Chiedi a John Fante
Ippolito Emanuele Pingitore«Fante che se n’è andato a Hollywood, / Fante su un campo di golf, / Fante al tavolo da gioco, Fante in una casa a Malibu, / Fante amico di William / Saroyan. / Ma Fante il ricordo più bello / che ho di te / era negli anni ’30 / quando vivevi in quell’albergo vicino / all’Angel’s Flight / e lottavi per essere uno scrittore, / inviando racconti e lettere / a Mencken. / a quei tempi / ti veniva fuori / l’urlo dallo stomaco. / e io lo sentivo. / lo sento ancora adesso. / e mi rifiuto di immaginarti / su un campo di golf / o a Hollywood. / ma questo non è / importante / adesso che sei morto / però il fatto che tu fossi un grande scrittore / quello resta / e insieme il modo in cui mi hai aiutato / a mettere le parole / sulla carta / come volevo io. / sono felice di averti incontrato alla fine / anche se stavi / morendo / e mi ricordo quando / ti ho domandato / “senti, John, come cavolo / gli è andata a quella ragazza / messicana / di Ask the Dust?” / e tu mi hai risposto / “si è scoperto che era / una dannata / lesbica!” / e poi è entrata l’infermiera / con delle grosse / pillole bianche / per te.»(1) Più che una poesia, questa è una vera e propria confessione verso lo scrittore, verso l’amico, verso il suo dio. Bukowski amava Fante, e non è una novità, se è vero che lo scrittore italoamericano deve la sua grossa notorietà proprio a lui, che aveva costretto la Black Sparrow Books a ristampare Chiedi alla polvere sotto minaccia di non consegnare ad essa più nessun manoscritto. Non che abbisognasse di raccomandazioni, poiché l’opera di Fante, a quasi ottant’anni dalla pubblicazione, rimane una delle più pregevoli della letteratura mondiale.
Ma, come spesso accade agli scrittori più geniali, Fante non andava di moda tra i suoi contemporanei. Non andava di moda il suo essere italiano, anzi dago(2), come ribadito nella scelta del nome del personaggio principale della sua tetralogia: Arturo Bandini, suo alter ego, protagonista di La strada per Los Angeles (1933)(3), Aspetta primavera, Bandini (1937), Chiedi alla polvere (1939) e Sogni di Bunker Hill (1982). Fante stesso, inoltre, si lamentava del fatto che la critica mal sopportasse i temi cattolici da lui trattati, cosa che doveva destare una certa indifferenza nei confronti dello scrittore. Triste fu l’epilogo della sua vita, aggravato dal diabete che nel giro di pochi anni gli avrebbe fatto perdere due gambe e la vista. Per una svolta bisogna attendere il 1978, quando Fante, ormai cieco e moribondo, avrà l’occasione di tornare al centro dell’attenzione proprio grazie all’amico Chinaski, il quale curerà la prefazione alla seconda edizione di Ask the Dust. È l’occasione giusta affinché l’opera e la vita dello scrittore italoamericano vengano diffuse tra i curiosi lettori di Bukowski e tra gli appassionati della letteratura sacra, che leggeranno tra le sue pagine parole di stima e venerazione, lontane dallo stile fin troppo narcisistico di Chinaski. Difatti, non è un segreto che Bukowski ritenesse superiore a lui nella scrittura solo Céline, almeno il Céline del Voyage.
E così scoprire che, in preda ad un furore esistenziale, Bukowski ha la costanza di passare quasi ogni giorno, come egli stesso ci rivela, sotto la casa in cui aveva trascorso parte della sua vita John Fante ad Angel’s Flight, nel quartiere Bunker Hill di Los Angeles, rende conto dell’ammirazione sincera ed onesta verso il Maestro(4): «Fante era il mio dio e io sapevo che gli dèi vanno lasciati in pace, non si andava a bussare alla loro porta. E tuttavia mi piaceva immaginare la casa dove era vissuto, in Angel’s Flight, e illudermi che ci abitasse ancora. Ci passavo davanti quasi ogni giorno e mi chiedevo: è questa la finestra da cui è uscita Camilla? È quella la porta dell’albergo? Quella la hall? Non l’ho mai saputo»(5).
Di lì a poco le opere di Fante diverranno cult, tant’è vero che nel 1989 Francis Ford Coppola curerà la regia di Wait until Spring, Bandini e nel 2006 sarà la volta di Chiedi alla polvere, diretto da Rober Towne, film che però non rende giustizia alla profondità, alla passione sofferente, all’intreccio così contorto e ruvido che si staglia sulle pagine del romanzo.
Dal piccolo quadro biografico appena esposto, quella di Fante sembrerebbe una vita travagliata da sofferenza, dolore e oblio – fama tuttora alimentata, specie in Italia, senza che di fatto vi sia una corrispondenza concreta con la realtà. È bene precisare che Fante non è un reietto e non potrebbe neanche essere il compagno di sbronze di Bukowski; eppure, Arturo Bandini ben comparirebbe nel variegato mondo di Hank. Come scrive Martino Marazzi, docente di letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Milano, grazie alla sua scrittura Fante «si era conquistato, a Hollywood, una posizione tutt’altro che da looser, con enorme villa sul mare a Malibu, parco macchine fenomenale, Jaguar e Chevrolet di lusso, bizzarrie come quella di tenersi un asino in giardino, quattro figli con relativi costi astronomici della loro educazione (siamo in America, non dimentichiamolo) – insomma, un tenore di vita da nababbo o quasi […]. Il successo e i soldi rappresentavano il segno di avercela fatta, giustificavano l’orgoglio di essere americano»(6).
Ed è la stessa moglie di Fante, Joyce, a rivelare che «era molto importante per lui fare soldi e avere una bella vita», precisando come questo fosse un segno della sua americanità(7). Del resto, sin dal 1933 Fante lavora come sceneggiatore per la Warner alla modica cifra di duecentocinquanta dollari a settimana, per poi passare alla Republic, dove si accontenterà di prenderne quattrocento al mese. Fino a percepire, negli anni Cinquanta, tra i millecinquecento e i duemila dollari alla settimana(8). Cifre straordinarie per l’epoca!
Italiano, ma non troppo… È vero che, come sostiene Francesco Durante, tra i più esperti conoscitori dello scrittore, non si capisce bene Fante se non lo si legge alla luce della sua italoitalianità, e tuttavia «è ancora più difficile capirlo se si assume l’elemento etnico come esclusivo, se si considera l’intera sua opera, ribollente distillato autobiografico, all’interno del paradigma etnico-familiare»(9). Non che l’Italia non susciti interesse nelle vicende biografiche del nostro scrittore; del resto, la scelta dei nomi di molti suoi personaggi risponde a questa appartenenza. Solo che questa presunta italianità meriterebbe di essere ridimensionata; per lo meno, si può sottolineare un distacco sincero tra il Fante americano e i personaggi che respirano una nostalgica aria mediterranea.
In effetti, più volte lo scrittore di origini abruzzesi dà mostra di avere un’idea alquanto vaga dell’Italia (che forse in lui è racchiusa nei ricordi della famiglia paterna e nella figura del padre Nick). Non parla una parola d’italiano, né conosce il dialetto abruzzese. La leggenda narra che fosse giunto in Abruzzo per visitare i luoghi di origine della sua famiglia e che, una volta arrivato a Torricella Peligna, piccolo borgo in provincia di Chieti in cui era vissuto suo padre, forse per timore di trovare una terra diversa da quella immaginata, non avesse messo piede a terra e fosse subito ripartito in macchina. Nessuno saprà mai se sia vero o meno.
Fatto sta che Fante si sente americano. Non è un WASP, è un povero figlio di emigrati che si sente californiano e non esita a dimostrarlo quando, per esempio in Chiedi alla polvere, Arturo Bandini, nelle sue escandescenze dovute all’incapacità di saper gestire emozioni e sentimenti, si rivolge a Camilla Lopez, la bella cameriera messicana di cui è innamorato, ma da cui non è ricambiato, insultandola per la sua appartenenza etnica. L’ingiuria etnica(10) rappresenta al meglio la condizione di un italiano di seconda generazione che, in fondo, si sente americano e non fa che rivendicare spietatamente questa americanità, ogniqualvolta si presenti l’occasione di sottolineare il distacco da un americano di grado inferiore. È una lotta a chi è più americano e, di conseguenza, meno italiano o messicano. Una lotta che sa però di rivalsa.
«Sono nato in un appartamento nel seminterrato di una fabbrica di maccheroni nella zona nord di Denver.» Sta parlando di sé John Fante (o Arturo Bandini), l’italoamericano figlio di Nick, «un montanaro venuto dall’Abruzzo – racconta ne La confraternita dell’uva – un nasone dalle mani grosse, basso, largo come una porta, nato in una parte dell’Italia in cui la miseria era spettacolare quanto i ghiacciai circostanti e dove qualunque bambino che fosse riuscito a sopravvivere per i primi cinque anni ne avrebbe campati ottantacinque. Logicamente, non molti riuscivano a compiere cinque anni. Di tredici che ne erano, restavano solo lui e la zia Pepina, che ne aveva ottanta e abitava a Denver. La sua durezza mio padre l’aveva ereditata da quel modo di vivere… Provava un grande disprezzo per se stesso, e tuttavia era orgoglioso, e persino presuntuoso. Nick Molise era convinto che ogni mattone che aveva posto, ogni pietra che aveva modellato, ogni marciapiede o muro o caminetto che aveva costruito, ogni pietra tombale che aveva ideato appartenessero alla posterità. Aveva una passione tremenda per il lavoro: e con uno sguardo amaro seguiva il sole, il quale, a suo parere, si muoveva troppo rapidamente nel cielo… Il suo amore per la pietra rappresentava un piacere ancor più pregnante della sua passione per il gioco, o per il vino, o per le donne…».
Fante non è, dunque, un nostalgico le cui radici sono state spezzate oltreoceano, ma uno scrittore che trae materiale per le sue storie dalle esperienze della sua famiglia e dalle vicende di povertà che videro protagonisti migliaia di italiani, emigrati verso il sogno americano di prosperità e benessere. Materia per lo scrittore, non riesumazione di chissà quali nostalgici ricordi.
Stile asciutto, conciso, poetico. Persino le sue pagine meno interessanti sono avvolte da un’aura di magia. Fante travolge anche il lettore meno attento, poiché ciò che offre sulla scena è l’umano nelle sue sfaccettature: l’amore, l’odio, il dolore, la sofferenza, la rabbia e l’orgoglio. Qualcuno potrà trovarci un insegnamento, ma, più in generale, non è questo lo scopo precipuo della sua scrittura. Le sue opere sono un diario consegnato alla posterità: guardate come si può vivere, guardate la sofferenza in faccia e provate a schivarla. Cose che lo accomunano profondamente a Bukowski.
«E poi un giorno arrivò una lettera di lui dal deserto, voleva che andassi da lui e che gli togliessi dai piedi lei e quel dannato di un cane; lei si aggirava intorno al suo tugurio come un miserabile in cerca di briciole di amore, e lui non la reggeva, e insomma per favore ci andassi e gliela togliessi dai piedi. Mi feci cento miglia e lei se n’era andata. La sua Ford gialla arrugginita, con le gomme a terra, era parcheggiata su un lato della strada polverosa in un boschetto di iucche. Dov’era? Sammy lo ignorava. Le aveva ordinato di andarsene, aveva tirato sassi contro il cane, era stufo di lei e non gliene fregava niente. La sua auto è ancora là, le gomme gliele hanno prese, tutto il rubabile l’hanno rubato. Lei se n’è andata, il deserto l’ha inghiottita. Può essere che qualcuno l’abbia tirata su e l’abbia portata in Messico. Può darsi che sia tornata a Los Angeles e sia morta in una stanza polverosa. Quello che so io è che è sparita, che il cane è sparito, e nulla ne è rimasto a parte la sua storia, che vi voglio raccontare.»(11)
No, non è la nostalgia dell’italianità. Semmai, la nostalgia è tutta racchiusa nelle dense pagine dei suoi romanzi, commista a quei sentimenti di amore e odio sincero, che gonfiano i polmoni di Arturo Bandini, innamorato, rifiutato, alla ricerca disperata, in queste meravigliose righe di Chiedi alla polvere, di raggiungere Camilla nel deserto. Ma Camilla non c’è più, è andata via, è diventata polvere. La nostalgia si trasforma in poesia, la scrittura lacera il cuore. Non resta che il deserto, la polvere, il niente. Chiedete ad essa, provate ad ottenere una risposta.
Non un Maestro, ma un compagno di vita. Ecco, è solo questo John Fante. E il vecchio Hank lo sapeva bene.
- Cfr. John Fante, Epilogo, in Sto sulla riva dell’acqua e sogno. Lettere a Mencken 1930-1952, Fazi, Roma 2001.
- «Se l’adolescenza di Bukowski era stata segnata dalla sua origine tedesca, pregiudizi che lui aveva coltivato con cura, Fante, per quanto fosse nato a Denver l’8 aprile del 1909, rimaneva un italiano – anzi: un “dago”, termine spregiativo che fa riferimento al vino rosso degli immigrati con cui venivano definiti gli italiani d’America – e in quanto tale relegato dalla critica tra gli scrittori minori, una specie di curiosa espressione etnica che di letterario aveva poco. Potevano i personaggi di Fante, quei pezzenti dei Bandini, italiani d’America o americani d’Italia che dir si volesse, sedersi al tavolo della letteratura mondiale? No. “Per loro ero Wop [With Out Passaport], Dago, Greaser [locuzione riferita soprattutto ai messicani]… Mi hanno umiliato al punto da farmi diventare diverso e mi hanno spinto ad accostarmi ai libri, a rinchiudermi in me stesso” scrive Fante» (Roberto Alfatti Appetiti, Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski, Edizioni Bietti, Milano 2014, pp. 236-237).
- La parabola editoriale del testo è assai strana. Scritto nel 1933, quando Fante aveva solo ventiquattro anni, e ripreso tre anni dopo, fu rifiutato dall’editore Knopf, che decise di non pubblicarlo poiché troppo provocatorio. Verrà dato alle stampe postumo, nel 1985, due anni dopo la morte dello scrittore. Per la genesi dell’opera cfr. Sandro Veronesi, Introduzione a John Fante, La Strada per Los Angeles, Einaudi, Torino 2005.
- È l’appellativo con cui Bukowski si rivolge a Fante nel capitolo Incontro con il Maestro di Azzeccare i cavalli vincenti, Feltrinelli, Milano 2008, p. 233.
- Cfr. Charles Bukowski, Prefazione a John Fante, Chiedi alla polvere, SugarCo, Milano 1983.
- Martino Marazzi, Mazze e Calze. Fante, Scorsese e il feticcio dell’etnicità italiana, in Aa. Vv., John Fante, a cura di Paolo Graziano, Edizioni Menabò, Ortona 2008, p. 12.
- Cit. in Sergio Sciarra, Non mi piacciono i film. Non mi sono mai piaciuti. L’altra faccia della scrittura: John Fante sceneggiatore, in Aa. Vv., op. cit., p. 82.
- Ibidem.
- Francesco Durante, Uno dei “big boys”, in John Fante, Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 2003, p. IX.
- Cfr. Paolo Graziano, La Penisola che non c’è. Sulle radici immaginarie della narrativa di John Fante, in Aa. Vv., op. cit., p. 27.
- John Fante, Chiedi alla polvere, Einaudi, Torino 2004, p. 231.