L’oriundo del Sur. Intervista a Cristian Ansaldi
Gianpiero Mattanza & Silvina Chacoma
Classe ’86, capelli e barba rossi da guerriero indoeuropeo, un italiano con una forte cadenza spagnola. Non castigliana: argentina. Più morbida e sognante, meno arzigogolata e barocca. Di Rosario, per la precisione, città non lontana dalla capitale e dal confine con l’Uruguay. Luoghi, questi, che per i veri appassionati significano soprattutto calcio leggendario, magia sudamericana di un fútbol che così può esistere solo là. Stiamo parlando di Cristian Ansaldi, calciatore oggi in forze al Torino e reduce dall’ultimo mondiale con l’Argentina, che ha alle spalle, nonostante la relativamente giovane età, una carriera di grande interesse per gli appassionati del calcio come fenomeno sportivo, culturale e umano. Poi, quel cognome: inequivocabilmente italiano, evoca le sconfinate distese del Mare nostrum prima e dell’oceano poi… La carriera del terzino ha inizio con i Newell’s Old Boys di Rosario, grazie a cui esordirà nel professionismo. Poi, un evento piuttosto inusuale per un calciatore sudamericano: il trasferimento in Russia. Prima nella gelida Kazan’ (capitale del Tatarstan), dove giocherà nel Rubin Kazan’ per varie stagioni, poi nello Zenit San Pietroburgo, per un anno. Successivamente l’approdo in Europa, nella penisola iberica, in forze al magnifico Atletico Madrid. Infine in Italia, dove pare abbia trovato la propria serenità: sarà a Genova (sponda genoana), a Milano (Inter) e Torino. Cruciale per la sua esperienza umana e professionale la convocazione ai mondiali di Russia 2018 – poco fortunati per gli argentini, a dire il vero – con l’Albiceleste. Abbiamo chiesto direttamente a lui di raccontarci una parabola esistenziale su e giù per i due emisferi, all’inseguimento di quella pelota che dalla sua invenzione ha fatto e fa impazzire milioni – forse miliardi – di persone.
G. M.
Cristian, benvenuto su «Antarès». Per cominciare, puoi aiutarci a ricostruire il tuo albero genealogico? Il tuo cognome è italiano: qual è la sua storia?
È vero, Ansaldi è un cognome italiano [diffuso soprattutto in Piemonte, Liguria e Sicilia]. La mia “storia italiana” inizia con il mio trisnonno, di Ronco Scrivia, nei pressi di Genova. Grazie a lui ho potuto cominciare l’iter per ottenere la documentazione per la cittadinanza italiana. C’è un solo problema: non conosco il suo nome! Ma lo ringrazio comunque molto per avermi “trasmesso” il cognome che porto. [Ride]
Nell’immaginario collettivo, Argentina è sinonimo di calcio d’élite. Quando ti sei avvicinato al pallone, da ragazzino, eri davvero consapevole dell’importanza della tua nazionale a livello mondiale? Quali erano i tuoi obiettivi, quali i tuoi supereroi del fútbol?
Ho cominciato a giocare a calcio quando avevo quattro anni, nella squadra del mio quartiere, nella città di Rosario. Dopo – a otto – sono andato al Newell’s Old Boys [squadra che milita nella Primera División argentina] dove, dopo dieci anni, ho cominciato a giocare nella prima squadra. Riguardo alla nazionale argentina, ero sicuramente consapevole della sua importanza a livello mondiale. Anche questo mi ha spinto ad impegnarmi con costanza: per me è un onore immenso sapere che si tratta di una delle rappresentative più importanti di sempre. Il mio obiettivo, però, è sempre stato quello di giocare – oltre che nell’Albiceleste – in Europa. Mi chiedi il nome di un mio supereroe del calcio… in realtà non ho un idolo calcistico, ma mi è sempre piaciuto lo stile di gioco di Javier Zanetti.
Sei tifoso di qualche squadra?
Sono ovviamente tifoso dei Newell’s Old Boys di Rosario, da sempre la mia squadra del cuore.
Nel campionato russo hai portato a casa il maggior numero di presenze in campo. Come ricordi quell’esperienza? Da quelle parti il calcio dev’essere molto diverso…
Quella russa è stata un’esperienza molto positiva, un passo importante nella mia carriera: ho imparato molto e porto con me bellissimi ricordi. Sicuramente all’inizio non è stato facile: Kazan’ è una città diversa rispetto alle altre in cui ero stato fino ad allora. Il clima, poi, non mi ha aiutato: quel freddo… però, come ti dicevo, i miei ricordi di quell’esperienza sono tutti positivi.
Domandina facile facile: quali sono le principali differenze tra il calcio sudamericano, quello europeo e quello russo? Così, a pelle…
Hai ragione, è una domanda piuttosto difficile. Pensandoci bene, ti posso dire che in Europa il livello è molto alto, soprattutto per l’intensità di gioco, la precisione, la qualità generale. Quello sudamericano è in genere un calcio bellissimo da vedere, elegante e divertente, ma forse fisicamente meno d’impatto rispetto a quello europeo. Quello giocato in Russia, invece, è differente e non è facile trovare il termine adatto per definirlo: questa diversità ha più a che fare con l’attitudine dei giocatori che con la tecnica di gioco. Negli ultimi mondiali, per esempio, la nazionale russa si è distinta – e non poco – soprattutto per la volontà dei suoi atleti, che hanno dato davvero tutto, con ottimi risultati. Dunque, per tornare alla tua domanda… sono sicuramente tre mondi diversi.
Che importanza hanno per te l’identità e la fedeltà alla maglietta?
È sempre importante difendere con amore e rispetto le maglie che dobbiamo rappresentare, per vari motivi. Si può essere affezionati ad esse per ragioni personali, oppure, molto più semplicemente, occorre mostrare rispetto alla società che sta pagando – in genere, molto – e dà al calciatore la possibilità di farsi vedere giocando, cosa per nulla scontata. I dirigenti hanno fiducia nel giocatore e quest’ultimo deve ricambiare quest’attenzione con il necessario rispetto. Cosa che, nel mondo del calcio, non è affatto ovvia: bisogna guadagnarselo sul campo, questo rispetto, volendo bene alla propria maglia.
Qualche tempo fa sei stato all’Atletico Madrid, con cui hai vinto la Supercoppa di Spagna. Come ti sei trovato, argentino in terra iberica? Com’è stato giocare contro la prima della classe nel derbi madrileño?
Ti dirò, aver giocato là è stata una delle migliori esperienze della mia carriera: ho imparato moltissimo sul piano tecnico, perché il calcio spagnolo è davvero fenomenale. Il derbi madrileño è qualcosa d’impressionante: in poche occasioni ho sentito tanta pressione – in senso positivo, però – da parte delle due tifoserie di una stessa città. Mi è rimasta la voglia di continuare a giocare in Spagna… so che prima o poi tornerò!
Un terzino, in genere, non segna molto (per usare un eufemismo). Esiste una sorta di “amarezza del difensore”?
In realtà, devo confessarti che non mi sento un difensore, anche se di fatto lo sono: ho sempre avuto un’anima da attaccante, per così dire. Mi piace stare vicino all’area rivale: è ora di cominciare a fare più gol! [Ride] Anche se, in realtà, ho già iniziato: il 2 dicembre ho segnato contro il Genoa!
Ora parliamo dei mondiali (di nuovo la Russia…). Non è andata bene per l’Argentina: come hai vissuto quei momenti? L’onore della convocazione, l’affetto dei tifosi, la preparazione, il mondiale, il ritorno…
Il mondiale ha premiato i tanti sacrifici e gli sforzi compiuti da parte di tutti i giocatori dell’Albiceleste. È stata un’esperienza incredibile, che porto nel cuore, anche se non è andata secondo i sogni di tutti gli argentini, me in primis. L’aspetto migliore di tutta la vicenda, ad ogni modo, è stato l’affetto dei tifosi. A prescindere dal risultato.
Qual è il più grande campione con cui hai condiviso lo spogliatoio? Un’idea l’abbiamo già…
Troppo facile, dai: sicuramente Lionel Messi, di Rosario come me. Un giocatore di un altro pianeta: ne ho incontrati parecchi di grandi calciatori, ma condividere lo spogliatoio con lui mi ha fatto davvero uno strano effetto.
Cosa comporta, nel concreto, essere un calciatore professionista? A cosa hai dovuto rinunciare per essere dove sei?
Essere un calciatore professionista è qualcosa di entusiasmante, ma anche faticoso: il risultato di molto impegno e parecchi sforzi. Richiede incredibile perseveranza, umiltà, un lavorìo continuo su se stessi: oggi devi essere fisicamente sempre al massimo, per esempio. Nessuno ti regala niente in questo sport, come forse pensano molte persone. Ovviamente sono molte le cose a cui un calciatore deve rinunciare per essere un professionista di livello. Le più difficili da abbandonare hanno a che fare con gli affetti: la famiglia, gli amici… non è sempre possibile essere presenti al cento per cento, e questo non è piacevole.
Cosa farai quando terminerai la tua carriera come calciatore?
Ho ancora tempo per rifletterci: ora continuo a giocare e penso solo a farlo bene. Sarà Dio a mostrarmi cosa ha preparato per la mia vita di domani.