
Prima pubblicazione di una nuova collana che le Edizioni Bietti dedicano al cosiddetto pensiero “antimoderno”, il libro di Davide Bigalli rappresenta una disamina delle posizioni di diversi autori volta ad evidenziare, dietro le semplificazioni di una certa cultura interessata solo a tracciare rigidi spartiacque ed affibbiare facili etichette, la complessità e la poliedricità che caratterizzano tale tradizione di pensiero, la quale, ad una analisi più attenta, emerge come una delle varianti o direttrici alternative di marcia della stessa modernità, e non quale mero ed impotente canto di nostalgia volto a rimpiangere improbabili bei tempi andati. Un libro che non intende, quindi, presentarsi come l’ennesimo “manifesto” dell’antimodernità, ma piuttosto quale rivisitazione critica di un orizzonte di pensiero che, intrecciandosi ed interagendo fruttuosamente con la modernità stessa, viene a delineare – come recita il titolo dell’opera – “un’altra modernità”, spesso occultata e fraintesa dai corifei e dagli apologeti della modernità “ufficiale”, con le sue schiere di santi e maître à penser canonizzati e mummificati.
È la nascita stessa della modernità, nel lento e tormentato passaggio tra Medioevo e Rinascimento, a sfuggire ad ogni lettura, schematica quanto banale, di scontro tra “moderni” e “antimoderni”, “progressisti” e “reazionari”, tra chi volge lo sguardo in avanti e chi indietro: al sorgere dell’epoca di rischiaramento delle tenebre medievali – nota giustamente Bigalli – sono proprio i sostenitori del rinnovamento a guardare al passato contro la contemporaneità, perché rinnovamento per gli umanisti significa proprio far rivivere l’età antica, vista come positiva, contro quella “moderna”, vista invece come negativa. È, quella umanistico-rinascimentale, una visione “ciclica” della storia, per cui la rivoluzione è intesa nel suo originario senso di “ritorno”; visione per molti versi opposta a quell’ottica “lineare” che dagli illuministi in poi ha contraddistinto il pensiero moderno che pur dell’umanesimo si è considerato orgoglioso erede, vedendo, paradossalmente, nella ciclicità l’espressione di una mentalità reazionaria volta a fermare l’inarrestabile corso delle “magnifiche sorti e progressive”. Eppure, ancora nelle “utopie” rinascimentali – da quella di Moro fino alla Nuova Atlantide di Bacone – è proprio la visione ciclica che sembra far capolino: la nuova società ideale, lungi dal fondarsi su presupposti puramente razionali fuori dal tempo e dalla storia come sarà per le utopie dei secoli a venire, segna più che altro il ritorno all’“età dell’oro”, quindi ad una condizione naturale, primordiale, precedente la corruzione determinata dal “progresso”. E non sarà questa anche la visione di quell’illuminista “eretico” che fu Rousseau? Come si può evincere da questi semplici richiami, il cammino dei “moderni”, nel suo rapporto con l’eredità degli “antichi”, è stato intrapreso lungo strade travagliate e problematiche anziché nell’ambito di confini certi e rassicuranti, come i continuatori di quel cammino hanno creduto o voluto far credere in seguito.
Sarà infatti solo con l’Illuminismo che alla visione ciclica della storia e del progresso stesso se ne sostituirà una lineare, per cui la modernità sarà proiettata in un futuro di là da venire che taglierà passo dopo passo ogni ponte con il passato, visto, complessivamente, come insieme di civiltà barbare ed arretrate, di cui nulla può essere valorizzato. La rivoluzione – come emerge ad esempio dall’Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano di Condorcet, richiamato da Bigalli come uno dei manifesti di questa nuova prospettiva – non sarà più il ritorno, su piani diversi e più elevati, di ciò che è già stato, ma la costruzione di un mondo completamente “nuovo”, rimodellato su un parametro – la “ragione” – fino ad allora disconosciuto dall’uomo, perciò vissuto in un vero e proprio “stato di minorità” – per usare la celebre espressione kantiana – dal quale si appresta finalmente ad uscire.
È proprio contro tale progetto che si solleva il pensiero “antimoderno”, che, al di là delle molteplici varianti e delle mille sfaccettature che lo connotano, si caratterizza in particolare per l’allarmata denuncia della natura astratta ed antistorica della società preconizzata dagli Illuministi e poi via via edificatasi nel corso dei secoli XIX e XX. In riferimento a tale arco temporale, il testo prende innanzi tutto in esame autori quali Herder, Novalis, Carlyle, Chateaubriand, ovvero i “classici” del pensiero “reazionario”, accumunati dalla rivalutazione della tradizione, dello spirito comunitario della religione, contro l’astratta ragione illuminista; rivalutazione che, esaltando il valore della differenza, del particolare, del dato storico concreto, finisce per saldarsi con la critica portata avanti contemporaneamente da pensatori liberali come Burke e Tocqueville, ma anche da poeti e scrittori quali Goethe e Flaubert, fino ad arrivare a Baudelaire, o da storici come Burckhardt, autori che nessuno si sognerebbe di ascrivere tout court al fronte reazionario e antimoderno, eppure uniti nella polemica contro il livellamento, l’omologazione, lo sradicamento delle differenze che la società moderna va generando in nome della “dea” ragione. Una polemica, questa, che, evidenziando il carattere alienante e disumano che alla fine tale società presenta, arriva ad incontrarsi addirittura con la critica di Marx, non solo sul piano speculativo, ma anche su quello più strettamente politico, come testimoniano le vivaci discussioni di metà Ottocento che vedono un po’ tutti gli intellettuali sopra richiamati impegnati a denunciare la natura ambigua e mistificatoria della democrazia moderna e del suffragio universale che, ridottisi a meri strumenti del conformismo generalizzato, finiscono per aprire le porte al totalitarismo e al bonapartismo.
In questo senso, Bigalli sottolinea come una tale e corale reazione contro la ragione “moderna” sembri anticipare, già nel XIX secolo, l’analisi della futura Scuola di Francoforte, compendiata nella celebre immagine della “dialettica dell’Illuminismo”: come i francofortesi, già i pensatori su citati appaiono concordi nell’evidenziare come la modernità abbia finito, in una sorta di clamorosa eterogenesi dei fini, per tradire se stessa, e i suoi “immortali principi” realizzare il loro esatto opposto, perché una ragione intesa come mera “ragione strumentale” e un’uguaglianza come semplice soppressione delle “differenze” vanno a negare proprio quella libertà, quell’emancipazione umana, di cui la modernità aveva fatto la sua bandiera, finendo per produrre uno sfruttamento e un dispotismo per molti aspetti peggiori di quelli che si volevano eliminare. Paradossalmente, è proprio in nome di un ideale di libertà e di umanità che gli “antimoderni” intraprendono la loro battaglia, ideale che evidentemente la modernità aveva contraffatto e tradito, e che quindi andava riproposto e riaffermato dialetticamente attraverso una nuova negazione.
La battaglia “antimoderna” si presenta così, fin dal suo nascere, con gli stessi crismi di legittimità di quella intrapresa dal pensiero moderno, nell’intento di delineare e costruire una società alternativa e non certo di rappresentare una semplice testimonianza culturale volta alla sola critica del presente in nome di un rimpianto passato. Gli antimoderni, come i loro avversari, sono proiettati in avanti, hanno un progetto per il futuro, che dovrà realizzare un mondo che anch’essi reputano “migliore” rispetto all’attuale. Ed è proprio all’interno di tale progetto che si riafferma quella visione ciclica della storia che fu già dei “moderni” umanisti, per poi essere rinnegata dai loro eredi illuministi e far posto a quella lineare, a riprova della complessità e della trasversalità dei motivi e dei temi che caratterizzano questa intricata vicenda: è in nome di un’umanità perduta e tradita, di una libertà calpestata e negata, che autori così diversi come i “reazionari” Novalis e Chateaubriand, i “liberali” Burke e Tocqueville, i “progressisti” Marx e Adorno, si rivoltano contro la modernità per riaffermare, un po’ come i vecchi umanisti, valori “antichi” ma ancora attuali perché perenni.
Seguendo questa prospettiva, Bigalli ha buon gioco nell’inserire in tale disamina perfino pensatori come Guénon ed Evola, il cui tradizionalismo integrale sembrerebbe posizionarli ad una distanza siderale rispetto agli autori fin qui considerati. Eppure, proprio il carattere terminale che l’epoca moderna presenta agli occhi dei due tradizionalisti permette anche alla loro speculazione di assumere il valore non di pura testimonianza intellettuale, ma di proposta costruttiva per l’epoca a venire, che non potrà che essere l’epoca della rinnovata età dell’oro dopo il tramonto definitivo del kali-yuga. Il rigido determinismo che muove il tempo storico come riflesso di quello cosmico non paralizza quindi l’azione, ma è di stimolo per tenersi pronti e con le idee chiare – siano quelle ispirate alla luce d’Oriente, nel caso di Guénon, al mito ghibellino d’Occidente, nel caso di Evola – in vista dell’imminente catastrofe e dell’apertura del nuovo ciclo.
Nel riemergere dell’idea di rivoluzione come ritorno e della nuova epoca come rinascita di valori traditi, non poteva mancare il richiamo alla figura di Nietzsche, forse l’autore che più di ogni altro testimonia della difficoltà ad inquadrare in modo univoco e monolitico i protagonisti della storia intellettuale in oggetto. Se per molti aspetti il suo pensiero sembra presentarsi come eminentemente “moderno” nella feroce demistificazione della tradizione metafisica e religiosa occidentale che arriva a fare di Voltaire, contro Rousseau, il suo nume tutelare, l’altrettanto feroce critica ai valori egualitari e democratici che conduce fino all’esaltazione della potenza della Chiesa contro il risentimento dell’“uomo buono” che le si è rivoltato contro sembra riportarlo nell’alveo della tradizione più smaccatamente reazionaria. Sulla base di tali presupposti, all’apparenza così poco conciliabili, è forse proprio il messaggio di Nietzsche per l’avvenire a presentarsi quale possibile e coerente sintesi delle diverse istanze che la storia a lui contemporanea ha fatto emergere, per cui l’epoca nuova che si manifesta all’orizzonte segnerà sì il ritorno di verità che la modernità ha subdolamente obliato e mascherato, ma che della modernità porteranno comunque il segno perché il ritorno, in quanto evento storico, di tutto quel che lo ha preceduto deve gioco forza farsi carico. In tal senso, l’appello di Nietzsche per l’“oltre-uomo” può essere davvero visto come l’appello per un’“altra modernità”, quale superamento dialettico della modernità stessa.
Il multiforme pensiero di Nietzsche ci riporta così ai diversi e complessi motivi che si intrecciano all’interno della tradizione di pensiero esaminata dal libro di Bigalli, evidenziando come sia arduo far passare lo scontro modernità/antimodernità attraverso fronti e schieramenti netti e definiti. Il contrasto finisce per assumere in tal modo contorni più sfumati, incerti, fino a relativizzarsi, in linea con il senso di relatività che promana dalla storia stessa e dal susseguirsi incessante delle sue epoche e delle sue civiltà. Come evidenziava Thomas Paine, ricordato da Bigalli proprio in rapporto al suo intento di stemperare le infinite diatribe che sul finire del Settecento contrapponevano “moderni” e “antimoderni”, nostalgici dei tempi antichi e apologeti di quelli nuovi, “chi è vissuto cento o mille anni fa è stato a suo tempo moderno, così come noi lo siamo oggi. Anche rispetto a lui vi sono stati degli antichi, e altri ancora ve ne furono rispetto a questi ultimi; anche noi, a nostra volta, saremo chiamati antichi. La verità è che questi frammenti di antichità, con il dimostrare tutto, non provano nulla. È un continuo contrapporsi di autorità ad autorità”. Era proprio in questa relatività, più che in ogni facile e a volte comoda contrapposizione, che per lo scrittore inglese stava ancora la lezione della storia come magister vitae.
(Stefano di Ludovico, «Diorama Letterario», n. 312/2013)