Louis-Ferdinand Bukowski

Valerio Alberto Menga
Charles Bukowski – Tutti dicevano che era un bastardo n. 11/2016
Louis-Ferdinand Bukowski

Parrebbe un’operazione difficile, quando si parla di Bukowski, scindere l’uomo – il personaggio – dallo scrittore. L’uno non esisterebbe senza l’altro. Ma nelle righe che seguiranno è proprio questa l’impresa che si vuole tentare. C’è, infatti, chi apprezza Bukowski come scrittore ma non come uomo, e chi invece preferisce il personaggio alla sua penna. È tra i secondi che chi scrive preferisce schierarsi. Il celebre scrittore americano nasce ad Andernach, in Germania, nel 1920, sotto il nome di Heinrich Karl Bukowski, che diventerà Charles una volta arrivato negli States, all’età di soli due anni. Essere un tedesco in America, in quegli anni, era cosa difficile. La ferita della Grande Guerra era ancora aperta. Il suo nome e l’abbigliamento europeo con cui i genitori lo vestivano non lo aiutarono di certo ad integrarsi tra i ragazzi americani. Ma «il dolce odio dei compagni di classe» (1), insieme alla brutalità del padre e al menefreghismo di sua madre, sono ingredienti imprescindibili per comprendere le sue opere. Opere che molto devono alle sofferenze subite dallo scrittore americano nei primi anni di vita. Il suo passato spiega il cinismo insito nel suo stile e nelle sue affermazioni sferzanti sul mondo, sulla vita e sulla morte; sull’uomo, sulla donna e sulla società intera. «Guardavo la gente da lontano, come a teatro. Solo che loro erano gli attori e io il pubblico, un pubblico di una sola persona.»(2) In queste righe, Bukowski dipinge bene la finestra datagli dalla vita per affacciarsi sul mondo.

La violenta forma di acne vulgaris che lo colpì in giovane età lo rese un reietto, un emarginato sociale che attirava a sé solo altri emarginati. «Era un uomo brutto, con la faccia piena di cicatrici, ma interessante, a guardarlo bene… begli occhi, stile, coraggio e quella sua fiera solitudine.»(3) Questo il ritratto che Bukowski fece del barone Von Himmlen, una delle sue prime passioni tedesche. Ma è anche un suo possibile autoritratto. La malattia della pelle lo invecchiava notevolmente, facendo sì che – ancora adolescente – gli servissero da bere nei bar. L’alcol è la sua prima via di fuga… fuga dalla vita, dalla realtà, dalle botte del padre.

La vita fu per lui una sofferenza sin dall’infanzia. E fu questo dolore che volle raccontare nelle sue opere. Troverà rifugio nell’alcol, nei libri e nella musica. A suo dire, la biblioteca era la sua sola casa. E sarà Bach, con la sua musica, a rendergli l’esistenza più sopportabile.

Contrariamente a quanto la sua fama possa far pensare, i suoi gusti musicali e letterari erano decisamente raffinati. Ebbe una particolare predilezione per i romantici tedeschi, come Brahms, Bach, Mahler, Beethoven e Wagner. Tra i suoi scrittori e poeti favoriti troviamo Knut Hamsun, Louis-Ferdinand Céline, Fëdor Dostoevskij, D. H. Lawrence, J. D. Salinger, John Fante, Ernest Hemingway, T. S. Eliot ed Ezra Pound. Le sue letture filosofiche non furono da meno. Importanti per la sua formazione furono Nietzsche e Schopenhauer, «un paio di tedeschi dall’animo amaro»(4) capaci di tenerlo un po’ allegro.

Fu prosatore, ma per mere necessità di mercato. I romanzi vendono da sempre più delle poesie, e gli editori lo sanno. Ma Bukowski fu essenzialmente un poeta. Un poeta particolare, che non amava la maggior parte dei suoi colleghi. Li trovava pedanti, noiosi, banali e con una totale assenza di ritmo. Ed è proprio alla poesia che il ritmo deve affidarsi maggiormente, poiché «ha uno stile più immediato, più dolce, più ritmico. Perché scrivere un romanzo quando puoi dirlo in dieci righe?»(5).

Hank fu un uomo e uno scrittore antisistema, che si mantenne sempre lontano dalla politica, a cui preferì cavalli, puttane, scazzottate e sbronze. Più che a romanzieri e filosofi, è a queste esperienze che disse di dovere la propria formazione. Volle raccontare la vita – quella vera, quella brutta, quella amara – di una certa parte della società, dimenticata dalla letteratura ufficiale. Fu un uomo contro: contro la politica, contro la retorica patriottarda, contro la comoda vita borghese… A volte, era la sua natura a dettarglielo. Altre, la semplice voglia di creare scandalo. Odiava Topolino, Disneyland e Hollywood, tutto ciò che gli suonava come falsamente buono e bello: «Mi piaceva sentirmi cattivo. Chiunque poteva essere buono, non ci voleva niente, cercare di essere buono era una cosa che mi dava la nausea»(6).

In lui vi era una certa vocazione alla gogna, uno spirito ribelle con la voglia di raccontare il marcio del mondo. Tutte cose che si ritrovano in un altro grande autore maledetto, per cui Hank ebbe una particolare dedizione. Stiamo parlando di Louis-Ferdinand Céline, lo scrittore francese considerato tra i maggiori del Novecento, autore del grande Viaggio al termine della notte. Queste le impressioni che il capolavoro céliniano suscitò in lui, dopo la prima lettura: «Mi procurai il “Viaggio” di Céline e lo lessi d’un fiato sdraiato sul letto a mangiare crackers, andai avanti mangiando crackers e leggendo, leggendo, ridendo ad alta voce, pensando: finalmente ho incontrato uno che scrive meglio di me. finii il libro e mi scolai litri d’acqua. dentro la pancia i crackers mi si gonfiarono e mi venne il peggiore mal di stomaco del cazzo di tutta la mia vita. vivevo con la mia prima moglie, lei lavorava nell’ufficio dello sceriffo di Los Angeles e rientrando a casa mi ritrovò piegato in due che gemevo: – ehi, che ti è successo? – Ho appena letto il più grande scrittore del mondo! – ma non dicevi di essere tu il più grande? – Sono il secondo, baby…»(7).

Chi scrive non si sorprese mica troppo quando, nello sfogliare il saggio di Roberto Alfatti Appetiti Tutti dicono che sono un bastardo, curiosando nell’indice dei nomi, poté constatare che quello di Céline veniva citato ben venti volte – secondo solo ad Ernest Hemingway, nominato quattro volte di più. Così come non stupì sapere che, per lo scrittore e cantante Vinicio Capossela, Céline e Bukowski erano, a pari merito, i maggiori ispiratori della sua musica e dei suo romanzi. Ascoltando poi la canzone Bardamu, oltre al palese riferimento al personaggio céliniano del Voyage, nei versi in cui Capossela grida di volere una «notte senza luna» e in cui canta «niente canzoni d’amore» non si possono non notare chiari riferimenti allo scrittore americano, che intitolò una raccolta delle sue poesie con l’ultimo verso riportato. È forse frutto del caso? Non lo crediamo affatto. L’accostamento dello scrittore americano a quello francese viene quasi naturale.

Tra i due sono infatti riscontrabili più analogie che differenze. Perché Bukowski, come Céline, ha sempre raccontato nelle sue opere la vera faccia della vita, quella che sa di bruciato e puzza di rancido. Come Céline, ha intrapreso il suo viaggio al termine della notte tra quartieri squallidi, donne da marciapiede, bar, officine e strade puzzolenti… Scrisse a tal proposito: «Non veniva detto quasi nulla delle vite sprecate della maggior parte della gente, della tristezza nera generale, della pazzia, delle risate filtrate dal dolore. La maggior parte degli scrittori descriveva le esperienze di vita della classe medio-alta»(8). Come l’autore del Voyage, ha letteralmente vagabondato per le strade, per un certo periodo della sua vita, vivendo in prima persona la condizione di emarginato sociale. Ed è proprio questa nera realtà che ha voluto far emergere nei suoi romanzi, nei suoi racconti e nelle sue poesie.

Entrambi scrissero per campare, per pagarsi l’affitto. Ma la scrittura non fu la loro professione principale. Céline fu il medico dei poveri, Bukowski un po’ tutto. Fece ogni mestiere che gli capitò a tiro, anche se per diversi anni lavorò come impiegato delle Poste, arrivando spesso in ritardo o sbronzo, fino a farsi licenziare. Non amava la routine e il posto fisso. E ricondusse quest’attitudine al suo maestro indiretto: «Leggendo Céline si consolidò il mio incondizionato rifiuto per ogni forma di lavoro regolamentato»(9). Le esperienze lavorative – ed esistenziali – appena accennate vennero riportate dai due autori nei loro primi romanzi, rispettivamente Post Office e Viaggio al termine della notte. Opere largamente e dichiaratamente autobiografiche, che raccontano una vita dura, figlia di un’infanzia difficile e un padre violento. Le vite familiari e le infanzie martoriate vennero narrate in Panino al prosciutto, per il primo, e Morte a credito, per il secondo.

Gran bevitore l’uno, astemio l’altro, entrambi viaggiarono molto. Viaggiare piacque molto a Céline e poco a Bukowski. Anche lui, come il suo idolo europeo, fu spesso in viaggio, sempre fuori posto, in fuga dalla vita e da se stesso. L’uno e l’altro, inoltre, utilizzarono un alter ego come personaggio principale dei loro romanzi. Henry Chinaski è Bukowski e Ferdinand Bardamu è Céline. Attraverso queste maschere descrissero la miserabilità dell’uomo, l’orrore dell’umanità che nessuno ha mai voluto raccontare. La vita è delusione e fatica per Céline. Ma vale anche per Buk. Entrambi, inoltre, non firmarono i loro libri con i rispettivi nomi di battesimo. Il vero nome di Bukowski è Heinrich Karl ma preferirà farsi chiamare Charles “Hank” Bukowski. Mentre il nome di Céline è Louis Ferdinand Auguste Destouches; Céline era il nome di battesimo della nonna, cui teneva moltissimo. Anche le esperienze professionali hanno accomunato i due per un certo periodo della loro vita: sia uno che l’altro hanno lavorato in fabbrica, gomito a gomito con gli operai, a differenza di quei letterati tanto in voga tra la sinistra operaista che in una fabbrica mai misero piede.

Buk ammirava Céline soprattutto per il suo coraggio. Ne faceva una questione di stile. Anche se per il vecchio Hank lo stile non era tutto per uno scrittore: «Lo stile è uno strumento utile per dire quello che hai da dire, ma quando non hai più niente da dire lo stile è un cazzo moscio di fronte alla mirabilissima fica dell’universo»(10). E, dato che di stile si parla, ci pare doveroso spendere qualche parola in merito. Sia l’uno che l’altro hanno utilizzato nei loro romanzi lo slang delle rispettive lingue, per raccontare la vita col gergo della strada. Hanno voluto trasporre un certo linguaggio parlato in forma scritta, scombinando alcune regole della grammatica e della punteggiatura, facendone un uso più libero, seppur in maniera molto differente. Se il poeta John William Corrington parlò di Bukowski come di una «voce parlata inchiodata dalla carta»(11), capace di trasportare nei suoi libri ciò che la realtà gli suggeriva, Céline disse in merito che «il linguaggio parlato non passa attraverso lo scritto e questo mi scoccia, ecco»(12). Mentre Céline mescola un linguaggio alto con l’argot francese, utilizzando iperboli ed esclamazioni, ora volgari, ora dolcissime, Bukowski fa invece uso di un linguaggio semplice, pieno di volute ripetizioni. Periodi brevi e concisi, nessuna frase costruita in maniera particolarmente complessa. Il suo realismo sporco – corrente letteraria cui appartiene anche J. D. Salinger – è costituito da frasi semplici, se non banali, che lasciano spazio al contesto, riducendo al minimo le descrizioni.

C’è un elemento, tuttavia, ad accomunare nuovamente i due. Se Céline definiva musica la sua scrittura, Bukowski, sulla stessa onda, diceva «vado a suonare il piano» quando si apprestava a scrivere. Ma Bukowski è un poeta, Céline no, almeno tecnicamente, anche se è innegabile la poesia incastonata tra le righe dei romanzi dell’autore del Voyage, non certo inferiore a quella di Bukowski. Anche lui, come Céline, giocò con la punteggiatura, stravolgendo nella prosa le più elementari regole grammaticali e non rispettando quasi alcuna struttura solida nelle sue poesie: «questa è la via della semplicità senza fronzoli, e del dialogo realistico. Questo è il modo in cui lo si dovrebbe fare»(13).

In America è la sua fama di poeta maledetto ad attirare il pubblico. L’Europa, invece, è tutta un’altra cosa. E Bukowski lo sapeva bene: «Credo che l’Europa sia un paio di secoli in anticipo sugli Stati Uniti. Credo che la gente sia più percettiva, sappia di più, credo che la cultura sia stata lì più a lungo… afferrano ciò che è reale più in fretta di come fanno gli americani» confidò a Fernanda Pivano nella famosa intervista(14). Bukowski dovette il proprio successo soprattutto al pubblico europeo, che trovò più competente di quello americano. Raccontò, infatti, in un’occasione, come in Europa il pubblico gli portasse i suoi libri da autografare, mentre in America si trovò quasi sempre davanti a tovagliolini di carta su cui apporre la propria firma tra i tavolini di un bar. Forse in patria era visto più come un personaggio da talk show che come scrittore. Ma, come ha giustamente notato Roberto Alfatti Appetiti, «Bukowski è un americano. Un americano di origini tedesche. Di origini tedesche mai rinnegate»(15). Ecco la vera grande differenza tra i due. Hank è americano, Céline europeo.

La visione della vita di entrambi è a dir poco pessimista. Entrambi hanno la Morte come musa ispiratrice – “la signora Morte” rievocata con Céline da Bukowski in un passo del suo ultimo romanzo, Pulp. Significativi per comprendere la visione del mondo di entrambi gli scrittori rimangono il secondo romanzo dell’autore francese, Morte a credito, e la poesia apocalittica Born into this del poeta americano: due dialoghi con la morte. Solo il cinismo ed il sarcasmo possono render loro la vita più sopportabile. Scrive Alfatti Appetiti: «I figuranti della sua giostra, in bilico tra miseria, assurdità e follia, non hanno rete di protezione e neanche Bukowski ne ha. […] Esibisce con noncuranza difetti e debolezze, ostenta incoerenze e crudeltà, […] ripara la propria umanità dietro a un disincanto camuffato da cinismo»(16). Ai loro occhi, la notte è una sorta di coperta sul mondo, che cela agli uomini il volto più nero della vita. Una coltre scura atta a coprirne le pudenda, a nasconderne le viscere.

Oltre a uno smisurato amore per i gatti, che preferivano di gran lunga alle persone(17), entrambi nutrivano una spiccata predilezione per le gambe femminili. Costante è nelle opere di Bukowski un erotismo sfrenato ed esplicito, volutamente inelegante. Quanto alla figura della donna, poi, Bukowski disse di dovere molto alla figlia Marina, che gli fece vedere il mondo con occhi nuovi, e scrisse un libro intitolato, appunto, Donne, che affronta tutti gli argomenti sul tema. Céline, non da meno, dedicò il suo primo romanzo ad Elizabeth Craig e un intero capitolo del Voyage a Molly, la puttana dal cuore d’oro(18).

Il poeta americano, a differenza di quello francese, ha avuto fortuna come scrittore mentre era in vita. Céline no. Si fece anni di carcere per collaborazionismo e poté rientrare in patria solo in seguito al sequestro dei suoi beni, presenti e futuri. Ma l’errore che il Dottor Destouches commise agli occhi del suo ammiratore americano fu quello di compromettersi con la politica, la simpatia per la Repubblica di Vichy. E ne pagò interamente il prezzo(19). Ripensando a maestri come Pound, Hamsun e Céline – grandi scrittori lasciatisi intrappolare dalla politica – il poeta americano scrisse: «uomini così grandi / castratisi da soli / quasi non potessero sopportare / la loro somma fortuna / e ritirarsi in una notte / senza luna / prima che li avvolgesse il buio»(20). Non volle ripetere il loro errore, imparando dalla Storia. Dalla politica si tenne sempre alla larga.

Bukowski non dimenticò mai di ricordare e omaggiare Céline, l’autore che, insieme a Hemingway, fu la sua principale fonte di ispirazione. L’ombra del grande scrittore europeo incombeva su di lui, tenendogli compagnia. Si legge infatti nella poesia-omaggio intitolata, non a caso, Viaggio al termine: «Céline mi sorveglia mentre bevo scrivo ascolto musica e fumo sigari insieme ce la spassiamo mentre il resto della gente gioca a bowling, dorme, guarda la tv, discute, scopa, mangia, fa un mucchio di stupidaggini e via dicendo»(21). Quando arrivò nella patria del Dottor Destouches, nella capitale, ecco cosa scrisse, nella poesia intitolata Parigi: «è stato come non andarci per niente. / Céline era morto. / […] Céline se n’era andato. / e Picasso stava morendo. / Parigi era il niente più assoluto»(22). L’ammirazione per il grande estinto mai tramontò, anche se Bukowski non mancò di muovergli alcune critiche. Disse che Céline perdette il suo humor dopo il Viaggio, «diventò acido e dimenticò come si fa a ridere»(23).

Eppure, lo ricorda ancora con affetto e amarezza nella poesia Céline con bastone e cerchio, del 1988: «sulla mia parete c’è una foto di / Céline, […] / è stremato dalla vita, / i cani l’hanno assalito / non ce l’ha fatta più / proprio più. / attraversa un boschetto, / questo dottore, / questo battitore di parole, / vuole solo morire, / non vuole altro, / e la sua foto è là sul muro / e lui è morto»(24).

Se dovessimo mettere entrambi sulla bilancia, personalmente è dalla parte dello scrittore europeo, più che di quello americano, che l’ago penderebbe. Ma questo Bukowski lo sapeva bene, non lo ha mai nascosto. E non per niente definì Céline, l’europeo, l’unico che scrivesse meglio di lui, «il più grande scrittore degli ultimi duemila anni»(25). Ma è anche vero che parve dimenticarsene quando fece affermare al suo alter ego Chinaski: «Io sono il più grande scrittore del ventesimo secolo! È così che li trattate i vostri geni immortali?»(26).

Più che lo scrivere, il vero compito che Bukowski si diede lo si può ritrovare in un monito che compare ne Il capitano è fuori a pranzo: «Sii il buffone delle Tenebre»(27). E questo fu.

 

  1. Lettera di Charles Bukowski a J. W. Corrington del 14 gennaio 1963, cit. in Roberto Alfatti Appetiti, Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski, Edizioni Bietti, Milano 2014, p. 41.
  2. Charles Bukowski, Panino al prosciutto, SugarCo, Milano 1982, p. 139.
  3. Ivi, p. 167.
  4. Charles Bukowski, Prefazione a John Fante, Chiedi alla polvere, cit. in Roberto Alfatti Appetiti, op. cit., p. 59.
  5. Charles Bukowski, Saggio sconnesso sulla poesia e sulla vita sanguinante scritto mentre sto bevendo una confezione da sei (grande), in Azzeccare i cavalli vincenti, Feltrinelli, Milano 2009, p. 54.
  6. Cit. in Roberto Alfatti Appetiti, op. cit., p. 186.
  7. Cit. in Andrea Lombardi, Bukowski, quello scrittore pazzo che correva da solo e arrivò secondo solo a Céline, articolo disponibile su lf-celine.blogspot.it.
  8. Charles Bukowski, Incontro il Maestro, in Azzeccare i cavalli vincenti, cit., p. 220.
  9. Cit. in Roberto Alfatti Appetiti, op. cit., p. 61.
  10. Lettera di Charles Bukowski a Douglas Blazek del febbraio-marzo 1965, cit. in ivi, p. 213.
  11. Cit. in ivi, p. 108.
  12. Louis-Ferdinand Céline, Polemiche. 1947-1961, Guanda, Parma 2010, p. 88.
  13. Charles Bukowski, Scrittori, in Niente canzoni d’amore, Guanda, Parma 2001, p. 157.
  14. Charles Bukowski, Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle, Feltrinelli, Milano 1982, p. 67.
  15. Roberto Alfatti Appetiti, op. cit., p. 269.
  16. Ivi, p. 334.
  17. Celebre è il gatto Bebert, compagno di avventure di molti romanzi dello scrittore francese.
  18. Il suo “amore per le cosce” è ora raccolto nel carteggio Lettere alle amiche (Adelphi, Milano 2016).
  19. A questo proposito, dobbiamo ricordare che entrambi hanno avuto fama di nazisti, con una differenza: Céline fu antisemita, Bukowski no. Disse a tal proposito: «Evitavo accuratamente ogni riferimento diretto a negri ed ebrei, che, poveretti, non mi avevano mai dato rogne. Tutte le rogne che avevo me le avevan date i bianchi ariani» (cit. in Roberto Alfatti Appetiti, op. cit., p. 199).
  20. Charles Bukowski, Fregàti, ne Il grande, Feltrinelli, Milano 2002, p. 247.
  21. Charles Bukowski, Viaggio al termine, ne La canzone dei folli, Feltrinelli, Milano 2001, p. 167.
  22. Charles Bukowski, Parigi, cit. in Roberto Alfatti Appetiti, op. cit., p. 273.
  23. Charles Bukowski, Taccuino di un vecchio sporcaccione. «L. A. Free Press», 22 febbraio – 1 marzo 1974, ora in Azzeccare i cavalli vincenti, cit., p. 160.
  24. Charles Bukowski, Céline con bastone e cerchio, cit. in Roberto Alfatti Appetiti, op. cit., p. 299.
  25. Cit. in ivi, p. 210.
  26. Charles Bukowski, Pazzo abbastanza, in Niente canzoni d’amore, cit., p. 247.
  27. Charles Bukowski, Il Capitano è fuori a pranzo e i marinai prendono il comando, Feltrinelli, Milano 2000, p. 26.

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