I reading del vecchio Hank

Paolo Bianchi
Charles Bukowski – Tutti dicevano che era un bastardo n. 11/2016
I reading del vecchio Hank

Ascoltare e vedere una lettura pubblica di Charles Bukowski poteva essere un’esperienza elettrizzante o piena di frustrazione, a seconda dell’umore e del tasso di gigioneria dello scrittore americano. Il tasso di gigioneria s’incrementò, subì una vera e propria impennata nel corso del suo ultimo periodo di apparizioni, quando cioè non aveva bisogno di soldi né di ulteriore fama e poteva permettersi di essere non tanto se stesso, quanto la figurina che i media e la sua cerchia di estimatori gli avevano ormai cucito addosso. La sua ultima lettura, perlomeno quella documentata (pare che dopo non sia più apparso di fronte a una platea venuta apposta, pagando, ad ascoltarlo), è del 31 marzo 1980, allo Sweetwater Inn di Redondo Beach. Una sala non grandissima ma molto affollata, qualche centinaio di persone, soprattutto giovani dall’aria molto intellettuale e alternativa, da campus e arti liberali – un’atmosfera elettrizzata e la voglia di fare anche un po’ di casino, quasi che nel contrapporsi a lui i ragazzotti dall’aria pensosa potessero sperare di sentirsi liberi di sfogare qualche sentimento represso.

La verità è che Buk è andato lì sostanzialmente per prenderli per il culo. E per quasi un’ora e mezza ci riesce benissimo, rendendosi esasperante in ogni modo, regalando solo brevi guizzi di immaginazione e vis polemica.

Non è certo alla fine della carriera, visto che scriverà e produrrà ancora idee e il suo successo, anche commerciale, finirà per consolidarsi fuori dalla nicchia dei masticatori di poesia d’avanguardia. Ma sono i suoi toni lenti, inframmezzati da pause snervanti, e il suo fare tediato e strafottente a prevalere sulla scena; una scena peraltro scarna e persino squallida, un tavolino con un microfono, un paio di registratori a cassette, una bottiglia di vino che verrà più volte sostituita, a mano a mano che si scolerà un bicchiere dietro l’altro.

Arriva con una flemma annoiata, tra applausi e fischi di apprezzamento, impiega un’eternità a rimestare in una borsa a mano, da cui estrae alcuni fogli, si toglie la giacca, si soffia il naso, si siede con un sospiro.

«Sono venuto a rimettere Redondo Beach sulla carta geografica» proclama, più beffardo che sornione. Tira fuori una sigaretta, beve un sorso di vino. «C’è qualcosa che non va, motherfucker?» chiede a qualcuno del pubblico, che forse aveva accennato un gesto d’impazienza.

«Quello di stasera sarà un reading molto dignitoso» proclama, infine. «Non ci sarà un botta e risposta con il pubblico. Vi leggerò poesia dignitosa in modo dignitoso, perciò vedete di comportarvi da gentiluomini di cultura. Grazie.»

La presa per il culo inizia lì e continuerà, a fasi alterne, per tutto l’incontro. Si versa altro vino, lentamente.

«Sai che ho beccato un cavallo da settantatré dollari, sabato scorso?» chiede a non si sa chi. Comincia a parlare di quotazioni di cavalli: «Se ci metti due dollari pensi che qualunque altro sia migliore del tuo. Ma, forse, un giorno o l’altro imparerò».

Beve. «Tra poco inizio a leggere poesia» dichiara. «Tipo adesso.» Si accende una sigaretta. «Jam» dice, presumibilmente il titolo della poesia. Poi rutta due volte.

Alla fine, legge. Ma per pochi secondi, perché poi guarda l’orologio: «Sono qui da nove minuti. Voi da molto di più, no? Quindi non sono stanco come voi».

Legge. La gente ride e lo applaude.

Comincia a biascicare, parla di un tipo che «sapeva scrivere qualche riga, su e giù e di lato e a rovescio, lo stesso modo in cui alcuni di noi scopano. Naturalmente, molti non scopano per niente… A che brutto tipaccio ho dato la figa…» commenta, riferendosi non si sa bene se a qualche ragazza reale del pubblico (ma poi si scoprirà che anche sua moglie è lì, verso il fondo della sala, quindi è forse a lei che allude).

Cincischia con una sigaretta: «Questa non è droga. È una sigaretta indiana, arrotolata dai lebbrosi. Ma il lebbroso che ha arrotolato questa ha fatto un pessimo lavoro. Anche chi ha fabbricato questo accendino doveva essere un lebbroso». Legge ancora un po’. Con una lentezza irreale. Poi dice: «Se pensate che sia brutto io…».

Fa fuori un altro foglio, non sono molti quelli che ha portato con sé. «Questa è la fine della prima parte. Dopo torno, per un’altra mezz’ora. Nel frattempo, sarete intrattenuti da un gruppo di chitarristi che canta canzoni sul navigare, sui delfini, salvare gli indiani americani, aiutare la balena e niente energia nucleare.»

Guarda uno del pubblico e gli fa: «Se devi andare da qualche altra parte, va’ pure, ma non chiedere indietro i soldi perché li ho già presi… Mi hai fatto innervosire, cazzo!».

Ricomincia a leggere, ma s’interrompe subito. Arrivano le prime proteste.

«Decido io! Siete peggio di quelli di Vancouver, di New York e del Michigan… e quelli erano dei duri… Ma io qui sto facendo passare il tempo e intanto guadagno soldi e bevo. Voi avete scommesso sette dollari, io sono entrato gratis, bevo e me la prendo comoda… Gesù, sto per vomitare.»

A questo punto è chiaro che Buk cerca lo scontro frontale, ma ci vuole arrivare per gradi. È come se saggiasse la consistenza dei suoi interlocutori, esasperandone la pazienza. Il reading è diventato un non-reading. I pezzi di poesia, i versi strascicati qua e là sono gli intervalli del suo recital di cinico balordo che non vuole più avere a che fare direttamente col pubblico.

Riferendosi probabilmente alla questione degli ostaggi americani trattenuti in Iran, dice: «Preoccupatevi degli ostaggi… vorrei leggere poesia agli ostaggi… sono così preoccupato per loro ogni notte che non riesco neanche a farmi una sega». Poi fa il gesto della V di vittoria con le dita.

«Prendo settantatré dollari e ottanta centesimi per stare qui. Un mio autografo costa ventun dollari e settantasei centesimi.»

Il suo atteggiamento sta diventando oltraggioso: «È passata mezz’ora… sono a metà… è tutto perfettamente calcolato». Tossisce. «Vi piacerebbe vedermi morire, eh?»

La seconda parte dell’incontro, dopo un intervallo provvidenziale, è addirittura più provocatoria. «Scrivete ancora le vostre poesiole nel bagno della mamma…? Io sto per diventare ricco grazie alla vostra stupidità, voi che mi riconoscete come un grande poeta minore americano… Ma perché volete parole? Non siete neanche capaci di comunicare per strada senza una guida intelligente che vi dica che cosa fare… La lettura è finita, uscite dal corridoio e non rubate le macchine, tantomeno la mia…»

L’ultima lettura pubblica di Bukowski presenta sostanziali differenze rispetto a quelle di dieci anni prima, quando il poeta era semisconosciuto e si esponeva a un pubblico molto più limitato.

Pochi gli studenti che l’hanno ascoltato nella primavera del 1970 al Bellevue Community College, nello stato di Washington. Lui ha appena preso il primo aereo della sua vita, ha infilato quattro cose in una valigetta e ha lasciato in tutta fretta l’appartamentino scalcagnato a East Hollywood. In quell’occasione appare molto più concentrato, legge una poesia dietro l’altra, seduto su una sedia e senza neppure un piano d’appoggio. Non dice quasi niente, e quel poco che dice è per spiegare, quasi giustificandosi, il suo modo di affrontare argomenti scabrosi. Ha l’aria affaticata e dopo una ventina di minuti chiede di fare una piccola pausa. La lettura dura un’ora.

Solo due anni dopo appare più disinvolto in un’esibizione a San Francisco, dove esordisce con: «Volete sentire della poesia? Imploratemi!».

L’anno successivo tira un’aria ancora diversa, al City Lights di San Francisco. Il 14 settembre del 1973 il pubblico è folto e acclamante. E lui comincia con qualche battuta sul fatto di bere un po’ di birra e andarsene. Si sente che è già diventato un personaggio. C’è compiacimento nelle sue parole, qualche scambio di frasi beffarde con gli spettatori. La voce ogni tanto gli s’incrina. Si capisce che non è a suo agio.

Non a caso, smetterà di leggere in pubblico non appena avrà guadagnato abbastanza per poterne fare a meno. Eppure, nel corso di quei reading, il vecchio Hank ha regalato al pubblico autentiche massime.

Su John Fante. «Bandini. Dovreste leggere tutti un tipo che si chiama John Fante… Questo tipo è un cazzo di scrittore che scrive meglio di me… quasi meglio di me… Si chiama John Fante… Gli ho succhiato il cazzo e lui a me… È senza una gamba e cieco, e di lui non è rimasto molto, ma ha più anima e umanità di tutti voi. È il mio amico, gli voglio bene, è una persona magica… Tutti dovrebbero leggere John Fante… Ask the Dust, Wait until Spring, Bandini, Dago Red, ognuno è un modello e quest’uomo è fratello dei grandi.»

Sulla sua generazione. «La cosa strana della gente oggi è che quelli nati negli anni Trenta e Quaranta erano davvero tosti… Adesso se uno deve cambiare una ruota non lo sa fare, idem per il motore… Quando ero piccolo, tutti sapevano fare tutto… Adesso la gente non sa fare quello che cerca di fare. Sta succedendo qualcosa di tremendo.»

Sui reading. «Servire bevande mentre sono qui a mettere a nudo la mia anima di artista. Che cosa degradante! […] Quando faccio un reading cambio personaggio, divento attore; mentre guardo la gente sono solo una persona, ma quando salgo sul palco qualcosa fa click e divento una macchina da reading di poesia. Cammino in modo un po’ diverso, giro la testa in modo un po’ diverso, tengo la sigaretta in modo un po’ diverso. C’è un uomo di spettacolo in me, che viene fuori in questo modo, non posso farci niente.»

Sulla fama. «Penso che essere una celebrità sia una cosa brutta per una persona, non puoi mai rilassarti davvero. Naturalmente, è una sfida avere fama e restare una persona normale, riuscire ancora a scrivere. Vedremo se riuscirò a gestire la cosa. I miei libri sono evidentemente buoni, ma voglio continuare e restare pazzo e terrorizzato e sentirmi bene e sentirmi male come è sempre stato, voglio rimanere me stesso e penso che ci riuscirò, penso che gli dèi mi guardino con benevolenza. […] Se vi tirassi in faccia questo bicchiere di vino, forse venderei diecimila copie in più, ma non voglio farlo, scusate.»

Sulle donne. «Ho pianto a letto, le lacrime mi bagnavano la faccia, perché ho invitato due donne per il giorno del Ringraziamento e non sapevo con quale andare. Ci sono momenti della vita in cui divento un perfetto imbecille, e così mi sentivo quel giorno. Non si trattava solo di saltare in un letto, scopare, uscire dal letto e dire mi dispiace, sarebbe bello far finta di essere un duro, ma non lo sono. […] L’amore è un cane che viene dall’inferno, tutto qui. Ha la sua agonia e porta la sua agonia. […] Non c’è vittoria nel consumare un altro essere umano e poi buttarlo, tipo starci una notte e poi via… non sono mai stato a letto con una donna con cui non sentissi una certa affinità. Per esempio, se vedevo le sue scarpe in un angolo, sentivo una relazione fra lei, le sue scarpe e me.»

Sul padre. «Era un sadico totale, gli piaceva menare la gente e io ero il più piccolo, perciò mi picchiava, specialmente con la cinghia per affilare la lama del rasoio; la piegava in due e mi picchiava ripetutamente; purtroppo facevo la parte della vittima, non potevo farci nulla, era più grosso di me. Mi picchiava, con ogni pretesto… Ma non lo odiavo. Ho un problema: non odio la gente. Non conosco l’odio, ho solo meccanismi di fuga. Ogni volta che qualcuno mi mette in discussione, ho solo voglia di andarmene. Mio padre, però, esagerava, e una volta l’ho colpito e buttato giù. Non proprio un ko, ma è caduto all’indietro sul divano. Ho aspettato che si rialzasse, ma non si rialzava. Ero avvilito perché pensavo: Quest’uomo dev’essere un vigliacco e io ho il suo stesso sangue, davvero una brutta eredità. Non ho pianto alla sua morte. Non ho nemmeno esultato, ma dopo che è morto mi sono sentito una persona diversa, come liberato. Ho cominciato a sentirmi più felice, ridevo di più, mi sentivo meglio. Forse avevo desiderato che morisse. Una volta ho scritto: Un padre è un padrone anche quando non c’è più. Ma finiremo tutti e due all’inferno, lo ritroverò lì.»

Essere uno scrittore. «È la sensazione di afferrare le parole e metterle giù. Non mi fa sentire solo, e io amo stare solo… la miglior cosa al mondo è evitare gli altri, è fantastico. Non c’è dolore, né lotta. È bello, è facile, è meraviglioso. Non c’è sofferenza nello scrivere, è tutto buono. È facile, come bere, continuare a bere, diventare sempre più ubriachi.»

Sull’America. «Le strade sono piene di topi e scarafaggi che brulicano, di disoccupati e invalidi, e intanto noi celebriamo la grandezza dell’America. Ma non puoi celebrare la grandezza di una nazione se gli occhi ti cadono su quei poveri disgraziati malati. Sono stato alla mensa dei poveri, conosco il suo gusto amaro. Devi stare in fila per quarantacinque minuti, poi ti danno una scodella di minestra acquosa e devi stare a sentire qualcuno che ti parla di Dio. No, l’America non è un granché. È ricca per i ricchi. Se la ridono in posti di lusso, hanno anelli di diamanti, auto nuove, ma le strade brulicano di matti e affamati… Anch’io ho l’allarme in casa, perché certo non mi riconoscono come un benefattore. In America una casa su quattro viene svaligiata, circola droga, tutta la nazione è spaventata.»

Sugli esseri umani. «Più sono lontano dalla razza umana e meglio mi sento. Anche se scrivo sulla razza umana, più sono lontano e meglio sto, due pollici va bene, due miglia va bene, duemila miglia è fantastico, finché riesco a mangiare. Mi nutrono perché io nutro loro, ma non mi piace averli accanto: se, nella folla, qualcuno mi passa vicino e mi tocca con un gomito, reagisco. Non mi piacciono gli esseri umani, non mi piacciono le loro teste, non mi piacciono le loro facce, non mi piacciono i loro piedi, le loro conversazioni, le loro acconciature, non mi piacciono le loro automobili, i loro cani e le loro rose.»

Sulla morte. «Non ne ho paura, di fatto mi sento quasi bene all’avvicinarsi della morte. Se vivi molti anni, le cose tendono a ripetersi, tu continui a dire sempre le stesse cose, alla stessa azione corrisponde la stessa reazione, si diventa un po’ stanchi, finché, quando la morte arriva, dici: Ok, baby, è tempo, va bene. Ne ho pochissima paura, di fatto le do quasi il benvenuto.»

Su Malcolm Lowry. «L’ho letto e mi sono annoiato a morte. Come in tutti gli scrittori, non c’è sostanza, non c’è rapidità nelle sue righe. Non c’è luce, non c’è la luce del sole… Quando scrivi, le tue parole devono andare così: bim! bim! bim!… bim! bim! bim!… bim! bim! bim!… bim! bim! bim! [fa un gesto con la mano ogni tre bim, come se andasse a capo]. Ogni riga dev’essere piena di un delizioso gusto succoso, dev’essere piena di potenza, deve farti venire il piacere di girare pagina… bim! bim! bim!… Quella di questi tipi è invece bla, bla, bla… da, da, daC’era una sedia sul portico, le mosche camminavano qua e là… Troppo sciatto. Costruiscono la scena in vista di un’emozione grandiosa e, quando ci arrivano, la grande emozione non c’è. Ma siamo nell’era atomica, ogni riga deve avere la sua potenza, la sua sensazione, il suo succo, il suo sapore; il viaggio non dev’essere mai noioso, non deve annoiare il lettore o il viaggiatore. Non devi annoiare nessuno, devi mettere del succo in ogni riga.»

Sull’alcol. «È bello morire di alcolismo, è molto glorioso, ma se scrivi merda piatta non ha nessuna importanza di cosa muori… L’alcol non è una gran cosa, il solo fatto di morire di alcol non significa che tu valga qualcosa, devi lasciare dietro di te qualche parola. [Lowry] è morto soffocato dal suo stesso vomito. Grande! Non era nemmeno un ubriacone professionista. Io, quando mi faccio una gran bevuta, butto la testa su un lato del materasso, in modo che, se vomito, il vomito vada sul pavimento. ’Sto tipo non era neanche un bevitore professionista… A parte quello, ha una scrittura brutta e piatta.»

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