Carlo ed Enrico Vanzina. I fratelli Vanzina. Più semplicemente, i Vanzina. Due in uno, due come uno solo. Nell’immaginario, nell’opinione comune, persino nei modi di dire. D’altronde, non è così semplice dividerne ruoli e competenze all’interno della coppia. Un’incisione chirurgica non è possibile. Non certo nei termini, che si potrebbero ipotizzare di primo acchito, di Carlo regista ed Enrico sceneggiatore. L’occhio e la parola. Basta leggere i titoli di testa di uno qualunque dei loro 60 film di coppia (per il cinema, poi ci sono svariate serie tv e tv-movie, in più) per capire che non regge. Se la regia è sempre di Carlo Vanzina, soggetto e sceneggiatura sono invariabilmente di Carlo ed Enrico Vanzina.
Non potrebbe essere diversamente, del resto. Per quarant’anni e passa, se qualcosa non l’ha impedito, ogni giorno i “famigerati” fratelli Vanzina si sono incontrati per scambiarsi idee, raccontarsi spunti, condividere notizie, consigliarsi libri e film. E, sì, pure scrivere soggetti, soggettoni, trattamenti e sceneggiature. In mezzo a tanto “cazzeggiare”, come ammettevano entrambi, sul modello degli idolatrati Age & Scarpelli, imitati da vicino con Benvenuti & De Bernardi, ogni volta che si è potuto (soprattutto nelle tante riprese e imitazioni di I soliti ignoti [1958], da I mitici. Colpo gobbo a Milano [1994] a In questo mondo di ladri [2004]).
Quindi, e lo hanno sempre ammesso sia Carlo sia Enrico, soggetti e sceneggiature sono farina del sacco di entrambi, indistinguibili i reciproci contributi. Poche volte, magari nei film scritti per altri, c’è una divisione più evidente: in Fratelli d’Italia (1989), se Enrico dall’alto della sua sapienza calcistica è autore dell’episodio mitico di Boldi tifoso milanista brutalizzato da due trucidissimi tifosi romanisti, Carlo, invece, scrive quello con De Sica pseudo-figlio di Gardini alle prese con ricconi e snobboni in Sardegna, aggiornamento spericolato del miglior carattere sordiano mitomane e falsificatore. E, per inciso, anche l’episodio più cinefilo, con un memorabile «Vaffanculo» finale di De Sica ai ricchi boriosi che è l’ennesima reprise (in senso ampio) dello schiaffone di Sordi al commenda in Una vita difficile (1961), feticcio vanziniano riproposto tantissime volte nella loro filmografia.
E sulla cinefilia appassionata e vorace di Carlo Vanzina si dovrebbe aprire un lungo discorso: lui critico mancato, come amava definirsi, senza facili ironie (sui critici), l’adolescenza (e, poi, la vita) passata a divorare film sempre e ovunque, i cineforum improvvisati da giovanissimo (magari con altri rampolli del cinema italiano, dai Risi ai Cecchi d’Amico), le antenne costantemente drizzate a cogliere il nuovo, nel cinema italiano, ma soprattutto Oltreoceano. E difatti tutto questo, se non si è disattenti o in malafede, si riconosce nei film dei Vanzina, anche e soprattutto sul piano dell’immagine, quello dove Carlo diventava protagonista perché era esclusivamente suo l’occhio dietro la macchina da presa. Con Enrico però sempre accanto, occhio in più preziosissimo, soprattutto al montaggio, perché meno coinvolto sul set, dove comunque è stato spesso presente.
Dunque, dov’era la specificità di Carlo nella coppia Vanzina, ammesso che fosse individuabile davvero?
Enrico non ha dubbi in proposito: c’è un vero e proprio Carlo Vanzina’s touch nella regia, in certe sottolineature visive, in certe accentuazioni discrete eppure significative, che eludono persino il dogma inviolabile dell’invisibilità della regia della commedia, sfrangiandola addirittura verso il melò. Basterà ricordare allora il finale di Sapore di mare (1983), quel flashforward al 1982 che si conclude sul gioco di sguardi tra Marina Suma e Jerry Calà, l’obiettivo a stringere sugli occhi acquosi di lui, che ripensa a quanto ha perduto e a quello che non c’è stato, Celeste nostalgia di Cocciante in crescendo, una visualizzazione, se mai ce n’è stata una, del concetto di rimpianto.
Anzi, se si guarda bene, senza le proverbiali fette di prosciutto sugli occhi, quel tocco fa capolino tante altre volte, quando la faccia dell’attore diventa storia ed emozione, e allora la regia della commedia può farsi manifesta, eccome: in Vacanze di Natale (1983), il primo piano su Christian De Sica che saluta l’ex fidanzatina Karina Huff, prima che questa s’involi con un tizio in Turbo e lui, conclamato bisex, verso un futuro nella moda («Perché un certo gusto ce l’ho»), è un altro esempio da manuale anche se Carlo, che dell’artigiano del cinema popolare aveva soprattutto l’umiltà, ritraendosi, avrebbe detto: «Bravo io? Bravo Christian, piuttosto».
Oltre questi piccoli colpi al cuore, però, Carlo Vanzina è stato anche e soprattutto l’erede di una tradizione di regia, che è quella dei Monicelli (del quale è stato aiuto-regista in diversi film, compresi Brancaleone alle crociate [1970], Romanzo popolare [1974] e Amici miei [1975]); dei Risi (tifoso sfegatato dei Vanzina, soprattutto quando sfiorano la perfezione della misura breve, dell’episodio mordi-e-fuggi, la preferita dal regista di Il sorpasso [1962]); degli Scola (destinatario di una lettera d’amore affettuosissima in Il pranzo della domenica [2003]). Invisibile, veloce, senza un’inquadratura di troppo, con il montaggio sempre già in testa fin dal momento delle riprese. Probabilmente queste virtù – che erano anche quelle di papà Steno e facevano la gioia dei produttori, visto che, come ricorda sempre Enrico, «Carlo faceva costare tre giorni ai Caraibi come tre giorni a Viterbo» – trovano il loro coronamento in certi episodi sapidissimi (e il cinema di Carlo ed Enrico trova sempre il suo respiro ideale nella micro-situazione, anche oltre i film a episodi veri e propri, separati o intrecciati): l’amore tra due adolescenti nato, vissuto e finito esclusivamente via cellulare di SMS in E adesso sesso (2001), il formidabile incipit pseudo-Visconti di Senso (1954) con chiusa trucidissima di Le barzellette (2004) e, ovvio, il Proietti teatrante sordo che prende fischi per fiaschi nella chiusa di Un’estate al mare (2008). Piccoli capolavori di balistica delle inquadrature, micro-segmentazione invisibile di regia, tripudio della mise en scène. E sono solo i primi che vengono in mente.
Poi, certo, se si esce dalla commedia (che pure è la cifra dominante della filmografia vanziniana), il Carlo Vanzina’s touch assume altre forme dentro generi (il thriller, il giallo, l’avventuroso in costume) che presuppongono l’esibizione della regia come regola del gioco. E pure laddove sembrerebbe tutto derivativo e di seconda mano bisognerebbe tornare a guardare con più attenzione: per dire, dietro il suo dichiaratissimo depalmismo stigmatizzato da tanti (eppure culmine di una passione per la New Hollywood e il nuovo cinema americano anni Sessanta e Settanta che arrivava da lontano, già certificata dal Vincent Gardenia nel cast del primo film, Luna di miele in tre [1976]), Sotto il vestito niente (1985) cela sequenze preziose come quella della modella che fugge terrorizzata di notte per la città, ogni più piccolo rumore a farla sobbalzare, probabilmente più debitrice di certi noir americani di matrice espressionista anni Quaranta e Cinquanta. Ai quali pure rimanda l’algida Mystère/Carole Bouquet, inquadrata come una dark lady d’altri tempi (e la lama retrattile in un bastone come arma del villain è di nuovo un omaggio a Gilda [1946]).
Qui, infatti, riemerge prepotente il feticismo delle immagini del critico mancato, l’educazione al cinema bulimica e appassionata di un tempo, che spingeva Carlo (ed Enrico, in tal senso complice perfetto) a saccheggiare tanto cinema hollywoodiano classico poi riaffiorante ovunque: non solo nei fantasmi dietro un film come La partita del 1988 (Scaramouche [1952], certo, rivisto e corretto dallo Steno di Le avventure di Giacomo Casanova [1954] e I moschettieri del mare [1962]) o Tre colonne in cronaca del 1990 (con quel movimento finale sulla libreria a rivelarci il libro di Wallace e l’assassino, una piccola Rosebud vanziniana), ma anche nelle quinte cinefile di tante commedie, dove, accanto e oltre i Risi, i Monicelli, gli Scola, gli Steno, i Salce, i Pietrangeli, ci sono Capra, Wilder, Lubitsch come angeli custodi (e, forse, Le barzellette più che a Il fantasma della libertà [1974] andrebbe ricondotto a Helzapoppin’ [1941]).
Per questa via, c’è semmai il rimpianto di non aver potuto godere del Carlo Vanzina’s touch anche nei generi magari da lui amatissimi ma che da noi non si fanno più, il western in primis (il progetto sfumato di girare la serie Colt ideata da Sergio Leone), l’avventuroso epico (il progetto di un film sul Mathi e sulle guerre anglo-boere negli ultimi anni Settanta), il peplum, il war movie, frequentati, indirettamente, solo in forma di parodia (che è una forma sublimata di amore) nei film centone come A spasso nel tempo (1996) o nelle piccole grandi follie come S.P.Q.R. 2000 e ½ anni fa (1994) e 2061. Un anno eccezionale (2007).