Ultras: teoria e fenomenologia. Intervista a Pierluigi Spagnolo
Gianpiero Mattanza
Una combinazione di colori, un accento locale, una storia condivisa. Poi, un grande sogno: la vittoria. Il tifo è tutto questo, una forma di fede (e fedeltà): quella della quotidianità, anelito di liberazione attraverso il dinamismo della partita, la ricerca di una felicità domenicale negata durante la settimana. Una felicità caduca – e quindi vera, sofferta – perché legata all’alea della classifica. Oggi c’è, domani qualcuno più forte te la porterà via. Ma la sua ricerca, con la maglia della squadra del cuore, vale comunque lo sputar sangue per Lei. Pierluigi Spagnolo è un giornalista della «Gazzetta dello Sport» che nutre da sempre una passione travolgente: il calcio. Scontato, potrebbe dire qualcuno. Prevedibile, insinuerebbe qualcun altro. Ma non è così, perché il Nostro ha una particolare predilezione non tanto per la cronaca delle partite, gli schemi e i tecnicismi del calciomercato, quanto piuttosto per una sua manifestazione collaterale (eppure, in realtà, tutt’altro che secondaria): la tifoseria. Nel suo I ribelli degli stadi (Odoya, 2017), ha ricostruito con la libertà dell’appassionato e la precisione dello storico le principali vicende legate al mondo ultrà italiano, con qualche excursus sulle tifoserie estere, britanniche in primis. Un mondo poco conosciuto integralmente, spesso temuto per alcuni approssimativi titoli di giornale, ancor più di frequente criticato a priori dai moralisti del pallone. Sì, perché i benpensanti non esistono solo in politica o nelle accademie: i loro giudizi taglienti raggiungono (o, meglio, tentano di raggiungere) anche ambiti in cui la loro presenza è sommersa dai cori gridati da centinaia di persone e dai colori delle maglie delle diverse squadre-città… o, per meglio dire, città-Stato. Il tifo – quello calcistico, in particolare – ha infatti l’incredibile capacità di mettere l’una contro l’altra città vicine, in una guerra dei campanili dal sapore medievale. Un favoloso medioevo contemporaneo…
G. M.
Chi è l’ultras?
L’ultras è un tifoso di calcio (ma vale anche per molti altri sport) particolarmente passionale nel sostegno alla propria squadra, che condivide questa esperienza quasi totalizzante con altri tifosi e tifose come lui (ma allo stesso tempo profondamente diversi, essendo la curva dello stadio il luogo più eterogeneo e trasversale che esista), organizzandosi e riconoscendosi in un gruppo che è parte di una tifoseria. Ancora oggi possiamo definire quella degli ultras come una sottocultura, la più longeva tra quelle che la società italiana abbia mai conosciuto, ovvero un insieme di soggetti che condivide una passione, s’identifica in una piccola comunità e ne riconosce le regole non scritte, i codici di comportamento, il linguaggio e spesso persino lo stile estetico, il look.
Quella di ultras è una categoria più giornalistica che, per così dire, antropologica?
È sicuramente anche un’etichetta giornalistica, visto che il termine si usa anche per indicare i sostenitori più agguerriti di un partito, di una linea politica o di un’idea (esempio: gli ultrà anti-Brexit, gli ultrà delle Grandi Opere…). Ma è una sottocultura, quindi anche una categoria antropologica, nella quale rientrano, come già detto, tutti quei tifosi che vivono in maniera totalizzante la passione per la propria squadra, utilizzando le categorie amico/nemico per rapportarsi con altri soggetti, altri gruppi e altre tifoserie.
Il tifo, nel calcio di oggi, può definirsi antimoderno?
In un calcio che, negli ultimi venti-venticinque anni, ha perso la sua caratteristica di rito popolare, di cerimonia collettiva, per diventare un puro evento di spettacolo, abbandonando così la sua natura più autenticamente romantica, il tifo è quell’aspetto del cosiddetto “calcio moderno” (che tendiamo a far cominciare dal 1993-1994, con l’avvento delle pay tv) che resta tuttora ancorato a vecchi princìpi e a formule, per così dire, “tradizionali”. In questo senso, direi che il tifo può essere considerato “antimoderno”, quasi un freno alla deriva affaristica di un calcio sempre più show e sempre meno sport, sempre più élite e sempre meno popolo.
Qual è l’episodio del tifo mondiale che vorresti non fosse mai accaduto? E, al contrario, quello più edificante e positivo?
Sono tanti gli episodi del tifo mondiale che cancellerei dalla storia. Dalla strage dello stadio Heysel di Bruxelles, prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, il 29 maggio del 1985, fino all’omicidio di Vincenzo Spagnolo, l’ultras genoano ucciso da un ultras del Milan con una coltellata al torace, nel gennaio 1995, in una delle giornate che più hanno colpito e segnato la sensibilità del mondo ultras italiano. Episodi positivi, che si sono svolti lontano dai riflettori dei media, se ne contano tanti. Pisani e livornesi, acerrimi nemici allo stadio, si sono scambiati reciprocamente gesti di solidarietà in occasione di tragedie che hanno colpito le due città (l’alluvione con diversi morti a Livorno, il recente incendio sulle colline pisane). Hanno così dimostrato la straordinaria sensibilità di un mondo che davanti alle tragedie sa andare al di là delle barriere del tifo. Episodi, come dicevo, spesso completamente ignorati dai mass media.
Che importanza ha il passato nella dimensione del tifoso?
Tra i tifosi più passionali c’è sicuramente una grande attenzione al passato, al patrimonio culturale e alla tradizione, in senso lato. Non è un caso che gli ultras facciano riferimento all’anno di fondazione del club, a quello di nascita del gruppo, ai giocatori-simbolo del passato, allo spirito e alla memoria del calcio di un tempo. Il passato è una radice profonda a cui fare sempre riferimento, per la parte più “turbolenta” del tifo.
È vero che allo stadio va un numero sempre minore di persone?
Indubbiamente gli stadi di oggi – direi negli ultimi quindici-venti anni – sono in media molto meno affollati rispetto agli anni ’60-’70-’80-’90, quando gli impianti erano tutti e sempre gremiti, dalla Serie A alla Serie C. È colpa principalmente dell’avvento delle pay tv, che da metà anni Novanta (la prima partita di A, trasmessa all’epoca in diretta e a pagamento da TelePiù, è stata Lazio-Foggia, agosto 1993) hanno iniziato progressivamente a trasmettere tutte le partite e a svuotare gli stadi. Biglietti cari (oggi, in Serie A, molte curve costano anche trentacinque-cinquanta euro), norme speciali (biglietti nominali), orari scomodi e altre complicazioni di questo tipo hanno contribuito a spingere migliaia di tifosi dagli spalti al divano di casa.
Quale concetto d’identità viene onorato dall’ultras?
Spesso – analizzando il fenomeno – si tende a dire che gli ultras diventano più tifosi di se stessi che della propria squadra. Il legame che vincola un tifoso di curva al proprio gruppo e alla propria tifoseria è infatti fortissimo. Lo striscione, la bandiera, i simboli della squadra e il nome e i colori della città sono elementi che rappresentano un fortissimo nucleo identitario. I riferimenti alla maglia e alla città sono frequentissimi nel linguaggio degli ultras. E l’appartenenza a un gruppo, che ha una propria storia, una propria simbologia, è un elemento fondamentale nella Weltanschauung, nella concezione del mondo che hanno gli ultras.
Parliamo di te. Come hai vissuto e vivi la tua esperienza di giornalista-tifoso?
Quando sono libero dal lavoro, vado in curva per sostenere la mia squadra, in casa e anche fuori, laddove mi è possibile. Mi sono innamorato dal tifo delle curve da bambino. Guardavo la curva Nord dello stadio Della Vittoria, quello in cui ha giocato il Bari fino al 1990, ammiravo gli ultras in piedi a spronare la squadra, e già mi dicevo: «Da grande sarò lì, in mezzo a loro». È stato così e non ci trovo nulla di male. Il calcio mi affascina per la sua dimensione popolare, mi piace per l’aggregazione che genera negli stadi, per l’anima vitale e ribelle delle curve. Diciamo che mi piacciono questi aspetti, molto più del gioco in sé.