CalabriaOnWeb: «Politica: istruzioni per l’uso. L’acuminato pamphlet di Stenio Solinas»
Stenio Solinas
Comunque la pensiate leggere un pamphlet come questo istruisce e soccorre. Ma non lascia neanche un resto di speranza, un’ombra di belle illusioni per chi crede ancora che la politica sia qualcosa di più serio e appassionante di una sterile recita tra caste di privilegiati e populismi fintamente opposti, privi di idealità, di ancoraggio sociale e di visione del mondo. Come accade oggi tristemente in Italia. Gli ultimi Mohicani è un bel libro di Stenio Solinas. Solinas è giornalista e scrittore, responsabile di pagine culturali, inviato speciale de Il Giornale.
È un giramondo e un narratore colto e sofisticato di viaggi intrapresi a disegnare la mappa di quell’altrove – vicino o lontano – che ormai è confine e dimensione elettiva della distanza tra noi stessi e la vita nel caos globalizzato dal contemporaneo. Viaggiare per Solinas, tra andate e ritorni, è ritrovare e rimettere a tema anche una certa idea dell’Italia, latitudine e longitudine di una patria perduta. Serve a oltrepassare la dimensione esistenziale di ogni outsider a cui va stretto l’orizzonte dei nostri tempi, rimpicciolito e volgarizzato urbi et orbi dal travolgente conformismo di mentalità, consumi e finanziarizzazione delle esistenze collettive. Tornando a casa Solinas si confronta senza schermi con la crisi, forse terminale, dell’Italia come nazione. E soprattutto dedica spazio al tramonto di quell’area di politica che nel dopoguerra ha conservato l’idea di nazione, in opposizione a chi dall’altra parte affidava tutte le sue speranze all’internazionalismo e all’idea del socialismo realizzato.
Chi legga senza pregiudizio questo denso e urticante pamphlet, la cui sostanza si esplicita nel sottotitolo Quel che resta della politica, non farà difficoltà a riconoscere che Solinas professi con acume e appassionata onestà le sue ragioni.
La penna brillante e ben affilata di Solinas è anche l’effetto di un plus di convincimento critico e di perspicacia argomentativa improntata all’autenticità. Il suo ragionamento è frutto di cultura, di una personalità autorevole, di un’indipendenza di giudizio che non teme il conformismo intellettuale imperante. Egli è stato in passato esponente di punta della Nuova Destra, militante politico e pensatore scomodo – inascoltato e inutilmente vasto – protagonista del tentativo fallito di un rinnovamento civile della destra italiana negli anni ‘80. La sua è una storia percorsa contromano, che pesa sulla pagina e si racconta da sé. Il libro mette assieme due parti. L’analisi serrata di una sessantina di pagine sulla contemporaneità, alla quale seguono come contrappunto pagine di ricordi ed esperienze, in buona parte autobiografiche, i “Come eravamo” dedicati ai decenni intercorsi tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo appena trascorso In Italia. È il lasso di tempo che brucia la storia di due generazioni di giovani su fronti politici contrapposti, ma entrambi protagonisti “della dolce terribilità del vivere”. Scatta così una riflessione folgorante e impietosa sull’identità nazionale e sul carattere degli italiani di adesso, sui vizi e i luoghi comuni che dopo 50 anni di democrazia bloccata legano la fibra profonda della nazione e tracimano ubiquitariamente come un blob inarrestabile da destra a sinistra.
Una destra “conformista e trasformista sino al midollo”, fintamente conservatrice e clericale, priva di esempi di persuasione e di tradizioni spirituali autentiche, travolta dagli abusi farseschi del cesarismo berlusconiano, minata dal malcostume e dall’individualismo sfrenato, dall’immanentismo edonista e dalla fungibilità dei valori eletta a legge morale. Una sinistra al tramonto, priva di una visione prospettica e di energie vitali, incapace di uscire dai riti di passaggio del suo egualitarismo retorico e inconcludente (“il riformismo”), da un’eterna immaturità politica che la sradica dalla realtà e dalle urgenze sociali. Peggio sono i nuovi movimenti, che servendosi dei simulacri della democrazia diretta oggi riarmano il qualunquismo e il leaderismo in forme tecnologiche rivestendo il “populismo all’italiana” di assolutismo elettronico.
Ecco delineato il carattere emergenziale e situazionista degli italiani di adesso, ricorrendo al genio folgorante di Leopardi, alle drammatiche riletture pasoliniane, agli acri aforismi di Longanesi e Flaiano, sino all’identificazione con i personaggi cinici e grotteschi dei film di Sordi e Comencini. C’è spazio per la critica dei costumi e delle trasformazioni antropologiche e sociali più recenti. Fino ai quadri morali dell’identità nazionale offerti dalle analisi di Marco Revelli, Arbasino, Pier Giorgio Bellocchio (l’ideatore dei “Quaderni Piancentini”), dalla cinematografia di Bertolucci e Nanni Moretti. Solinas ama il confronto e preferisce sempre l’analisi puntuale dei fatti, del sistema delle merci e dei consumi, piuttosto che il comodo rifugio salvifico offerto dagli artifici puri e menzogneri dell’ideologia. Destra o sinistra, politici o cittadini, su tutto ha vinto l’aziendalizzazione della politica, la logica dell’impresa, la personalizzazione dell’azione politica e della tecnica finanziaria al posto degli ideali, l’oppressione del presente e il primato dell’economico sulla prospettiva storica e sulla prassi sociale.
“L’estasi del presente”, “la dittatura del superfluo” sull’utile e il necessario sono la rappresentazione collettiva di un vuoto continuo che occupa lo spazio sociale e gli interstizi di ogni esistenza individuale, in un crescente annichilimento di ogni valore di cultura, di civiltà e di identità condivisa indispensabile “a servire” in un orizzonte pubblico. È lo spettacolo osceno di uno sbraco totale: “La vita bassa, il tanga, l’infradito, le sneakers, il leopardato, il loft, il cool, il web, il mansardato, il Democrat, la Governance, la Spending Review, l’Enforcement, il Welfare, la Privacy, il Red, Competition is Competition, oh yes, we can… Da dove cominciamo, dove siamo andati a finire? L’Italia e gli italiani sono questa cosa qui, di cui fatichiamo a definire i contorni, da cui fatichiamo a mantenere le distanze, un concentrato di stereotipi e di parole d’ordine a braccetto con le mises più improbabili”. Non c’è pagina in cui l’autore si nasconda, e nemmeno nasconde mai il suo essere parte, a discapito di strategie e posizionamenti personali più comodi e sostenibili.
Ne è venuto fuori un libro che è prova e memoriale di una inoppugnabile intelligenza dei fatti. Quello scritto da Solinas è un pamphlet di rara nobiltà, dolente, acuminato, elegante e a tratti appassionatamente feroce, oltre che con la propria parte anche con sé stesso – e questo lo rende ancora più rispettabile. Una lezione di stile e di verità. Tra pagine vere, ricche di trafitture e pensieri utili per un tormentato contrappunto dialettico, quando l’ho letto mi sono sentito, lo dico con solidarietà contrapposta e senza compiaciuti fraintendimenti bipartisan, uno di sinistra che la pensa come uno di destra. Forse perché le ragioni e la moralità degli “altri” sono sempre un bel banco di prova, quando sono argomentate in modo onesto, civile e appassionato. Sarà perché in fondo entrambi complementari ai dissidi di una generazione bifronte, entrambi appartenenti a una minoranza di reduci dell’ideologia e della passione politica rimasti senza partito e senza utili contropartite. Residui di contrapposte seduzioni. Mohicani oggi rispettabilmente inattuali.
Da qui in avanti Solinas segna con disincanto il passo. “Occorrerebbe una nuova legittimità, un nuovo mito fondante, cosa non facile in un’Italia che dal secondo dopoguerra a oggi ha via via smarrito le coordinate del proprio destino, gettato via, come ferrivecchi inutilizzabili del fascismo, i caratteri essenziali di qualsiasi comunità nazionale: la memoria di se stessa, l’educazione civile, il senso del ruolo che si è chiamati a svolgere, l’indipendenza nei confronti delle altre comunità, la supremazia dell’interesse comune rispetto ai diritti dei singoli, l’etica, se è il caso, dei sacrifici contrapposta al tornaconto individuale. Lo sfascio attuale affonda le sue radici nella disgregazione dei valori basanti uno Stato e nella loro sostituzione con il rifiuto delle responsabilità, la supremazia del denaro come discrimine selettivo, la mortificazione della serietà dello studio, dell’applicazione rispetto al loisir, all’effimero, al disimpegnato. Di tutto ciò la società italiana è intrisa e non bisogna illudersi più di tanto su un Paese reale che si contrappone a quello legale, una “società civile” opposta e contraria a quella “politica”. Sono gli italiani, siamo noi italiani, il problema”.
Chissà cosa se ne farà l’Italia di gente così noiosamente spratica e idealista come noi.
(Mauro F. Minervino, «Calabria on web», 6 ottobre 2013)