
Isotta ha stipulato un accordo svantaggioso con Tristano. La regina assiste alla scena della morte del suo amante, e il ruolo di spettatrice provoca il suo decesso subito dopo quello dell’eroe. Isotta è imprigionata nei ranghi del pubblico, da cui osserva le gesta di Tristano: può solo contemplarne l’agonia, ma non le è permesso in alcun modo intervenire. È questo sentimento a provocare la sua morte, scontando lo sfavore della relazione con il cavaliere: l’amore è un contratto che la trascina alla rovina senza autorizzarla a sciogliere il patto, nemmeno protestando l’irresponsabilità dell’attore cui è vincolata.
Darwin riteneva che le relazioni sentimentali raggiungessero comunque un bilancio positivo, se osservate da un punto di vista pragmatico, purché volte al matrimonio e al progresso (anche intellettuale) della specie(1). Questa conclusione esclude però dalla riabilitazione i rapporti che legano gli uomini alle squadre di calcio, sebbene l’intensità delle emozioni spesso sembri eguagliare la passione che intreccia i destini di Isotta e Tristano. Per entusiasmo, tristezza e adesione inerme alle prodezze (o alle disfatte) degli atleti in campo, il tifo rispecchia l’affetto degli eroi della leggenda medievale: identico procedimento, stessa infelicità. Una recente indagine di Peter Dolton e George MacKerron, dell’Università del Sussex(2), dimostra sperimentalmente che il calcio ci rende tristi. Per scoprirlo, gli studiosi hanno sviluppato un’app (battezzata Mappiness) con cui hanno raccolto tre milioni di segnali da un campione di circa cinquantamila utenti. Il dispositivo georeferenzia in automatico il cellulare che lo ospita e invia delle notifiche per sollecitare il soggetto a valutare lo stato d’animo che sta provando sul momento, misurandolo su una scala numerica da zero a cento.
Il meccanismo ha permesso ai due ricercatori di scoprire che la nostra esperienza di tifosi coincide con quella che ci impegna nelle decisioni economiche: identica irrazionalità, stessa tristezza. Uno studio condotto da due premi Nobel, Daniel Kahneman e Richard Thaler(3), ha raccolto le prove sperimentali dell’«avversione alla perdita», uno dei pregiudizi che interferiscono con le nostre stime quando agiamo di impulso. Ciascuno di noi è disposto a rinunciare ad un bene, quando ne è il proprietario, solo per un prezzo doppio rispetto a quello che un acquirente sarebbe pronto a versare per entrarne in possesso. In altre parole, la (dura) legge di Kahneman e Thaler stabilisce che, se il pallone è mio, non vorrò cederlo a meno di due euro, ma le offerte che riceverò non saranno mai maggiori di un euro – con la conseguente stagnazione del mercato del calcio e il soffocamento della creatività nella produzione dei palloni. L’economia comportamentale sa essere più spietata dell’amore di Tristano e Isotta, e sembra essere in grado di predire le reazioni che si scatenano nel rapporto tormentato tra gli uomini e le squadre di calcio. Infatti, i dati sperimentali raccolti con Mappiness rivelano che la sofferenza provata dai tifosi dopo una partita persa è misurabile da un valore emotivo doppio rispetto alla gioia vissuta in occasione di un risultato positivo. Se questo non bastasse, occorre anche aggiungere che l’amarezza per la disfatta si prolunga lungo un arco di tempo maggiore dei benefici legati a un trionfo; e la situazione peggiora se l’esperienza viene consumata allo stadio, invece che davanti alla televisione. Insomma, pare che i tifosi abbiano sottoscritto con la loro squadra un contratto emotivo tanto svantaggioso quanto quello stipulato da Isotta con Tristano.
Come la regina della leggenda medievale, il pubblico non può intervenire sul corso della vicenda: la squadra gioca bene o male per conto proprio, e il risultato è un effetto reale che il sostenitore può solo subire. Tristano tendeva a sfogare la propria insoddisfazione azzuffandosi con altri cavalieri, recriminando la loro fellonia, un po’ come i giocatori fanno con gli avversari e il pubblico vorrebbe fare con l’arbitro; sennonché, i tifosi frustrati dalla sconfitta della squadra sfogano il loro sdegno sulla povera Isotta che li attende a casa, o che li sopporta mentre guardano la partita in televisione. Tra gli effetti indesiderati della delusione calcistica bisogna includere anche la violenza domestica e il rischio di abusi su donne e bambini, per quanto si tratti di eventi piuttosto rari(4).
Tra avvilimento e minaccia sociale, Dolton e MacKerron si chiedono quali possano essere le ragioni che ci conducono comunque a siglare il nostro impegno di tifosi con un club. Il primo argomento cui ricorrono è un altro pregiudizio studiato dall’economia comportamentale, noto come ottimismo eccessivo(5). Il tifoso non è irrazionale in quanto tifoso, ma è tradito da un errore tipico delle decisioni di impulso, che consiste nel sovrastimare le possibilità di successo della propria squadra rispetto a quelle legittimate dalla statistica. Senza questa distorsione di aspettativa, la popolazione mondiale dei tifosi (e quella degli imprenditori) risulterebbe decimata.
Ma i due ricercatori non si limitano a questa ipotesi. Le anomalie della razionalità che possono interferire con l’errore massivo del tifo sono molte: la tendenza ad alterare i ricordi, esaltando la gioia dei gol realizzati e mettendo in ombra l’angoscia di quelli subiti; il piacere dell’esperienza di assistere ad una partita dal vivo; il valore di sentirsi parte di una comunità di pari, che solidarizzano per le stesse circostanze di allegria e di abbattimento; la curiosità di vedere come andrà a finire il prossimo match; la dipendenza che probabilmente inquina il comportamento del tifo.
Per gli antichi Greci la mente abitava nel petto e, come il respiro, era allo stesso tempo interna ed esterna all’eroe; per i cavalieri del Medioevo era nell’anima e andava restituita a Dio in qualche impresa memorabile: un contratto svantaggioso per l’individuo ma utile per gli eredi. Per noi, invece, abita in un ufficio di commercialisti o avvocati societaristi, e in particolare è insediata nel software gestionale dello studio, soffocata di bague e bisognosa di un aggiornamento in tempi stretti. Forse, almeno per comprendere il fenomeno del tifo, varrebbe la pena disinstallare questo programma difettoso e riprendere le mosse dalle opinioni degli antichi.
Ortega y Gasset, ad esempio, evoca un’origine sportiva della società e di tutte le sue istituzioni(6), incluse le procedure contrattuali e le loro forme di garanzia. Il filosofo spagnolo non si sottrae alla sfida della teoria evoluzionista. Attribuisce il ruolo di protagonista al dispendio casuale delle energie, all’euforia dell’azione e alla proliferazione delle imprese rischiose; quelle che riscuotono successo vengono incluse nell’archivio dell’utilità e vengono ripetute, rappresentando un vantaggio. Nel passato remoto di un’umanità ancora ferina, che non conosce nemmeno la coesione dei clan famigliari, Ortega immagina che sia toccato agli adolescenti formare i primi nuclei di organizzazione sociale. È la legge della psicologia dei giovani che li chiama a cercare i loro pari e a convivere con loro, a trovare nell’identità del gruppo la propria soggettività, modellandola a immagine della compagnia cui appartengono.
La ricerca di un riconoscimento nel collettivo e il bisogno di novità impongono agli adolescenti di cercare donne che non appartengono all’ambiente in cui sono cresciuti, affollato dalle figure ormai noiose di sorelle e cugine. Ma catturare le ragazze degli altri clan esige coraggio e abilità, pretende il coordinamento autoritario di un capo che organizzi, educa alla disciplina del corpo, brama la forza degli animali, che deve essere evocata attraverso maschere e riti. Il ratto delle Sabine è il modello del primo vagito dello Stato; la Curia dei Salii che conserva lo scettro di Romolo a Roma, le fratrie degli spartiati, sono l’inconscio di questo inizio, che sopravvive per sempre nel cuore degli Stati. Si trova «nell’origine dello Stato un esempio della fecondità creatrice che risiede nella potenza sportiva. Non è stato l’operaio, né l’intellettuale, né il sacerdote, propriamente detto, né il commerciante ad iniziare il grande processo politico; è stata la gioventù preoccupata per la femminilità e risoluta al combattimento; è stato l’amante, il guerriero e lo sportivo»(7). Il clan dei giovani sprigiona le energie che avviano il percorso della Storia, con l’esogamia, la guerra, l’allenamento e l’ascesi, la legge e l’autorità, la società segreta, il rito, le maschere e il Carnevale.
Insomma, Ortega ci insegna a vedere in Tristano il padre della politica, proprio in quanto sportivo, guerriero e rapitore di Isotta – non il software sgangherato nell’ufficio dell’avvocato societarista. Questa evidenza potrebbe lasciarci indovinare perché lo Stato sia sempre intrigato da personaggi con cui si fanno pessimi affari; ma noi dobbiamo insistere sul nostro problema, perché la questione del tifo è Isotta e non Tristano, la parte di chi guarda, non di chi gioca. Un’indagine storico-sociologica del fenomeno del tifo ci condurrebbe a scoprire che la nascita di uno sport come il calcio (e degli altri sport di squadra), organizzato da club, governato da regole, gestito in spazi deputati alle partite, racchiuso in tempi e luoghi predefiniti, è un processo parallelo alla nascita della «civiltà delle buone maniere»(8), che assicura una struttura istituzionale in cui il nemico politico, dopo una sconfitta elettorale, non deve temere per la propria incolumità personale o la propria incarcerazione da parte della fazione vincente(9). E finiremmo per scoprire che Isotta, in fondo, non è così passiva nel rapporto con il suo innamorato, dal momento che lo autorizza a violare le leggi della cavalleria per corteggiarla e a tradire la fedeltà al re per possederla. Allo stesso modo, in una società che ha bandito la guerra e ha messo al riparo i singoli dagli imprevisti della sorte con il welfare, gli spalti dello stadio tornano ad ambientare la rappresentazione rituale di una battaglia, con tanto di gerarchia militare, cori e musica per gli assalti, colori e stendardi. L’adesione al sostegno di una squadra, d’altra parte, non ha alcun contenuto se non l’opposizione etica delle schiere degli amici contro quelle dei nemici(10). Sfide, coraggio, fedeltà, rischi, sono solo raffigurati – ma, nell’Occidente contemporaneo, alla vita si gioca così.
Però, al di là delle evidenze sociologiche, vorremmo sapere qualcosa sul significato del tifo, che per lo più ci somministra il nostro aerosol di tristezza davanti alla televisione, inondandoci il petto prima di trepidazione, poi di frustrazione – senza la scarica della violenza ritualizzata dello stadio. Chiediamo allora soccorso a Roland Barthes – un filosofo di cui basta pronunciare il nome per essere scaldati da una vampata d’intelligenza, come in un rito taumaturgico – e in particolare ad un saggio nato per diventare il copione di un documentario cinematografico, che focalizza il rapporto tra lo sport e gli uomini(11). «Lo sport è il potere di trasformare ogni cosa nel suo contrario»(12): è il talento con cui le forze della fisica, i movimenti casuali della sfera e l’elasticità del cuoio si trasformano in figure che hanno un valore estetico e simbolizzano valori morali. «La resistenza, il sangue freddo, la temerarietà, il coraggio» concorrono a investire del tumulto dei significati della storia, della dialettica delle dispute tra gli uomini – il pallone del calcio, il dischetto dell’hockey, il tempo del ciclista, la meccanica dei motori e delle ruote, la durezza muta delle leggi della cinematica: «I grandi giocatori sono eroi, non star»(13).
La sfida dello sport oppone gli uomini alla cecità delle cose, all’ostilità del caso, alla pressione del tempo, all’insensatezza della forza: nella corsa trasmessa al ritmo del cuore, avvertiamo la trasformazione della brutalità della natura in un mondo di significati. Per questa ragione Barthes paragona il ruolo del tifo a quello svolto dal teatro presso i Greci – il luogo dove un popolo intero ha sentito emergere dalle maschere degli attori la voce della scrittura, che ha inciso nel petto degli uomini l’abisso dell’anima, la profondità interiore, e la tragedia di una nuova cultura. Qual è la verità che interiorizzano milioni di tifosi mentre osservano la partita, con il respiro accelerato dall’affanno o il fiato sospeso dalla tensione? Certo, anzitutto la tristezza della funzione dell’individuo in una società industriale, in cui il valore del singolo è determinato dalla sua capacità di integrarsi nella squadra, e di occupare il posto che gli è assegnato: la ricerca di un percorso da solista conduce prima in panchina, poi negli spogliatoi, infine fuori da qualunque stadio del regno. Ma c’è di più. Per scoprirlo bisogna tornare all’interrogativo su cosa sia lo sport: «Lo sport risponde a questa domanda con un’altra: chi è il migliore?». In fondo, anche se ciascuno è gettato a caso nel posto che occupa, rimane comunque l’unico ad incarnare quel punto della storia e della società – e può decidere se esserne responsabile fino in fondo, rendendolo insostituibile, o consegnarsi alla combinatoria della permutabilità di tutti con tutti. Lo sport raffigura il sistema, ma anche la sua via di uscita. «Chi è il più bravo a vincere la resistenza delle cose, l’immobilità della natura? Chi è il più bravo a manipolare il mondo e darlo agli uomini… a tutti gli uomini?»(14). Ecco perché il tifo è irrinunciabile, e lo è anche la sua tristezza: è lì che il petto di Isotta viene ingravidato dalla mitologia del mondo moderno e postmoderno, ed è lì che impara come diventare l’eroina che è.
- Cfr. Charles Darwin, The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex, J. Murray, Londra 1871, vol. II, pp. 403-404.
- Cfr. Peter Dolton, George MacKerron, Is Football a Matter of Life and Death, or Is It More Important Than That?, in «National Institute of Economic and Social Research», 24 aprile 2018.
- Cfr. Daniel Kahneman, Jack Knetsch, Richard Thaler, Anomalies: The Endowement Effect, Loss Aversion, and Status Quo Bias, in «Journal of Economic Perspectives», n. 1, 2006, pp. 221-234.
- Lo studio di Dolton e MacKerron conferma i risultati di un’indagine precedente svolta in America sui campionati di football tra il 1995 e il 2006, divulgati in David Card, Gordon Dahl, Family Violence and Football: The effect of unexpected emotional cues on violent behaviour, in «The Quarterly Journal of Economics», n. 126, 2011, pp. 103-143.
- Cfr., ad esempio, Arnold Cooper, Carolyn Woo, William Dunkelberg, Entrepreneurs’ Perceived Chances for Success, in «Journal of Business Venturing», n. 2, 1988, pp. 97-108.
- Cfr. José Ortega y Gasset, L’origine sportiva dello Stato, tr. it. di Carlo Bo, SE, Milano 2007.
- Ivi, p. 9.
- L’espressione e la ricostruzione storica sono di Norbert Elias. Cfr. il suo La civiltà delle buone maniere, tr. it. di Giuseppina Panzieri, Il Mulino, Bologna 1998, parte II.
- Cfr. in particolare Norbert Elias, Eric Dunning, Sport e aggressività, tr. it. di Valeria Camporesi, Il Mulino, Bologna 1989, capp. 5-7.
- Cfr. Alessandro Dal Lago, Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Il Mulino, Bologna 1990.
- Cfr. Roland Barthes, Lo sport e gli uomini, tr. it. di Chiara Bongiovanni, Einaudi, Torino 2007.
- Ivi, p. 37.
- Ivi, p. 41.
- Ivi, p. 49.