Intervista a Marcello Veneziani: «Americanismo e antiamericanismo»
Andrea ScarabelliD. L’antimericanismo è un fenomeno piuttosto trasversale, che ha accomunato correnti politiche e culturali spesso assai variegate… che valore, a Suo avviso, conferire a questa eterogeneità?
R. È difficile operare la reductio ad unum dei diversi antimericanismi che hanno attraversato le culture degli ultimi due secoli. Perché, se il tratto comune è la critica all’individualismo e al consumismo, la differenza abissale che li divide è tra un antiamericanismo di matrice spirituale e un antiamericanismo nel nome di un altro materialismo. Tra gli antiamericani di estrazione filosovietica o filomaoista e quelli di estrazione religiosa o antimoderna credo che ci siano abissi di differenza.
D. Parliamo dei movimenti no global, indignados, occupy e via dicendo. Che peso dare alle loro contestazioni? Spesso si limitano a criticare la politica statunitense, senza però toccarne i fondamenti culturali. È forse per questo che le loro critiche si fermano a metà, spesso abbeverandosi alle stesse fonti dell’ideologia che vorrebbero contestare, forse addirittura rafforzando quel sistema che vorrebbero contestare?
R. Si tratta di movimenti che contestano l’America nel nome del pacifismo o dell’egualitarismo, al più dell’ecologismo, e non mi pare che colgano la matrice utilitaristica e materialistica dell’americanismo, quel primato della tecnica e della finanza che costituisce l’essenza – seppure non esclusiva – dell’americanismo. E che, a rovescio, è l’elogio dello sradicamento, della standardizzazione e della mercificazione universale.
D. In un Suo libro ha parlato dei “perdenti della globalizzazione”… Di chi si tratta?
R. Nel mio libro I vinti. I perdenti della globalizzazione e loro elogio finale (Mondadori, Milano 2004) esaminavo una varietà irriducibile di perdenti della globalizzazione, che passava dai comunisti ai nazionalisti, dai cristiani ai meridionali, dai conservatori ai reazionari. E ne facevo un polemico elogio. Ma non proponevo una sorta di arca, di santa alleanza dei perdenti, anche perché la globalizzazione non va negata o avversata, ma governata e bilanciata, per esempio compensandola con la tradizione.
D. Si parla molto di “impero statunitense”: in molti hanno stabilito delle analogie tra la realtà di oggi e quella dell’impero romano. Già Spengler, nel suo Tramonto dell’Occidente, ne proponeva una in questo senso… Ciò non toglie però che il fondamento dell’impero romano – come di qualsiasi realtà imperiale – fosse di natura trascendente, laddove oggi è piuttosto di tipo materiale…
R. La differenza è indubbia ma non si può negare che, al suo tramonto, l’impero romano fosse ampiamente percorso e pervaso di umori decadenti che ne avevano disperso il vigore sacrale e trascendente. E non si può negare che, d’altra parte, nell’americanismo serpeggia anche una specie di messianismo e di idealismo che conferisce alla “missione” americana una sorta di imperativo evangelico e di zelo religioso. Peraltro, la percezione di vivere all’ombra di un solo impero è durata un decennio, dalla caduta dell’Unione Sovietica all’attacco alle due torri. Infine, la crescita dell’Islam da un verso ma della Cina e dell’India dall’altro disegna oggi scenari assai più complessi di quello imperialistico e monocratico statunitense.
D. Quali le nuove prospettive di un pensiero che voglia criticare l’operato statunitense senza richiudersi in quell’autismo da “colpevole assoluto” che spesso pervade le prospettive degli attuali contestatori?
R. Penso che sia sempre un errore condensare la propria visione del mondo in un anti, cioè in un antagonismo. E credo che la critica pur necessaria all’egemonia del modello americano sia del tutto insufficiente per spiegare la crisi e l’inaridimento spirituale diffuso. Peraltro, l’occidentalizzazione del mondo, la deterritorializzazione, ha in effetti reso planetari e automatici alcuni processi, che oggi non sono più legati ad uno Stato-Impero o a una volontà ben definita dal punto di vista geo-etnico. Il dominio della tecnica oggi ha vettori asiatici ben più temibili, e così l’inquinamento del pianeta, o lo sradicamento. Fossilizzarsi in un antiamericanismo ideologico e pratico a mio parere sarebbe oggi un modo del tutto inadeguato per raccogliere le sfide del presente. Ciò detto, resta auspicabile l’autonomia dell’Europa dagli Stati Uniti, il riassestamento del pianeta in spazi vitali e aree diversificate, non soggette all’egemonia americana, la riscoperta del sacro e delle origini, della tradizione e della comunità, e di un’idea compiuta, ricca e polimorfa di civiltà, che non può essere subordinata ai parametri tecnico-mercantili o consumistici del Novecento.