
Non aprite quella porta, il libro di Corvino racconta Leatherface e l’America cannibale.
Leatherface, la motosega e l’America cannibale: Non aprite quella porta diventa un saggio appassionante firmato da Niccolò Corvino e pubblicato da Bietti Edizioni. Un voliume che tra Freud, Jung, Bataille e le fiabe nere racconta perché l’horror di Tobe Hooper non smette di parlarci. Un viaggio allucinato tra cinema, filosofia e il clangore delle porte che si chiudono.
Parigi val bene una porta
Il mio primo incontro con il cult horror griffato Tobe Hooper avvenne proprio sotto la Torre Eiffel, nei primi anni Ottanta. In gita con la mia famiglia nella Ville Lumière, mi imbattei in una locandina che mi terrorizzò a morte: un uomo con una maschera mostruosa agitava minaccioso una motosega sotto la scritta The Texas Chainsaw Massacre. Tornato in Italia, iniziai a indagare per scoprire cosa fosse quell’immagine che tanto mi aveva turbato. Quando scoprii che in italiano il titolo era stato tradotto con Non aprite quella porta, la voglia di vedere il film si fece ancora più feroce, ma anche la paura. Tanto che lo vidi solo qualche anno dopo, credo al mitico cineclub Obraz di Milano.. E il libro Non aprite quella porta: Il massacro continua (Bietti Fotogrammi) di Niccolò Corvino rispecchia appieno ciò che quel film rappresenta per me: il perturbante che ti insegue anche a luci accese. E anche quella schidionata di sequel e prequel, mai davvero all’altezza, diventano la cartina di tornasole della potenza oscura di questo incubo, nato all’ombra del serial killer Ed Gein eppure illuminato a giorno. D’altronde, all’inferno pare faccia piuttosto caldo
Questo volume ci invita a spalancare quella porta con l’incoscienza dei cinque ragazzi texani di Hooper, pronti a farsi smembrare con metodo, sudore e pensiero critico. Non a caso, nel notevole documentario Chain Reactions, presentato all’81ª Mostra del Cinema di Venezia, il regista Alexandre O. Philippe costruisce un dialogo tra le riprese originali di The Texas Chain Saw Massacre (in parte inedite) e le reazioni contemporanee al film, cinquant’anni dopo. E Stephen King, grande fan, chiosa con ironia perfetta: “Un film su un gruppo di psicotici diretto da uno psicotico”. Una delle tante battute che inchiodano il senso del film e del libro di Corvino. E ogni volta che ripensiamo a quel pomeriggio d’estate colmo di luce e spensieratezza, pronto a trasformarsi in un’ombra cupa che avrebbe cambiato per sempre le vite di quel quintetto di adolescenti, comprendiamo che eventi di quel giorno, destinati a scolorire ogni innocenza, avrebbero aperto le porte a uno degli orrori più agghiaccianti mai scritti nelle pagine della storia americana.
Cenerentola non vive in Texas
Perché questo non è un semplice saggio cinefilo, ma un viaggio allucinato che si legge con le mani sporche di sangue e le sinapsi accese. Corvino racconta come Leatherface sia il nostro ES freudiano in piena crisi petrolifera, un grumo di impulsi brutali che macina carne e identità, mentre un Super-Io deformato (il Cuoco di casa) lo rimprovera non per aver ucciso qualcuno, ma per aver rovinato la porta. Leatherface è anche l’Ombra junghiana, quella parte rimossa che si fa carne e sega elettrica, ballando nella polvere texana con la maschera di pelle altrui per sopravvivere in una famiglia che è un freak show del capitalismo rurale.
E se tutto questo non bastasse, Corvino porta anche Bataille al banchetto: la cena di Sally, la final girl che urla ma non si spezza, diventa un rito sacrificale che sa di carne bruciata e sangue, una messa nera in cui la sacralità si trasforma in digestione. La violenza non è solo uno schizzo di rosso sullo schermo, ma una liturgia che ci ricorda quanto siamo vicini all’abisso ogni volta che ridiamo di Leatherface, perché in fondo siamo seduti a tavola con lui.
Tra una citazione di Freud e Jung e una rasoiata di ironia, Corvino ci ricorda che Cenerentola non vive in Texas. O meglio, ci vive, ma alla festa di mezzanotte ci arriva ricoperta di sangue, non di paillettes, senza una fata madrina che la salvi, ma con una motosega che ruggisce alle sue spalle. E Sally, come Barbablù insegna, apre la porta che non dovrebbe aprire e non trova tesori, ma la sua stessa paura. Eppure corre, urla, si salva con un riso isterico che è un inno alla sopravvivenza e una risata in faccia all’orrore.
Questo libro è denso ma scorrevole, poetico ma mai autoreferenziale, capace di farci sentire il clangore delle porte che si chiudono e l’odore del sudore che si appiccica sulla pelle sotto il sole texano. È come bere bourbon puro mentre la motosega ruggisce sullo sfondo: ti brucia, ma ti sveglia.
Aprire quella porta, alla fine, significa guardare dentro noi stessi
Non aprite quella porta: Il massacro continua è il compagno ideale per chi crede che l’horror non sia un gioco di spaventi, ma una lente critica per svelare la nostra fame di storie e le nostre paure collettive. Un saggio che ti prende per la collottola e ti costringe a guardare dentro la porta che non vuoi aprire, per scoprire che il massacro non si è mai fermato e che, in fondo, la vera America siamo noi, con i nostri mostri, le nostre fiabe nere e il nostro bisogno disperato di sopravvivere.
Perché aprire quella porta, alla fine, significa guardare dentro noi stessi.
Insomma, a cinquant’anni dalla sua uscita italiana, Non aprite quella porta resta un varco spalancato nel tempo, un sussurro che non smette di raggiungerci. L’orrore, ci ricorda, non è un ricordo sbiadito né un’illusione cinematografica, ma un battito oscuro che torna ogni volta che un’opera riesce a denudare i fantasmi della sua epoca. E finché quell’eco risuona, non possiamo chiudere gli occhi: siamo chiamati a scrutare, senza tremare, il buio che abita la realtà.
Paolo Nizza ©skytg24 5 luglio 2025