
Ho letto tutto di Stefano Loparco: i suoi libri possiedono connotati ulteriori ai meri saggi di cinema. In quanto formalmente esegetici, e puntualissimi nella sostanza ontologico-sociale, i libri di Stefano Loparco sono anche esplorazioni di corpi, storie, psicologie, facce da cinema a confronto col processo inalienabile della Storia. Che inquadrino la mitopoiesi della Fenech nell’alveo controverso degli anni Settanta, il maledettismo reiterato di Klaus Kinsky, o ancora la tanatologia sublimata in mondo-movies di Gualtiero Jacopetti, i testi cinematografici di Loparco si collocano ben oltre il genere biopic da cui germinano in apparenza, e al genere cinema con cui si contaminano. Meta-contenutistici e non circostanziali ai soliti venerati maestri dei film d’autore, ciò che si rintraccia nei libri di Loparco è il filo rosso di una fenomenologia chiaroscurale, immanente a vita-cinema-politica-costume-società.
Date siffatte premesse, era inevitabile che i focus speculativi di Loparco finissero col focalizzarsi sull’uomo-attore Gian Maria Volonté ( L’ultimo sguardo. Vita e morte di Gian Maria Volonté, Bietti, 2025) e che mai come nella fattispecie la morte aleggiasse come ombra costante sul tenore del libro, e quindi sull’attore iconograficamente tramandato come il più ombroso e al contempo (sul set) istrionico, vitalistico, clamoroso, chiacchierato, impegnato, del cinema italiano. In altre parole, al netto del consueto approccio alla materia di Loparco, ciò che affiora di inedito – o, se preferite, di ulteriore – da L’ultimo sguardo, sono le eco dell’indole oscura, funzionalmente borderline di Gianmaria Volonté: solitaria, riservata, taciturna, a lungo depressa (in quanto impegnata a familiarizzare con l’idea della morte), come si è detto, sottesa all’apparenza forsennata di alcuni personaggi da lui interpretati. Un male interiore sottotraccia all’enfasi superomista del commissario di Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, come alla terragna focosità trasferita al cattivo dello spaghetti western di Sergio Leone, per dirne due.
Politicizzato senza altri interessi se non la convinzione ideale, e per questo simbolo del cinema di impegno civile, anti-divo mimetico e magnetico sul set, Gian Maria Volonté è stato il più “americano” degli attori italiani: per lo scavo interiore operato sul personaggio, per l’abnegazione che metteva nell’arrivare a essere il personaggio. Sui set frequentati – non certo nella vita, in cui si è distinto per la coerenza ideale – Volonté è stato uno-nessuno-centomila, attore inarrivabile in forza del pathos trasferito ai suoi antieroi; corpo-attore inalienabile dal tenore complessivo dei film nei quali ha recitato. Così lo tratteggia, fra l’altro per interposte persone, Stefano Loparco a pagina 90 del suo libro: «Serio, riservato e con una forte interiorità; ma Gian Maria Volonté è stato anche un uomo vulnerabile, bisognoso di conferme. Enzo Biagi che l’ha intervistato all’apogeo della sua dimensione divistica, lo ha ricordato inidoneo alle pubbliche relazioni, “anche la popolarità lo imbarazza”; più portato all’ascolto che alla parola per Maurizio Costanzo, che ha raccontato di un uomo “tristemente ammutolito”, tra gli ospiti più difficili del suo talk Bontà loro, respingente come un muro mentre la giornalista Maria Pio Fusco, invaghita dalla sua bellezza al punto da averglielo confidato, è stata vittima della reazione stizzita dell’attore. In molti ricordano così Volonté, serio o monosillabico, di natura ostile, con il suo sguardo irraggiungibile, di chi sceglie di vivere al centro della sofferenza umana. In fondo era solo un uomo e degli uomini sapeva rappresentare ogni parte in commedia. Il meglio e il peggio».
Gian Maria Volontà possedeva dunque la spigolosità degli idealisti e la scontrosità dei timidi. È morto da solo, d’infarto, nel bagno di una stanza d’albergo di Fiorina, in Grecia. Stava recitando ne Lo sguardo di Ulisse di Angelopoulos. Era il 6 dicembre 1994, nel film avrebbe dovuto interpretare il responsabile della cinemateca di una Sarajevo lacerata dalla guerra. Di quell’ultimo suo lavoro cinematografico restano una manciata di fotogrammi e, conservata nella Bibliomediateca di Torino, la trascrizione scritta a mano di uno stralcio del copione. Ennesima riprova di come Volonté attraversasse visceralmente ogni esperienza cinematografica, comprese quelle assecondate giocoforza: non voleva andare in Grecia, era quasi presago di morirci, in Grecia. «Roma, 6 dicembre 1994, mattina. […] Angelica ha un presentimento. Aveva sentito il compagno quella stessa mattina al telefono, stava bene. E allora perché quella chiamata da Fiorina? E perché non era stato Gian Maria a fargliela? Improvvisamente le tornano in mente le parole che le aveva rivolto la sera del 28 novembre, alla vigilia della partenza per Sarajevo: “Non mi far andare Angelica, non voglio partire”. “E perché?”. “Perché morirò”.
Assecondato da un’articolata e colta introduzione di Ilaria Floreano (co-direttrice con Claudio Bartolini dell’ottima collana di cinema “I libri di Inland” delle Edizioni Bietti), L’ultimo sguardo restituisce, in ultima analisi, il quadro frastagliato – civile, poetico, politico – di un uomo e un artista coincidenti, non regimentati, refrattari al potere come alla convenzionalità. Risiede in questo il merito maggiore del saggio narrativo di Stefano Loparco: nell’essersi chiamato fuori da approcci analitici scontati, simmetricamente a un attore che tutto è stato tranne che ovvio.
Mario Bonanno ©Sololibri.net gennaio 2025