Come della religione («bere era il mio Dio»), della politica, interna o internazionale, il buon vecchio Buk se ne è sempre sbattuto. Motivo, forse non tra gli ultimi, del suo successo, resistente all’usura del tempo e basato su puttane, corse e sbronze. Destra, sinistra, la crisi missilistica a Cuba, Johnson, Nixon, Martin Luther King, i diritti civili, il Vietnam, l’Unione Sovietica: chissenefrega. Bando alle ideologie, agli slogan e alle banalità. In un’epoca di intellettuali militanti a ogni costo, la sua è una filosofia della non-partecipazione. Tutti voi, io no. Vaffanculo ai gruppi. A ogni gruppo, democratico o repubblicano, capitalista o comunista, beat o punk. Ci sono cose che funzionano: ragazze giovani, birra, cavalli, fumarsi un sigaro… E ci sono cose che non funzionano: Dio, il comunismo, il movimento omosessuale… Punto. Così semplice… Anche l’assassinio di Kennedy lo lascia indifferente. Quale martire? «È un inferno» scrive all’accademico John William Corrington, «avere qualcuno che ti ficca una pallottola in testa invece di ficcartecela tu da solo? […] Quanti altri morti sono stati seppelliti il giorno in cui hanno seppellito Kennedy?» D’altronde, «la maggior parte degli esseri umani non vale una merda», e «se scommettessi sul genere umano non vincerei un centesimo»: perché occuparsene, allora? Perché scrivere di politica se «la differenza tra democrazia e dittatura è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini; in una dittatura non c’è bisogno di sprecare tempo andando a votare»? Piuttosto, bisogna fare attenzione, perché «la politica è la più grossa puttana, la fossa più profonda in cui un uomo può cadere». La politica è come cercare di inculare un gatto, va evitata, i politici ancor di più. «Sono come le donne: appassionati profondamente a loro e ne uscirai con le sembianze di un lombrico calpestato da uno stivale.»
Hank, americano fino al midollo, tutt’altro che cosmopolita – solo dopo il 1976 va un paio di volte in Canada, poi in Francia e Germania, giusto per motivi promozionali e con una gran voglia di tornare a casa il prima possibile – anzi, decisamente provinciale, aveva ben altro a cui pensare. La dislessia, un padre manesco («un’assurda testa di cazzo») e una madre solidale col consorte, una forma devastante di acne che gli sfigura il volto, compagni che gli danno del crucco mangiacrauti, da ragazzo; poi, rimediare una trombata tra zoccole e ubriacone, sbarcare il lunario con lavoretti temporanei da una settimana o da impiegato all’ufficio postale, bere e fare a pugni nei bar, ascoltare musica classica (Wagner in primis), giocare ai cavalli, buttare giù in cucina racconti e poesie – anche undici a notte –, birra, whisky, Pall Mall e macchina da scrivere («la mia mitragliatrice, sempre carica»); quindi, dopo un lungo suicidio, un bicchiere alla volta, tenere reading qua e là, godersi la fama finalmente arrivata, le donne che gli saltano addosso e il mondo di Hollywood, e anche un po’ di sana tranquillità borghese, persino il giardinaggio. Inoltre, quella puttana della politica aveva fregato gente come Pound, Céline, Hamsun e Sartre, e Hank non voleva mica aggiungersi all’elenco.
«Non voto mai. Non ho mai votato. Non mi è mai interessato niente. Immagino che certi partiti abbiano più benefici per i ricchi e che altri abbiano più benefici per i poveri. Ma non posso scaldarmi per questo. Prendi il partito democratico e il partito repubblicano. Che differenza c’è? Non ha importanza», confida in un’intervista nel 1975. Senza più cambiare idea. L’elezione di Reagan? «Non me ne frega un cazzo. Non influenzerà il mio modo di scrivere.»
Insomma, dare un’etichetta all’apolitico Chinaski («non voglio salvare il mondo, non voglio renderlo un posto migliore. Non voglio che le balene vengano salvate, non voglio che gli impianti nucleari vengano smantellati»), diffidente nei confronti dei propugnatori di qualsivoglia ideologia, lontano anni luce dal marxismo e da tutti gli altri -ismi, è impossibile. Anche se è vero che ammirava perlopiù scrittori di destra (Hamsun, Céline, Pound, Fante, ecc.), si divertiva un mondo a scioccare, facendo o dicendo cose oltraggiose e controcorrente, ed era affascinato dalle personalità forti – in fondo, l’antitesi del padre vigliacco – fossero stati anche fuorilegge come John Dillinger o dittatori come Hitler.
Molti hanno romanzato sul giovane Bukowski simpatizzante del nazismo ai tempi del Los Angeles City College (autunno 1939), all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, e vicino ai camerati bianchi – tutti piuttosto sfigati, in verità – che se la prendevano con comunisti e negri. Nato in Germania da una tedesca, Kate, che vedeva nel Führer un grande uomo, il difensore di «tutti noi lavoratori», un capo schierato al fianco della gente comune, ammirandone i risultati ottenuti contro la disoccupazione, Hank scriveva ai giornali inneggiando ai nazisti, insistendo sul concetto di Razza Superiore e scandalizzando compagni e professori, «tutti sinistrorsi». Ci credeva davvero? Certo che no, non aveva neanche letto il Mein Kampf, ma, chissà, «forse, con Hitler al governo, mi sarebbe toccata un po’ di fica ogni tanto […]. Non avevo niente da perdere», e l’innato spirito di contraddizione, in una società conformista e piena di pregiudizi antitedeschi, mentre lui scriverà orgogliosamente del 1967 «c’è ancora qualcosa di tedesco in me. Il che vuol dire lealtà, onore, e tutte queste parole fuori moda», faceva il resto. Che soddisfazione épater les bourgeois!
E poi, certo, anche più tardi «vedeva Hitler come un fuoco», racconterà FrancEyE, la poetessa dilettante che gli ha dato la figlia Marina, ed «era quel fuoco ad attirarlo». «Se mai aveva una posizione politica», certificava John Bryan, che gli aveva affidato la rubrica settimanale Notes of a Dirty Old Man sulla rivista «Open City», «era quella di uno stronzo fascista». Ancora nel 1975 annota: «Se si permette di esistere al partito comunista, al partito socialista, al partito degli omosessuali e a quello dei democratici e dei repubblicani, non si può proprio dire che il partito nazista non ha diritto di esistere». Ineccepibile: roba da vero liberale. Mentre nel 1978, in un ristorante di Amburgo, si mette a cantare Deutschland, Deutschland über alles, per nulla preoccupato del possibile collegamento col nazismo. E una foto lo ritrae tutto soddisfatto seduto sul suo maggiolone Volkswagen del 1967, con una bella croce di ferro appesa allo specchietto retrovisore. Del resto, cosa meglio del nazismo per far inorridire i benpensanti (compresa l’italiana Fernanda Pivano)? Sentite qua (da un’intervista del 1981): «Chiunque sia forte quanto Hitler verrà odiato per secoli, ma parleranno di lui, faranno film su di lui molto tempo dopo che quelli che si sono riuniti per sconfiggerlo saranno spariti dalla memoria umana collettiva. […] Se riesci a tradire e uccidere l’intera umanità, è grandioso; ma se tradisci la persona con la quale vivi, è merda. Perché non ci vuole fegato per fare la seconda e ci vuole coraggio e originalità per fare la prima». E ora scandalizzatevi pure.
Bukowski detestava soprattutto il progresso e i progressisti. Li avrebbe detestati per tutta la vita. Gli altri letterati s’intruppavano, facevano gruppo, organizzavano party tra di loro, perché nessuno poteva starsene in disparte, dicevano, non sarebbe stato un essere umano pensante e sensibile. Insopportabili. E lui non era abituato a lisciare il pelo a chicchessia, figuriamoci a chi non batteva ciglio dinanzi ai crimini di «Joe Stalin», che «giocava a fare Hitler con il suo popolo». A proposito di Brecht, autore del testo della canzone Mack the Knife, spiega: «Ho sentito la sua roba alla radio. Che verso pulito e potente… molto bravo davvero e poi butta lì dei versi marxisti, e così mi ha ucciso. Mi chiedo: perché ha fatto una cosa così? È come un uomo con una palla sola, alla fine, per me». Buk sta con gli sconfitti, esalta la bellezza della disfatta, il mondo dei vinti, vinti come Céline, «il più grande scrittore degli ultimi duemila anni», come Hamsun e come Pound, i barboni, i vagabondi e gli ubriaconi. E perciò non può stare con i suoi colleghi: «Negli Stati Uniti, dalla fine della Prima Guerra Mondiale, la cosiddetta intellighenzia, le università, hanno sempre teso a sinistra» scrive in un saggio del 1986 dedicato a Pound, «e per un artista tendere a sinistra, perfino all’estrema sinistra, è da sempre considerato non solo perdonabile, ma anche una forma di prodezza creativa».
Hank resta tuttora un perfetto antidoto alla tirannia del politically correct. Femmine, froci, drogati, hippy, pacifisti, minoranze assortite, associazioni benefiche e mobilitazioni democratiche: ne ha per tutti. A difesa del «più insultato del genere umano: il maschio bianco americano del ceto medio», che ha la colpa di essere maggioranza. Cosa vera allora, figuriamoci oggi.
Alcuni hanno voluto spacciare Bukowski per un poeta beat. Un’assurdità. Gli hippy si aggregavano, manifestavano, urlavano e si drogavano, Buk era un solitario, un cane sciolto che si faceva i cazzi suoi, chiuso in una stanza con una scorta di birra («Uno scrittore che scende in strada è uno scrittore che non sa niente della strada»), e stava alla larga dalle droghe e dai viaggi acidi: «Se prendi LSD sei un poeta, un intellettuale. Che banda di deficienti». Deficienti con la stessa mentalità dei Testimoni di Geova: o con noi o out. Una cricca insopportabile, mollaccioni con genitori ricchi, ragazzotti pigri e viziati, bravi solo a farsi pubblicità e darsi spago l’un l’altro. Insomma, un colossale bluff. In realtà, la beat generation e Hank in comune hanno solo la cronologia e, inevitabilmente, respirano lo stesso Zeitgeist, salgono sugli stessi palchi, scrivono per le stesse pubblicazioni underground e frequentano le stesse feste. Al limite, Bukowski è stato un anticipatore, come sostiene lui stesso: «Ero un hippy quando gli hippy non esistevano ancora, sono stato un beat ancor prima dei beat». E, soprattutto: «Mentre i beat beattavano, io bevevo».
Di Allen Ginsberg, di sei anni più giovane, non era certo un fan, per lui era un falso, «passato / dall’Urlo al / miagolio / di professore a / Brooklyn», e dopo Howl non aveva scritto «nulla che valesse più di una merda». William Burroughs, che a un reading l’aveva trattato con freddezza e che avrebbe volentieri preso a pugni, è «un fifone porco», «uno scrittore terribilmente noioso». Gregory Corso e Robert Creeley giganti dell’umanità? «Cazzate. Giganti della pubblicità.» Maggiori le affinità con Jack Kerouac (del 1922), pur strapazzato in Hollywood, Hollywood sotto il nome di Mack Derouac, dalla scrittura automatica alla vita on the road, dall’amore per lo sport a quello per la musica classica o per Pound e Dostoevskij. Politicamente, Kerouac è un conservatore pro intervento in Vietnam e Bukowski un anarchico (scusa, Hank!), ma li unisce l’anticomunismo e il fastidio per i figli dei fiori e le anime belle. Si salva anche, sessualità bivalente e guida spericolata a parte, Neal Cassady, il Dean Moriarty di Sulla strada, uno addirittura più pazzo di lui, perché aveva lavorato in fabbrica, era stato in galera, amava bere e scommettere sui cavalli.
Certo, Lawrence Ferlinghetti, con la sua City Lights Press, gli ha pubblicato nel 1972 la fondamentale raccolta Erections, Ejaculations, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness (contenente anche il racconto Svastica, ovviamente censurato in Italia e riproposto in questo fascicolo) e l’ha portato nel settembre 1973 a San Francisco, per una lettura al centro sociale di Telegraph Hill. Perché lo apprezzava. Ma che fosse ricambiato, be’, c’è più di qualche dubbio.
Buk si divertiva inoltre a ironizzare su Bryan e sugli altri giornalisti di «Open City» (ribattezzata in un’occasione Open Pussy), definendoli «rifiuti comunisti e merdosi hippy», «una massa di stronzi e di snob», una manica di bambocci con la puzza sotto al naso. «Se ne stavano lì seduti» raccontava, «a fare battutine contro la guerra, o sull’erba. Le capivano tutti tranne me. Candidare alla presidenza un maiale. Che cazzo voleva dire? Loro si eccitavano, io mi annoiavo.» Le peggiori, ovvio, erano le giornaliste militanti, volontarie e senza stipendio, che facevano la fame per la Causa. A Bob Dylan e Joan Baez Hank preferisce di gran lunga Brahms e Mahler. Quelli che bighellonano nei parchi con le icone del Che e i ritratti di Castro gli stanno sui coglioni.
Altro che Peace and Love. L’amore, anzi il sesso, gli piace eccome, ma della pace non sa che farsene. O, meglio, la desidera quando tutti vogliono la Seconda Guerra Mondiale, ma in un’epoca di pacifisti di professione non sopporta chi «riesce a vivere bene protestando contro la guerra. E quando non ci sono guerre non sa più che fare». Ovviamente sono gli intellettuali americani, convinti che «una guerra “buona” sia contro la Destra e una “cattiva” sia contro la Sinistra». Ammazzare e venire ammazzati va bene, quel che è davvero intollerabile è la vita da caserma. Neppure la rivoluzione lo riguarda. «Potere al popolo non è la cura» proclama. E al suo lettore tipo, paradossalmente pacifista e di sinistra, chiede che ne sarebbe di lui: «Mi metterai a tagliare canne da zucchero? Quello mi annoierebbe a morte. Costruirai nuove fabbriche? Ho passato la vita a scappare dalle fabbriche. Dimmi cos’hai in serbo per me, prima che io rada al suolo una banca. Saperlo mi serve più di una collana hippy, di una barba, di una bandana da indiano, dell’erba legalizzata». La controcultura degli hippy, «i rollatori di canne, le zucche vuote», in fondo «un’unica grossa mente di merda gelatinosa che si aggrappa all’LSD come al Crocefisso», gli sta, sic et simpliciter, sul cazzo, la musica folk gli fa schifo, i massimi sistemi non gli fanno né caldo né freddo, l’unica rivolta che lo appassiona è quella degli scommettitori per il biglietto d’ingresso all’ippodromo.
La massa la odia, «la massa è merda», «puzza e urla cose sciocche», tanto che ci vorrebbe la Bomba Atomica per farla stare zitta. A una festa, un tizio si lancia in rap lunghi e spontanei su pace e fratellanza, sulla religione e sulle buone vibrazioni, su quanto sarebbe stato bello se il mondo intero si fosse unito e avesse iniziato a vivere con spirito amorevole di fratellanza. Alla fine, Hank spiega alla fidanzata Linda: «Ecco com’è la gente che si droga». Ovvio poi che non sopporti Imagine e John Lennon: «Non ha mai prodotto nulla di reale o di meritevole e anche il modo in cui ha vissuto non vale un soldo bucato».
Da padre ansioso, quando FranEyE trascinava la figlia Marina alle marce pacifiste, ai love-in o alle manifestazioni di protesta, dove tutti si sparpagliavano per terra in cerchio a passarsi l’erba e a parlare di Leary e della vecchia buona Sinistra, si imbestialiva. Litigavano in continuazione per la politica. «Lo so che vuoi salvare il mondo» le diceva, «ma non puoi cominciare dalla cucina?» La rivoluzione sul Sunset Strip è una rivoluzione per mollaccioni: «Se il bambino si farà male il papà arrabbiato e la mammina lo tireranno fuori dai pasticci». Buk sta coi poliziotti, come Pasolini da noi: «Quella che considerano Violenza della Polizia è solo una gentilissima pestata sui loro rosei e soffici alluci». Un poeta se ne tiene a distanza: beve, scopa, mangia, caga, sta alla larga da pistole e ideali di massa. E se FrancEyE fa l’apologia del Potere Nero e di LeRoi Jones, lui la stronca così: «Calda aria fritta di donna bianca liberale», che se i neri avessero mai conquistato il potere avrebbero ucciso molto prima di lui.
Le donne, per Buk (uno dei suoi personaggi ritiene l’amore una favola, come il Natale), sono essenzialmente «pezzi di figa», «macchine da fottere», «tutte cagone in mutandoni rosa che si accovacciano per pisciare», quasi tutte alcolizzate e pazze, nonché troie (madri, sorelle, mogli e figlie comprese), abili nel tradimento, nella tortura e nella dannazione, comunque pericolose perché «più di un valent’uomo è stato ridotto sul lastrico da una donna», e allora tanto vale pagarle subito, contenendo i costi… Epperò anche le zoccole, trombate in infimi alberghi, gli hanno insegnato qualcosa, certo più di Kant, Tolstoj, Marx e compagnia bella. E lui, chissà come, pur predicando di non invidiare mai a un uomo la sua donna («dietro a quel che vedi c’è una vita d’inferno»), le attirava come le mosche il miele. E in fondo le trattava gentilmente: «Nella mia vita, di tutte le donne che ho conosciuto, ne ho picchiate solo due». Erano loro, invece, pazze e isteriche, a rincorrerlo con coltellacci in mano, solo che «l’uomo di solito ha torto qui in America», ed ecco spiegata la leggenda della misoginia bukowskiana.
La vera sciagura, semmai, sono le femministe, da fuggire come la peste, le super cattive che detestano gli uomini, specie dopo che sono invecchiate e non se le fila più nessuno: «Soltanto femmine. Non vado a letto con le femministe». Quando arrivano loro, sono tempi duri: «Arrivò il femminismo negli uffici degli editori e non si poteva più insultare le donne, come non si poteva più insultare i neri, né parlar male della rivoluzione, del rock o degli indiani d’America». Al Movimento di Liberazione delle Donne (pieno di «lesbiche furbe»), che si lamenta perché non ci sono ancora abbastanza dottoresse, risponde che non ci sono abbastanza spazzine.
Le femministe lo prendono di mira, specie dopo il romanzo Donne (1978), lui scrolla le spalle. L’aveva già detto al poeta A. D. Winans in una lettera del 1974, la correttezza politica non lo riguarda: «Se scrivo una storia su una donna stronza allora quella donna stronza esiste davvero. in una forma o nell’altra. le nere possono essere stronze tanto quanto le bianche. mi rifiuto di farmi imporre dei limiti sui materiali con cui posso dipingere». La filosofia di fondo è chiara: «Se penso che una cosa sia brutta, dico che è brutta… Uomo, donna, bambino, cane». Le donne se la prendono? È un problema loro. E, comunque, c’è una poesia che spiega tutto: «la gente mi odiava / per quello che / scrivevo sulle / donne. / ma quella gente / non conosceva le / donne / con le quali / ho vissuto io». Donne moderne, che «non ti rammendano neanche i calzini». Winans lo ricorda, durante una lettura di poesie a San Francisco, al Palazzo dei caduti di guerra, «vuotare una bottiglia dopo l’altra, tutto il tempo impegnato in una battaglia verbale con un gruppuscolo di femministe venute per provocarlo […]. Alla fine furono loro a doversi arrendere».
Con gli omosessuali ci andava giù ancora più duro. Una delle principali critiche mosse ai beat è che molti erano gay, e li trovavi nascosti nei cessi dei bar a leccarsi il buco del culo a vicenda, erano «cuori solitari alla ricerca di un culo disponibile». Del resto, lo dice chiaro e tondo da subito, fin dalla sua prima intervista, rilasciata nel 1963 al «Literary Times» di Chicago: «Gli omosessuali sono delicati e la brutta poesia è delicata e Ginsberg ha ribaltato le carte in tavola rendendo la poesia omosessuale poesia forte, quasi virile, ma alla lunga l’omosessuale rimarrà omosessuale e non poeta». In una serata a casa del cantautore Bob Lind, non trovando il tabasco, lo insulta così: «Sei solo una fighetta, un artistucolo da quattro soldi. E, visto che qua in giro non c’è né una donna né del tabasco, mi sa che sei anche frocio!». Se la poesia non ha fegato, ritmo e palle, è perché i poeti sono parassiti: «Il gioco è condotto ancora dai rammolliti, dai sognatori, dalle lesbiche e dai professori d’inglese». Categorie tremende, da evitare a ogni costo. Neppure i migliori si salvano, sono checche anche loro: «Posso affermare che Ginsberg è stato la forza che ha risvegliato la poesia americana dai tempi di Walt Whitman. Peccato, però, cazzo, che sia omosessuale. Peccato, cazzo, che Genet sia omosessuale. Non che sia peccato essere omosessuali, ma è un peccato dovercene stare con le mani in mano e lasciare che degli omosessuali ci insegnino a scrivere. Whitman, a quanto pare, rincorreva i marinai. Quell’uomo virile con quei baffi […] rincorreva i marinai! Ti senti di dar torto agli studenti quando dicono che i poeti sono rammolliti?». Lui, vero macho, resta isolato, alieno dal mondo ipocrita della poesia. Che nel dicembre 1959 descrive così a E. V. Griffith, caporedattore di «Gallows»: «È tutto un formarsi di gruppetti, uno stringersi di mani e di anime, io pubblico le tue cose se tu pubblichi le mie, e non ti dispiacerebbe mica leggere davanti a un piccolo gruppo scelto di omosessuali?».
Se dall’Italia lo invitano per poi non fargli sapere più nulla, reagisce così (in una lettera del 1979 al suo traduttore in tedesco e agente Carl Weissner): «Mi sa che si erano fatti l’idea che fossi totalmente frocio da farmi spremere il sangue per la pubblicità senza chiedere un soldo». Che culo, buon vecchio Buk: morendo nel 1994, dopo aver smesso di mangiare carne rossa e aver ridotto vino e birra – su pressione della seconda moglie, la salutista Linda Beighle, che, ancora nel 1990, garantiva: «Rimarrà sano come un pesce per anni» – ti sei almeno risparmiato Cecchi Paone e Luxuria…