Carlo Verdone, autore. Una filmografia come gesto di un pensiero
Roy MenariniLa chiave di tutto è Compagni di scuola (1988). Carlo Verdone lo gira dopo Io e mia sorella (1987), film dolente e malinconico, che però non si sarebbe detto potesse preludere a un’opera così perfida e divertente, la più “germiana” di Verdone. Tanto da fare dire al regista che si tratta di un film «fin troppo cattivo», con cui non è stato certo di aver seguito nel profondo la sua indole, magari meno sferzante. Tanto è vero che il film successivo, Il bambino e il poliziotto (1989), lascia di stucco coloro che immaginavano Compagni di scuola come uno spartiacque verso una forma contemporanea di commedia all’italiana.
Ma si sa, spesso cerchiamo nelle filmografie prove indiziarie del tutto discutibili. O, peggio, incarichiamo i registi di portarci verso lidi più conformi alle nostre attese, senza badare a quelle degli altri o alle logiche del pubblico. Tornando al film da cui siamo partiti, dobbiamo ammettere che continua a sembrarci il più straordinario esempio di Verdone-autore.
Qualche chiarimento, prima di approfondire la questione. Questo intervento non mira affatto a distinguere un Verdone di tipo popolare rispetto a un Verdone più autoriale, separando in tal modo i suoi titoli l’uno dall’altro a seconda della vocazione più o meno commerciale di ciascuno. In secondo luogo, il saggio non ha come obiettivo nemmeno nobilitare il cinema di Carlo Verdone, per il semplice fatto che non ha bisogno di legittimazioni, come conferma l’ampia bibliografia a disposizione e – perché no – questo numero di «INLAND. Quaderni di cinema». Al tempo stesso, però, dobbiamo anche dirci la verità: in quanti – quando si parla dei più importanti autori italiani del cinema contemporaneo nazionale, dagli anni Ottanta in poi – indicano Verdone tra di essi? Non per sospetto o snobismo (sinceramente Verdone ha conquistato i cuori dei critici già da molto tempo), ma perché all’atto pratico, al momento di stilare canoni, classifiche, pantheon e così via, è come se tutta l’accoglienza estetica si sbriciolasse tra le dita e si tornasse nuovamente ai nomi più importanti.
Eppure, se altrove nel medesimo volume che avete tra le mani si esplora il rapporto tra Verdone e la commedia all’italiana, bisogna poi ricordare quanto tempo ci sia voluto per interiorizzare l’aspetto artistico della commedia e ritrovarsela poi nel canone da tramandare del nostro cinema.
Che cos’è quindi un autore italiano? Rispondendo nel modo più semplice e comprensibile, un autore responsabile di larga parte dell’ideazione dei suoi film (scrittura, regia, spesso interpretazione), che sviluppa una forte riconoscibilità all’interno della sua filmografia, e le cui narrazioni sembrano ruotare intorno ad alcuni concetti-cardine e ad alcuni punti di osservazione privilegiati.
Tornando a Compagni di scuola (per chi scrive imparagonabilmente superiore a Il grande freddo [1983], del pur adorato Lawrence Kasdan), è proprio nel superamento di ogni paravento tra commedia e cinema d’autore che si rileva – complice una sceneggiatura di ferro – il marchio di Verdone. Si tratta di un’opera corale, di quelle rarissime dove ogni singolo personaggio riesce a essere connotato al di fuori di stereotipi o bozzetti, dove a emergere è un disilluso (e talvolta disgustato) ritratto dell’Italia degli anni Ottanta. È buffo, perché Verdone – a differenza di Nanni Moretti (con il quale andrebbe impostata una interessante analisi comparata) – non proviene dalla militanza di sinistra, né da connotazioni ideologiche particolarmente forti. Laddove Moretti negli anni Settanta compie una smitizzazione interna delle logiche dei movimenti e occupa con la sua personalità il clima post-ideologico di fine decennio, è Verdone a dire con Compagni di scuola le cose più feroci contro la sua generazione. Non sono tanto i politici rampanti (Massimo Ghini interpreta chiaramente un socialista) o i cialtroni più inguaiati (il personaggio di Christian De Sica) a spiegarlo, quanto gli altri, mediocri, impauriti, nevrotici, tutti ormai votati alla mutazione individualista del nuovo decennio, e soprattutto incattiviti e cinici.
Per lungo tempo, negli sketch televisivi e nei personaggi più noti del suo repertorio (poi ripresi nei primi film), i riti e i rituali dei giovani contestatori o dei figli dei fiori erano dal comico bonariamente presi in giro. Ma l’osservazione antropologica – sia pure diretta e intuitiva – di Verdone ha fatto sì che le critiche al suo atteggiamento politico non siano state prevalenti, perché gli è sempre stata riconosciuta la sincerità – unita alla curiosità – nei confronti dell’essere umano immerso nel suo contesto sociale. Che nel caso di Verdone è principalmente quello romano.
Dal che si può dedurre anche un altro “problema” nei confronti dell’autorialità di Verdone: quello della dimensione comportamentale, gestuale, iconica del suo cinema. Per un Paese, il nostro, che – come si è detto più volte – ha una sostanziale dipendenza dal modello letterario della cultura, al punto da rendere complicato persino trasmettere la memoria di uno dei nostri più grandi cineasti (Federico Fellini) perché eminentemente visuale, ebbene l’atteggiamento fisico, performativo, corporeo, volontariamente caricaturale dei personaggi verdoniani ne ha rallentato il riconoscimento.
Quando si parla di autore, del resto, si parla anche di stile. Lo stile notoriamente non si limita alle operazioni di regia o ai modi di ripresa, piuttosto a una più articolata dimensione rappresentativa che può sfociare in alcuni casi anche nell’invenzione di una iconografia. Sinceramente, se dobbiamo trovare limiti alla filmografia verdoniana, essi provengono principalmente dalla messa in scena. Talvolta, l’approccio alla regia appare sbrigativo o indelicato. Tuttavia, porla in questo modo serve a poco. Il vero stile verdoniano è infatti principalmente iconografico e attoriale. È in questa dimensione che si concentrano, persino si incarnano, le sue scelte visive, privilegiando la dimensione antropica a quella spaziale, la performance al virtuosismo, la voce al suono, il volto al paesaggio, e così via.
In fondo, la dimensione autoriale di Verdone si potrebbe riassumere in una sorta di processo che porta dall’osservazione al racconto, dal tic alla gag, dall’intuizione al prodotto narrativo. In questo processo – che non è certo quello cronologico classico, dall’esordio acerbo alla venerata maturità – si ripresenta regolarmente in ogni film. Possiamo facilmente imbatterci in scene geniali dal punto di vista della composizione già nei primi film (la dimensione claustrofobica del viaggio di Furio e Magda, in Bianco, rosso e Verdone [1981], è gestita con perizia registica ammirevole) e altrettanto capita di domandarsi perché Verdone sconti ancora oggi scelte di messa in scena incerte dopo quarant’anni di carriera. Un processo, appunto. Ogni film nasce da questa dialettica e – se non lo guardiamo con sguardo normativo – questo processo complicato diventa il cuore stesso del cinema di Verdone.
Se dovessimo concentrarci invece su alcuni titoli-chiave, ci soffermeremmo – oltre che su Compagni di scuola – su pellicole bistrattate dalla critica come Stasera a casa di Alice (1990). Nel film, dove Verdone duetta con un Sergio Castellitto ben lontano dalla notorietà successiva, l’amarezza del ritratto generazionale e borghese traspare da tutti i pori. Alcuni hanno accusato il regista di misoginia (l’Alice di Ornella Muti è donna “mobile qual piuma al vento” e sempre alle prese con erotismo e volgarità) e di ammiccare a un pubblico in cerca di trasgressioni frustrate. Ancora una volta, non si è intesa a sufficienza l’autocritica maschile nei personaggi verdoniani. Certo, essi suscitano spesso simpatia e non di rado ridiamo “con loro”, ma il cinismo buffo e molto cialtrone con cui i due cognati protagonisti cercano di dividersi la ragazza e ne vengono abbandonati li scopre nel loro sciocco narcisismo. All’inizio degli anni Novanta, dopo che Verdone è stato a suo modo lo studioso ironico dell’infantilismo anni Ottanta (seguito all’impegno dei Settanta), la sua filmografia esordisce con un racconto tutt’altro che ottimista e speranzoso.
Non è un caso che il successivo Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992) sia tuttora uno dei più amati dal pubblico, e uno dei più conosciuti – al di fuori, s’intende, dei tanti tormentoni e gag offerti dai personaggi dei film a episodi. Complice la presenza di Francesca Marciano in sceneggiatura – dopo il lungo sodalizio con Benvenuti e De Bernardi – Maledetto il giorno che t’ho incontrato è insieme un road movie, una commedia romantica e una seduta di analisi. Il rapporto tra maschile e femminile, l’inadeguatezza del personaggio, l’ansia come prisma attraverso cui leggere la voglia di evasione dell’uomo medio italiano, qui fanno emergere forse meno punte e meno tragicità di Compagni di scuola o Stasera a casa di Alice, ma non fanno altro che ribadire i punti di riconoscimento del cinema di Verdone.
Tra l’altro, anche il rapporto sempre ribadito con le attrici del momento, sia di stampo più popolare (Ornella Muti, Paola Cortellesi), sia autoriale (Margherita Buy, Francesca Neri, Asia Argento), non riguarda solo la nota predisposizione dell’autore a circondarsi di interpreti femminili sempre diverse e sempre sulla cresta dell’onda. Verdone, infatti, sfrutta e contemporaneamente intensifica uno stardom italiano che – come noto – fatica negli anni Novanta e Duemila a rinverdire i fasti dei decenni precedenti. Uno dei grandi temi di Verdone (un tema non lontano dal cinema di Howard Hawks, e segnatamente dalle sue commedie) è proprio il confronto brillante tra uomo e donna, altro termometro necessario (insieme all’amicizia maschile) per misurare il grado di civiltà del presente.
Un titolo decisamente particolare è Gallo cedrone (1998), grande e sorprendente anticipazione dei temi dell’antipolitica (Verdone giustamente rivendica la primogenitura rispetto al Cetto La Qualunque di Antonio Albanese) nonché vero e proprio mostro della contemporaneità. Si tratta di uno dei personaggi più vicini alla sensibilità di Alberto Sordi che Verdone abbia mai costruito, e al tempo stesso un’icona quasi freak che – se non fosse giocata sul registro del grottesco malinconico – avrebbe potuto anche sfociare in un grottesco nero d’autore in stile Tony Manero di Pablo Larraìn (2008). Non a caso nuovamente assistito in sceneggiatura da Benvenuti e De Bernardi, Verdone gira una commedia e un film d’autore fusi senza nessuna possibilità di separazione, anche perché un’opera come questa – nel momento in cui non avrebbe più cittadinanza narrativa ed estetica se non fosse stata ideata da una star del cinema italiano – diventa automaticamente un unicum dalla firma ben riconoscibile. A differenza di Viaggi di nozze (1995), dove il ritorno alla dimensione episodica degli esordi appare come un vero e proprio tentativo di saldatura delle varie età verdoniane (con tutti i problemi di corpo che l’anagrafe si porta dietro), Gallo cedrone è una galleria veemente e tragica, vagamente senile, un’assunzione di responsabilità comica di fronte a un Paese già allo sfascio in piena Seconda Repubblica.
Se Gallo cedrone rappresenta una sorta di show isterico e alienato, e soprattutto singolare, a stupire è la costante attenzione di Verdone alla sintonia col cinema italiano contemporaneo: il Verdone plurale. Certo, spesso si tratta di strategie di mercato ideate in comune accordo con il produttore, ma del resto non c’è autore che si auguri di non intercettare il pubblico; inoltre, questa pratica ha sempre permesso a Verdone di negoziare il proprio habitat dentro immaginari sempre più sfuggenti. Non è un caso che l’incontro con una delle più strane meteore del nostro cinema, Silvio Muccino, abbia fruttato uno dei più interessanti risultati recenti, con Il mio miglior nemico (2006). In questo caso, non è il confronto con una diva bensì con un giovane attore/autore in ascesa a modificare l’orizzonte, e per la prima volta a invertire le parti tra padre putativo e figlio simbolico (sia pure senza nessuna delle implicazioni generazionali e dei passaggi di testimone epocali presenti nel sottovalutato In viaggio con papà di Sordi [1982]). Qui la cessione di sovranità è doppia: il passaggio da Cecchi Gori a De Laurentiis come produttore, e la sceneggiatura dello stesso Muccino. Rinvigorito dalla sfida, e al tempo stesso ferocemente autocritico, Verdone in questo film è autore più che mai, proprio nel momento in cui umilmente si processa dal punto di vista generazionale e si mette in gioco dal punto di vista cinematografico.
Potremmo proseguire con altri titoli e altre micro-analisi, ma preferiamo lasciare al resto del fascicolo l’illustrazione dei fili evidenti o nascosti della filmografia verdoniana. Si diceva all’inizio: Carlo Verdone è un autore in modo lapalissiano, poiché a lui sono dedicate monografie come questa e molte altre pubblicazioni, e perché i suoi film sono tutti molto suoi e riconoscibili – quindi assolvendo a criteri intrinseci ed estrinseci dello statuto. Altra cosa, invece, è guadagnarsi i galloni dell’autore vero, quello che viene integralmente riconosciuto da critica, cinefilia, accademica, discorso pubblico. E anche in questo caso siamo abbastanza avanti, sebbene manchi ancora l’ultimo passo: non separare un Verdone pop da un Verdone maturo, strada impropria e deteriore, che mancherebbe di comprendere come tutta la sua filmografia sia il gesto di un pensiero. Un’opera d’autore.