L'ultimo sguardo. Vita e morte di Gian Maria Volonté

Stefano Loparco
2025-03-03 14:25:57
L'ultimo sguardo. Vita e morte di Gian Maria Volonté

SE SI VEDONO, uno dopo l’altro, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Sacco e Vanzetti, La classe operaia va in paradiso e Il caso Mattei, “non ci si sottrae al dubbio di trovarsi ancora di fronte a quel fenomeno molto italiano del mostro che viene dal nulla, di quello molto bravo […] con alle spalle non una schiera di concorrenti battuti ma semplicemente il deserto”.
Lo affermava Corrado Augias già nel 1971 e vale ancora oggi, a trent’anni dalla scomparsa, per Gian Maria Volonté, l’attore che avrebbe voluto saper raccontare il vento e che Tullio Kezich definiva “il Paul Muni italiano”, capace di dimostrare “quanto sia e sciamanica e, in fin dei conti, religiosa l’arte della per-
sonificazione”.
Eppure se, in onore a un artista che (citando Fabrizio De André) procedeva “in direzione ostinata e contraria”, si apre il nuovo libro di Stefano Loparco (L’ultimo sguardo. Vita e morte di Gian Maria Volonté, Bietti, pagg 200, € 18,00) a partire dall’epilogo, sale l’amarezza nel leggere: “Contrariamente a quanto accaduto, tra gli altri, a Lino Banfi, Lando Buzzanca, Bud Spencer, Franco Nero, Ornella Muti, Ciccio In-
grassia, Roberto Benigni, Enrico Montesano, Luca Barbareschi e Kabir Bedi, Gian Maria Volonté non è mai stato ritenuto meritevole di alcuna onorificenza dalle istituzioni italiane.” Per quanto si possa essere affezionati agli interpreti sopra citati (e ci mancherebbe), solo la mancanza di obiettività spingerebbe ad affermare che costoro abbiano giocato nello stesso campionato di Volonté, colui che diventava le vite degli altri e che, stando ai ricordi della figlia Giovanna, “era un vampiro, entrava nei personaggi, come in un viaggio interiore”.
Per fortuna, l’assenza di riconoscimenti statali è parzialmente controbilanciata dalle decine di premi ricevuti in ambito cinematografico (coronati dal Leone d’oro alla carriera nel 1991) e dal timore reverenziale che coglie qualunque professionista voglia avvicinarsi alla sua figura. Si sa che gli standard qualitativi pretesi dal Volonté attore erano elevati: sottoponeva i diversi progetti a una selezione ferrea, si preparava a ciascun ruolo con una perizia maniacale (per Morando Morandini, fu proprio questo suo mi-
metismo a impedirgli di diventare un divo presso il grande pubblico) e nella sua figura “si sono cristallizzati alcuni dei valori più nobili del progressismo italiano”.
Ma per quel che riguarda l’uomo? Loparco riflette su quanto l’inquietudine, la durezza e l’aura maledetta di Volonté celassero una sensibile vulnerabilità. In lui, la riservatezza, la serietà e l’idealismo spigoloso convivevano con il costante bisogno di conferme e il desiderio di un po’ leggerezza. Certo, si presentava come un individuo monosillabico e ostile, per nulla idoneo alla popolarità (secondo Enzo Biagi), respingen-
te come un muro (diceva Maurizio Costanzo), inflessibile se si parlava di politica e persino pericoloso, se gli saltava la mosca al naso.
Ne Il buono, il brutto, il cattivo, Sergio Leone diede la parte di Tuco a Eli Wallach sia perché gli serviva un interprete dalla verve comica, sia perché pensava che Volonté avrebbe trasformato il personaggio in un nevrotico. Eppure, Gian Maria era entusiasta all’idea di collaborare con Paolo Villaggio e Massimo Troisi (in progetti, purtroppo, naufragati), sapeva organizzare burle, fare buffe imitazioni e uscirsene con battu-
te anche pesanti. Rideva rumorosamente e, quando era di buon umore, cantava interi pezzi d’opera a squarciagola, fingendo di strozzarsi con gli acuti sopranili. Magari non era capace di raccontare le barzellette, “ma insomma, ci provava, a essere felice. Un giorno aveva detto: Cerco di capire, di intui-
re le ragioni della mia depressione, di superarla se è possibile […] ma disperato no, non sono. Resta sempre un terreno inesplorato dove la speranza può rinascere, e questo terreno può essere il domani”.
Nel 1994 l’emarginazione progressiva dal cinema italiano e dal Partito Comunista porta un Volonté ormai stanco e disilluso sul set de Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos. È l’ultimo set di un uomo che “sente di aver perduto la sua personale battaglia al servizio di un mondo migliore” e, insieme “l’ultimo sguardo di Gian Maria Volonté. Forse il più lucido, il più consapevole”.
Nella scomparsa improvvisa dell’attore (che aveva predetto la propria morte solo pochi giorni prima), Loparco trova la chiave per riavvolgere e dipanare a più riprese il film della vita di Volonté, complici il sostegno della figlia Giovanna e la cura editoriale di Ilaria Floreano, la quale rende omaggio a Gian Maria
con un abbecedario personalizzato, dalla A di Attore (“parola un po’ piccola per contenerlo”) alla Z di Zampata, che il “leone medievale” (cit. André Delvaux) diede in Grecia, lontano da “quest’Italia che oggi lo farebbe rabbrividie e pare averlo quasi completamente dimenticato. Quest’Italia che Gian Maria ha tentato indefessamente di scuotere e risvegliare con il suo impegno d’attore e il suo cinema d’impegno.”
Lavori come L’ultimo sguardo portano avanti la battaglia di un uomo che “era perfettamente consapevole di essere, e voleva restare, uno degli strumenti del linguaggio cinematografico […] E per difendere il contributo linguistico (appunto, non artistico) che sentiva di apportare, a lungo e con zelo combatté”.

Angela Bosetto ©La Rivista del Cinematografo marzo 2025

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