Lo scrittore per il cinema che il cinema non ha capito
Daniele Dell'OrcoNel suo romanzo Hollywood, Hollywood!, pubblicato nel 1989, Bukowski scrive: «Non era stato un periodo difficile, quello, era stato però un periodo vuoto e di attesa. Mentre scrivevo, mi tornarono in mente i personaggi di un certo bar. Rividi tutte le facce, i corpi, sentii le voci, le conversazioni»(1). Il periodo a cui fa riferimento è quello in cui è ambientato il film Barfly, del 1987, di cui il “vecchio sporcaccione” scrisse la sceneggiatura. Il film racconta un momento della vita di Bukowski quasi sconosciuto, quello della giovinezza, in cui lo scrittore passava le sue giornate a bere e ubriacarsi nei malfamati bar della periferia di Los Angeles. Quelle facce e quelle voci Buk le vide materialmente nella pellicola, quando il suo alter ego Henry Chinaski – interpretato da Mickey Rourke –, un omuncolo scapestrato perennemente in preda ai fumi del vino e dei forti alcolici che si diverte a fare a botte con il barista Eddie, tenta di prendersi una rivincita in una delle tante identiche serate trascorse dietro al bancone. Quattro o cinque beoni più in là vede Wanda, alcolista additata dai convenuti nel locale come “pazza”. Ovviamente è il suo tipo, ed Hank passa dietro i compagni di bevute e attacca bottone con quella che diventerà una delle sue tante amanti, tra malavita, moquette fatiscenti, bottiglie vuote e l’immancabile trait d’union: la disoccupazione. Durante la camminata felpata di Chinaski-Rourke verso Wanda, la camera, diretta dal francese Barbet Schroeder, cooptato nella produzione da tale Francis Ford Coppola, indugia su un vecchietto parecchio interessato al gesto di Chinaski. È proprio lui, Charles, quello vero, in un cameo che è perfetta sintesi delle due righe tratte da Hollywood, Hollywood!. Bukowski si guarda allo specchio. O, come sarebbe più corretto dire, si ammira.
La sceneggiatura di Barfly viene infatti scritta nel 1978 e, nella descrizione che Bukowski compone oltre dieci anni dopo in quel romanzo, si evidenzia una personalità tutta nuova, pacata, quasi innaturale. «Scrivere una sceneggiatura mi sembrava la sciocchezza finale. D’altra parte, uomini migliori di me si erano ritrovati incastrati in un’impresa così ridicola» puntualizza Hank(2), e appunto per questo sullo schermo decide di portare il se stesso di cui più sente la mancanza, anziché quello politically correct. Scomparso l’uomo in balia degli eventi, incapace di organizzare la propria vita, sempre ubriaco, irrispettoso e infingardo, Bukowski si riscopre un pacato sessantenne, ricco, famoso e in pace con se stesso. Beve ancora, ma accompagna l’alcol alle vitamine che gli propina la moglie. Conduce una vita sessuale tutt’altro che frenetica. La casa, poi, con una Bmw nera nel vialetto e i cinque gatti che accudisce con devozione, contribuisce a far scomparire l’alone di “poeta maledetto”. Ma ciò che è in gabbia, quell’alter ego che lo definisce di più, è anche quello che Hank vorrebbe liberare – se non nella vita quotidiana, quantomeno al cinema.
A tale scopo, pochi altri avrebbero potuto far meglio di Rourke, che sa esattamente come indossare i panni del protagonista: lercio, claudicante, capelli unti, viso segnato dalle botte e dal vino, ghigno beffardo, voce rauca e demoniaca. È uno che riesce ad addentrarsi nello squallore dei bassifondi losangelini e far breccia, con estrema disinvoltura, nella sporcizia antiborghese e anticapitalista dell’America sotterranea. Con la solita ironia, l’intento del Bukowski sceneggiatore è quello non già di denunciare le ingiustizie e le contraddizioni della società yankee, bensì di demistificarle. La lucida critica (poiché non compromessa dall’alcol) al mondo dorato di Hollywood è mostrata grazie al perfetto ritratto ambientale che fa da contraltare alle copertine patinate. Sebbene sia idea condivisa da molti quella di un Bukowski in lotta contro il sistema, bastian contrario, filo-nazista pur di dare contro allo stereotipo ipocrita dell’american dream(3), in realtà il suo modo di essere non è puramente accusatorio. Non conduce una battaglia sociale, né punta i riflettori sui loschi bar di periferia allo scopo di ritrarre una sub-cultura da redimere: lo fa per scontornarsi. Bukowski ha bisogno di quel sistema ingiusto e disparitario che è l’America per far acquisire valore al suo personaggio, e quindi alla sua natura. L’aria malsana dei bassifondi, l’ambiente infetto e trasandato e il kerouachiano vivere alla giornata rendono possibile la sua stessa esistenza. È il mondo fuori dai bar a essere trattato con disprezzo, non viceversa.
Il ruolo del solitario ubriacone trasformatosi in tutto ciò che detesta, uno sceneggiatore nell’aristocratica Hollywood, Buk non lo accetta, e, pur trasmettendo al popolino pro blockbuster perversione, lussuria, degrado e decadentismo filo-crisi, è entrato nel verde altolocato della città degli angeli a modo suo, senza rinnegare gli “alcolici” trascorsi del dirty dandy.
Il film, tuttavia, non è un capolavoro (anche a causa delle difficoltà del regista nel reperire fondi in fase di pre-produzione) e, quando viene presentato al Festival di Cannes quasi dieci anni dopo la stesura della sceneggiatura, viene accolto con molta perplessità, sia dalla critica che dal pubblico.
C’era comunque già stato un precedente. Il cinema scopre Charles Bukowski sul finire degli anni Settanta, quando il regista italiano Marco Ferreri decide di realizzare un film ispirato ad alcuni racconti di Storie di ordinaria follia. A quel tempo Bukowski era già uno scrittore affermato, conosciuto non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, dove le sue opere avevano contribuito a spazzare via l’immagine falsa e ridondante di un’America adagiata sul suo florido benessere. Non aveva bisogno, quindi, di alimentare la propria fama attraverso un film. Nonostante tutto, comunque, non ostacolò il progetto, anzi. Di solito, gli scrittori pretendono di partecipare come supervisori alla fase creativa del film, per non vedere manipolato il proprio testo. Bukowski, invece, non si preoccupa minimamente delle intenzioni di Ferreri: semplicemente, se ne frega. Lascia che il regista scelga liberamente i racconti cui attingere, scriva la sceneggiatura a modo suo e decida quali attori siano più attinenti ai vari ruoli. Una sola volta lo incontra: a riprese finite.
Il disinteresse di Buk macchia la pellicola di un peccato originale: il tentativo di rendere filmiche la vita e gli scritti di Charles senza la sua supervisione. Il lungometraggio cerca di condensare in novanta minuti ciò che Bukowski è stato e quel che ha scritto. L’unica cosa in cui riesce è narrare un modesto spezzone della vita e del pensiero del protagonista, cadendo tuttavia nell’abisso della banalizzazione. Ferreri decide di non nascondere l’eccesso. Sesso e alcol sono sempre componenti essenziali (vi sono nove scene di sesso nel film), ma vengono inseriti all’interno di una cornice narrativa che mira a esaltare sentimenti più genuini e condivisibili, come amore, comprensione e solidarietà. Il regista cerca così di “umanizzare” la bestia che è in Buk, creando un reticolo di valori che possa giustificare ogni gesto sconsiderato del suo personaggio.
Charles Serking, l’avatar del vero Charles, è sì sfaccendato, disadattato, povero, solo, ubriacone e sociopatico, ma viene ridotto a un blando poetucolo dal bicchiere facile, calato in un dramma amoroso, sdolcinato e commovente. Manca la verve del vero Charles, quell’alone di sporcizia esteriore e interiore che nel film si riduce a un appartamento sciatto e a pareti incrostate. Il Buk ferreriano finisce con l’essere l’emblema dell’uomo moderno, alla ricerca di una via d’uscita dalla crisi del presente.
Il vecchio Hank guardò al cinema, sbronzo, Storie di ordinaria follia. Sua moglie Linda Lee Beighle ricorda come, appena tornarono le luci in sala, quando tutto il pubblico era ancora a sedere, Bukowski si alzò in piedi e, barcollando, sbraitò commenti poco lusinghieri.
Triste, poi, il fatto che i due lavori col maggior potenziale siano rimasti ai margini del tentativo di cinematografare Buk. Tra Storie di ordinaria follia e Barfly un giovane regista tedesco, Patrick Roth, realizza per la televisione un breve film dal titolo The killers, ispirato a un racconto della raccolta A sud di nessun nord. Del film – il primo di un progetto che avrebbe dovuto portare sul piccolo schermo almeno sei-sette racconti di Bukowski – si ricorda la presenza dello scrittore nel cast dove, a differenza di Barfly, non si limita a una fugace comparsata ma recita anche una battuta. Il film è caduto nell’oblio e la medesima sorte è toccata, sul finire degli anni Ottanta, a Crazy Love, opera prima del giovane regista belga Dominique Deruddere, che riprende tre racconti contenuti nel libro L’amore è come un cane che viene dall’inferno.
Ritenuta dallo stesso Bukowski l’unica trasposizione cinematografica capace di cogliere il senso del suo universo narrativo, è la storia di un uomo attraverso tre momenti che costituiscono altrettante svolte sessuali: l’arrivo della pubertà, la fine dell’adolescenza e la crisi dell’età matura. Tre torride notti bukowskiane nella vita di un uomo, Harry Voss, alla ricerca dell’amore, sintetizzato da un bacio appassionato tra un principe e una principessa. Suo padre è un eroe che ha rapito sua madre e l’ha sposata sul picco di una montagna solitaria. Anche lui, più tardi, farà lo stesso. Ma Harry impara presto che le persone sono capaci di tutto – ma proprio tutto – per conquistare la loro giusta fetta d’amore.
Presentato nel 1987, Crazy Love non ottiene grande fortuna, a causa di problemi di distribuzione (ne esiste una versione con sottotitoli in spagnolo su YouTube); dopo quell’esperienza, il mondo del cinema si dimentica di Bukowski per ben diciotto anni. Fin quando Bent Hamer, regista norvegese, decide di riesumare lo scrittore maledetto portandolo sul grande schermo in Factotum, che viene girato nel 2005 ed esce nelle sale italiane nella primavera del 2006. A differenza delle Storie, del Taccuino e delle altre collezioni di racconti, dominate dalla perversione carnale, da avvenenti e disponibili femmes fatales di strada e dall’immancabile fiume alcolico di accompagnamento, Factotum illustra il (fallimentare) curriculum professionale-impiegatizio del vecchio Hank. Scrittore in sordina, Chinaski passa da un lavoro all’altro, da una catena di montaggio all’altra, permanendovi ogni volta pochi giorni, addirittura poche ore. Il tutto è condito da una vita amorosa ben poco appagante, qualche donnaccia disponibile e una compagna, Jan, con la quale condividerà più dolori che gioie, pur stabilendo un rapporto inspiegabilmente duraturo.
Interpretato da un giovane e spigliato Matt Dillon (che sdogana la tradizione del Bukowski vecchio, attempato ed esteticamente in declino), è la quasi perfetta trasposizione su pellicola dell’analogo libresco, l’uomo sommerso da un’estenuante creatività interiore che gli impedisce, quasi a proteggerlo, di piegarsi all’ignominia della disumanizzazione industriale, con l’alcol a rappresentare l’unico escamotage dal fasullo good way of life tanto promesso e decantato dal capitalismo. La chiave dell’opera è proprio l’inutilità non solo di un impiego, ma di qualsiasi attività che rischi di reprimere la libertà individuale. Il cambiamento d’innumerevoli lavori nel film, dunque, è dettato dal senso di futilità. Per Chinaski lo stipendio ha solo tre scopi: farlo sopravvivere, permettergli di scrivere e, non ultimo, di continuare a bere. In quest’avversione al sistema, la ribellione non è contemplata. E se la rivolta non è una prospettiva plausibile e percorribile, resta un’unica soluzione: vivere ai margini, in quella zona d’ombra nella quale si rifugiano i reietti, gli ultimi della classe, gli esclusi.
Il viaggio che il protagonista di Factotum compie alla scoperta di un’America povera, meschina, ipocrita e suicida, che rende la vita quotidiana una prigione senza senso, si basa su un semplice itinerario carico di senso metaforico. Se la mentalità a stelle e strisce coincide da sempre con la ricerca di una libertà senza meta, con la strada che porta verso ovest, il Chinaski di Factotum intraprende il viaggio al contrario: da ovest a est. L’idea di fondo della pellicola merita così tanto che le incongruenze tra film e libro (ambientato ai giorni nostri e non nella prima metà degli anni Quaranta, tra Minneapolis e St. Paul, luoghi sconosciuti allo scrittore) non snaturano il senso profondo del ritratto-tributo.
Raccontando Bukowski, Factotum palesa il paradosso che spesso coinvolge i suoi stessi lettori. Il regista Hamer riprende i dialoghi dell’opera letteraria di Hank nel modo più fedele possibile, dimostrando come la sua scrittura si adatti perfettamente alla materia cinematografica. Proprio per questo, il film viene apprezzato per il suo valore estetico, pur restando inviso ai lettori di Bukowski. D’altronde, la sua produzione è annoverabile fra i curriculum letterari che meglio si prestano a inflazioni e misinterpretazioni. Le opere del “vecchio sporcaccione”, impregnate del trittico sesso-alcol-poesia, radicate nell’anticonformismo più efferato e annaffiate di una dose di spirito dionisiaco, possono far gola sia agli amanti del noir pornografico-libidinoso-erotico di bassa caratura, sia a coloro che sognano un possibile ridimensionamento in chiave drammatico-teatrale-romantica dell’autore e della sua avventura con carta e penna. Entrambe interpretazioni riduttive e irrispettose del suo genio.
Non è un caso se le due rappresentazioni che più hanno “sfondato” tra il pubblico interessato sono le più trash, le più minimali e parziali. L’Harry Block portato sullo schermo da Woody Allen nel suo Harry a pezzi è uno di questi: uno scrittore che nella sua vita ha fatto di tutto e di più. Ha truffato persone, tradito le sue numerose mogli e persino usato stralci di vita altrui per i suoi bestseller. A un certo punto, nel solito contrappasso cinematografico, si trova solo: il suo amore lo ha lasciato per sposare un conoscente, è in ristrettezze economiche, ha per la prima volta il blocco dello scrittore, ma, soprattutto, la vecchia università che lo cacciò vuole onorarlo con una laurea ad honorem e lui non ha nessuno con cui andare a ritirare il premio.
Perfino più semplificato appare il protagonista delle serie televisiva Californication: assiduo bevitore, amante del sesso compulsivo e delle donne, depresso e talvolta carismatico, condivide con Bukowski il nomignolo “Hank”. Nell’undicesimo episodio della terza stagione (Andirivieni) c’è addirittura una scena in cui un tale, Richard Bates, subentra in un pranzo tra una serie di commensali donne, tutte “castigate” dall’Hank della fiction, che di cognome fa Moody – lo stesso scrittore che, già in una situazione di forte disagio, viene appellato da Bates come “Bukowski”.
Due stereotipi che contribuirebbero di certo a far aumentare un senso di odio e repulsione verso il grande (e piccolo) schermo, un’ostilità che il “vecchio bastardo” non ha mai nascosto. La stessa natura dei cinema, luogo del pop corn, del tempo sprecato e dell’impossibilità di bere un drink in pace, lo rende ridicolo agli occhi del vecchio Hank. La sua avversione verso quelle forme d’intrattenimento capaci di persuadere lo spettatore a evadere dalla vita reale e trovare un’effimera consolazione in un mondo di carta viene incarnata dal buio della sala. Lo spettatore proietta i suoi desideri repressi nell’altro e ha la sensazione che il mondo, nonostante tutto, non sia così malvagio. Peccato che poi si smascheri l’inganno: dopo i titoli di coda, ognuno si deve riappropriare delle proprie miserie.
Facile intuire, quindi, il motivo per cui luogo, modi, ritmi e convenzioni del cinema non si siano mai potuti abbinare a un solitario, disilluso, irrecuperabile personaggio, che, inebriato tanto dall’alcol quanto dalla cruda realtà, ha sempre considerato l’evasione come una sostanziale sconfitta del genere umano.
- Charles Bukowski, Hollywood, Hollywood!, Feltrinelli, Milano 1998, p. 73.
- Ivi, p. 10.
- Cfr. Roberto Alfatti Appetiti, Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski, Edizioni Bietti, Milano 2014, pp. 193-221.