Blu-ray RaiCom, dvd RaiCom; colonna sonora: Cinevox Records.
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