La sindrome di Stendhal (1996) è il film del ritorno a casa, dopo la duplice esperienza americana di Due occhi diabolici (1990) e Trauma (1993), ma anche l’inizio di una nuova fase nella carriera di Dario Argento.
Ma andiamo con ordine. Concepito originariamente per essere girato negli Stati Uniti con Bridget Fonda nei panni della protagonista, si rivela ben presto un progetto in grado di provocare non pochi problemi al regista romano il quale, di fronte all’impossibilità di realizzare in terra straniera un progetto così spudoratamente personale («Quando facevo i sopralluoghi a Los Angeles capivo però che la città non era per niente adatta a una storia che non aveva nulla di americano, sarebbe stata una vera ipocrisia realizzarla lì»1), alla fine preferisce pagare una penale ai finanziatori statunitensi pur di poterlo girare in Italia insieme alla figlia Asia.
Ed è proprio la presenza di quest’ultima a rappresentare la chiave di lettura ideale per vedere (quindi capire) la produzione più recente del regista romano sotto un’ottica completamente differente, almeno per quanto riguarda il periodo compreso tra Trauma e La terza madre (2007) – cioè quello più vituperato e frainteso. E se il film precedente può ancora considerarsi una parentesi, sospeso a metà tra l’evidente spaesamento di fronte a un territorio geograficamente e geneticamente estraneo e una spudorata – mai così inaspettata – vena romantica e intimista, è qui che Argento comincia a cambiare pelle e a cercare nuovi orizzonti: non verso altri luoghi fisici (l’esperienza a stelle e strisce può dirsi definitivamente conclusa, bisognerà attendere l’esperimento televisivo Masters of Horror per dargli un seguito), ma dentro sé stesso e il proprio cinema. Anche a costo di furiose incomprensioni con il suo pubblico e con la critica, che puntualmente non tarderanno ad arrivare.
È un film di primati, innanzitutto: lo è certamente per l’utilizzo di effetti speciali digitali mai tentati prima in Italia (la discesa delle pillole nell’esofago della protagonista, il suo ingresso – letterale – dentro i quadri), ma anche e soprattutto per il ribaltamento del ruolo della vittima, non più ridotta a mero espediente narrativo, finalmente promossa a protagonista a tutti gli effetti. Un cambiamento di prospettiva radicale – sul quale in pochi hanno posto il giusto accento – reso ancora più urgente e doloroso dall’indissolubile legame di sangue con Asia, il cui corpo diviene la tela su cui sperimentare nuove forme e colori (emblematica, in tal senso, la sequenza in cui lei si ricopre totalmente di pittura, prima di assumere una posizione fetale) e che, infatti, nel successivo Il fantasma dell’Opera (1998) rappresenterà addirittura il terreno di scontro fisico, erotico e morboso tra il sentimento (l’attrazione) e l’orrore (la repulsione) nei confronti di una creatura che, in netto contrasto sia nei confronti del romanzo di Leroux, sia di tutto il suo relativo immaginario cinematografico, non presenta alcuna maschera o deformità.
Anche la scelta del nome del suo personaggio, Anna, sottolinea la necessità di una dimensione spudoratamente intima e autobiografica, richiamando la figura di Anna Ceroli (figlia di Daria Nicolodi e dello scultore Mario Ceroli) tragicamente scomparsa in un incidente stradale appena due anni prima.
Un ulteriore elemento di novità e di frattura con il passato è rappresentato ovviamente dal rifiuto del whodunit o, se si preferisce, dall’abbandono della struttura del giallo classico, spazzando via sia l’intera fase relativa alle indagini sia la celeberrima rivelazione finale: per la prima volta in Argento, lo spettatore conosce dall’inizio il volto e l’identità dell’assassino, suggellando in questo modo la natura sperimentale di un thriller che, esattamente come la sua protagonista, cambia forma strada facendo in barba a qualsiasi aspettativa.
La stessa sindrome del titolo, ovvero quella sensazione di malessere che colpirebbe alcuni soggetti dinanzi a opere d’arte di incredibile bellezza e ispirata al regista dalla lettura dell’omonimo libro di Graziella Magherini, sembra in apparenza poco più di un pretesto che la sceneggiatura (scritta insieme al fidato Franco Ferrini) sviluppa in maniera ondivaga e del tutto non convenzionale, e che solamente nell’ultima inquadratura – bellissima e personalissima rivisitazione della Pietà di Michelangelo – rivela l’identificazione totale tra la figura paterna e quella di un artista divorato dal sentimento nei confronti della figlia.
Insomma, l’Argento degli anni Novanta è soprattutto un padre che cerca di fare i conti con la propria immagine e il proprio cinema, dando libero sfogo alla valvola del sentimento nel tentativo di reinterpretare sé stesso attraverso un atteggiamento mai così meditabondo. Ormai, infatti, è opinione largamente condivisa che uno tra i suoi principali obiettivi degli ultimi trent’anni sia stato rifare metodicamente alcuni dei propri titoli del passato: quindi, se già l’intreccio giallo di Trauma guardava alla struttura di Profondo rosso ([1975], ripresa ulteriormente in Nonhosonno [2001]) e alcuni elementi di Il cartaio (2004) strizzeranno l’occhio a L’uccello dalle piume di cristallo (1970), La sindrome di Stendhal guarda inesorabilmente a Tenebre (1982) e alla sfrontatezza di una libertà narrativa che già all’epoca sconvolse non poco il proprio pubblico.
Esattamente come i delitti commessi dal maniaco Cristiano Berti finivano per sconvolgere la psiche dello scrittore Peter Neal, qui le gesta dello stupratore seriale Alfredo Grossi troveranno una sorta di passaggio di testimone ideale nella sua vittima Anna Manni. Cosa è cambiato rispetto al passato? Se nel 1982 Argento sfidava apertamente un genere e un’estetica ribaltandone le regole e giocando abilmente sui contrasti, quattordici anni più tardi flirta coraggiosamente con il melodramma (ancora, il Fantasma di Leroux è pronto ad attenderlo al varco) per raccontare la costante ricerca e accettazione di sé stessi – come donna (Anna), come uomo, come regista – attraverso il trauma e la metamorfosi, smarrendosi dentro un universo tutto argentiano in cui l’Arte stessa è violenza e persino i luoghi-simbolo del suo cinema (la componente urbana) sembrano abdicare a favore di quella dimensione più antica e ancestrale suggerita dalla provincia (Viterbo) e dai reperti di un mondo lontano nel tempo.
Ecco, allora, perché La sindrome di Stendhal è anche il film del cambiamento, inaccettabile per alcuni: ma, se si vuole, necessario per provare a (ri)vedere sotto un’ottica differente buona parte di quello che sarebbe venuto in seguito.
Note
1 Palmerini Luca M., Mistretta Gaetano (a cura di), Spaghetti Nightmares, M&P edizioni, Roma 1998, p. 26.
CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento, Franco Ferrini; sceneggiatura: Dario Argento; fotografia: Giuseppe Rotunno; scenografia: Antonello Geleng; costumi: Lia Morandini; montaggio: Angelo Nicolini; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Asia Argento (vice ispettore Anna Manni), Thomas Kretschmann (Alfredo Grossi), Marco Leonardi (Marco Longhi), Luigi Diberti (ispettore Manetti), Julien Lambroschini (Marie), John Quentin (padre di Anna), Maximilian Nisi (fratello di Anna), Franco Diogene (marito della vittima), Sonia Topazio (vittima di Firenze), Paolo Bonacelli (dottor Cavanna); produzione: Dario Argento e Giuseppe Colombo per Medusa Film, Cine 2000; origine: Italia, 1996; durata: 115’; home video: Blu-ray inedito, dvd Medusa; colonna sonora: Image Music.