"Borotalco". Storie d’ordinaria mitomania

Francesco Saverio Marzaduri
Carlo Verdone n. 12/2019

Tra i giochi che si fanno quando si ama un artista e lo si mitizza – specie uno la cui opera è parte del commento musicale della propria vita – c’è quello di individuarne il brano che meglio ne afferri lo sguardo sul mondo. Come se l’eccentricità d’un piccolo uomo alle prese con la quotidianità e il malessere fosse già contenuta in versi e note, a suggerire fughe verso un incerto infinito. Qualcosa con cui si misurano la memoria generazionale e la sua colonna sonora. L’amore di Carlo Verdone per la musica, condiviso dall’intera generazione a cui egli appartiene, non è un mistero: lo esplicita una filmografia attraversata da canzoni, interpreti, autori, con il rock che brilla in ogni sfaccettatura, dagli artisti anni Sessanta nel juke-box di Compagni di scuola (1988) agli sleghi di Jimi Hendrix in Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992), sino al techno-pop in Sono pazzo di Iris Blond (1996).
Ma è in Borotalco (1982) che l’excursus generazionale incappa nella sua buona stella, inaugurando lavori che indirizzano il macchiettismo della comicità televisiva verso una graduale maturità stilistica: dietro l’apparenza di un prodotto di transizione, la terza pellicola del regista e attore romano azzecca un’indovinata contaminazione, con ingredienti così interconnessi da non poter pensare di districarli. Magicamente, un’ilarità sospesa tra bozzettismo e realismo – a scandire l’irrequietezza di un momento e un senso di collettivo malumore nel sottobosco giovanile coevo – si fonde nell’assunto del sogno, concepito quale evasione dal grigiore cui prima o poi tocca tornare, consci che è più bello fantasticare a occhi aperti piuttosto che provarci, e fallire. Null’altro che bolle di sapone.
Scelto e difeso dall’autore con cipiglio, il titolo non potrebbe suonare più esplicativo: la bianca polvere aleggiante nel comfort di un istante – e con essa il profumo che emana e simboleggia un irrinunciabile, ingenuo ottimismo – resta una nuvoletta da cogliere al volo prima che sfumi. In ciò risiede una gioviale volontà di sperare, a costo d’infilarsi in giochi insostenibili: come se Verdone, sette anni prima di L’attimo fuggente di Peter Weir, già prefigurasse un carpe diem. Il borotalco è biglietto da visita sin dall’incipit, quando la macchina da presa stringe su dettagli di piedi e gambe dei protagonisti Sergio e Nadia (Carlo Verdone ed Eleonora Giorgi) che, sulle note di L’ultima luna di Lucio Dalla, escono da una stanza da bagno e si vestono, con gesti che ne svelano le componenti caratteriali (piuttosto impacciato lui, spigliata e vivace lei). Sempre il borotalco, insieme alla musica di Dalla, funge da marcatore deittico associando i personaggi – nonostante un montaggio volutamente ingannevole suggerisca che l’appuntamento fissato al telefono sia tra loro due – mentre occorre un’abbondante mezz’ora di incroci prima che il destino li faccia incontrare.
Il fulcro del film con cui Verdone si distanzia dalla confezione episodica (almeno finché il trasformismo non assurge a escamotage per l’evoluzione della figura principale) risiede nell’immanenza del mito, feticcio di un disagio esistenziale, accentuato dall’abitazione di Nadia tappezzata di foto e poster. Quando questa, durante il colloquio di lavoro presso l’agenzia I colossi della musica, risponde «Lucio Dalla» alla domanda sul suo musicista preferito, si capisce quanto la contemplata presenza del cantautore bolognese – invisibile, tranne in una documentaristica dissolvenza su un concerto – incomba sul Fato dei personaggi. Questo ancor prima che la sua ipertestuale firma offra un beffardo controcanto, restituito dall’incipit di Meri Luis nei segmenti in cui Sergio deve vedersela con situazioni a rischio. La musica e le parole di Dalla invitano a un «volar via» mai concretamente fattibile, tanto che di lui pare udirsi la voce fuori dal tendone del palco dove i protagonisti arrivano a serata conclusa.
Invero, il fenomeno-Dalla offre la possibilità di uscire da uno schema predefinito per aspirare a un bagliore di gloria, anche se effimero e coatto: non a caso Verdone cavalca l’onda musicale dell’epoca riflettendo sul malcontento di chi, prendendo il mito quale esempio, aspira a un margine di notorietà. E se il buon Carlo, nella realtà, deve lottare affinché un Dalla riluttante acconsenta a lasciare il nome nei credits, nella finzione quasi tutti i personaggi ambiscono a un’utopia, talora spacciandosi per quel che non sono: Nadia desidera incrociare il suo idolo facendo leva su Sergio (che si spaccia per un altro, Manuel Fantoni), sedotta dai mendaci aneddoti sulla gente famosa che questi millanta di conoscere, laddove Sergio aspira a quel poco di “carattere e faccia tosta” di cui è privo e di cui Nadia dispone. Lo stesso Manuel è solo un bellimbusto fregnacciaro che non si chiama davvero così, prossimo alla gattabuia, come pure l’amico Marcello (un Christian De Sica ossigenato e già in odor di Vanzina) che s’illude di sfondare negli States come showman.
Ma in Borotalco – parodia dei fotoromanzi che trova l’equa alchimia nella spigliatezza dei dialoghi e nel crescendo degli equivoci – il gioco mito-ricamo non si arena sulle frottole spacciate per vere né sulle reazioni grottesche, come riprova l’accorato omaggio al cinema di genere (a chi alluderebbe il nome del protagonista?) nell’uso di due feticci autentici, Mario Brega e Angelo Infanti, i cui corpi, racconti, battute e tormentoni lungo l’asse realtà-finzione imprimono un quid in più alla favola. La dimensione cui si aspira è una leggenda che la squallida realtà s’incarica di smontare con echi felliniani – e il maestro fa capolino in un’istantanea. Niente di strano se per Verdone La dolce vita (1960) sia il cult prediletto: la commedia italiana, che nella figura di Fantoni impasta un mix di Gassman e Nazzari (confermato da un grembiule da cucina con scritto Gaucho), concilia con una costante, genuina emulazione del prototipo (Sergio che mangia gli spaghetti guardando Albertone in tv), mentre la realtà assimilata non è altrettanto vera. I fantocci crollano, e Sergio e Nadia ne fanno le spese senza sfuggire alla comune noia della vita coniugale. A riaccostarli, un’estrema scintilla onirica trascesa nella sua realizzazione: se per Sergio, novello conte Max della tradizione teatrale-cinematografica, non è previsto bagaglio ipertestuale capace di miscelare il dna sordiano con l’Allen che sogna d’imitare Bogart, lo è il malinconico incontro con la compagna del cuore, autrice del misterioso brano scritto per il proprio mito, e di cui Sergio-Manuel è il maldestro tramite. A cantare non è Dalla – benché si oda a un certo punto la sua voce – ma non importa: il gioco delle parti non nostre è elemento portante di ogni fantasia. Mai smettere d’inventare, sognare, sperare. Come il Verdone dell’apocrifo rifacimento Troppo forte (1986) e del videoclip Centocittà – che offre uno spunto già presente in Borotalco, con epilogo a sorpresa – si incaricherà di ribadire.

 

CAST & CREDITS

Regia: Carlo Verdone; soggetto: Carlo Verdone, Enrico Oldoini; sceneggiatura: Carlo Verdone, Enrico Oldoini; fotografia: Ennio Guarnieri; scenografia: Gian Maria Avetta; costumi: Luca Sabatelli; montaggio: Antonio Siciliano; musiche: Lucio Dalla, Fabio Liberatori, Stadio; interpreti: Carlo Verdone (Sergio Benvenuti), Eleonora Giorgi (Nadia Vandelli), Christian De Sica (Marcello), Angelo Infanti (Manuel Fantoni/Cesare Cuticchia), Enrico Papa (Cristiano), Mario Brega (Augusto), Moana Pozzi (amica di Manuel); produzione: Mario Cecchi Gori e Vittorio Cecchi Gori per Intercapital; origine: Italia, 1982; durata: 97’; home video: dvd CG Entertainment, Blu-ray CG Entertainment; colonna sonora: inedita.

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