
Un saggio da non perdere, che si impone come pietra miliare per qualsivoglia lavoro sul regista danese, 650 fitte pagine che sono una scommessa di spessore sisifico accettata e vinta dall’autrice, con esattezza non scevra da perizia
Per capire Lars von Trier bisognerebbe forse metabolizzare quanto scriveva Pirandello sull’incapacità di intendersi, gli uni con gli altri, quando scrive:
“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ciascuno un suo mondo di cose. E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai”.
Che si aderisca o meno al disilluso sentenziare pirandelliano, le provocazioni visive e verbali del regista danese Lars von Trier sono comunque sconsigliabili a chi si fermasse alla mera evidenza delle immagini e/o delle opinioni espresse a voce. Un filmaker di chiara – pur se controversa – fama che dice di capire Hitler malgrado abbia fatto “molte cose sbagliate”, perché ne coglie lo smarrimento dello sconfitto, “seduto nel suo bunker, alla fine…”, risulta divisivo per l’incapacità dei molti di andare oltre l’enunciato, eludendone di fatto sfumature e sottintesi (l’immedesimazione umana di von Trier, nella fattispecie). Alla luce del suo essere uomo e artista sui generis, viene quasi da chiedersi: cosa comprendiamo – in realtà – dei film di Lars von Trier, anche quando crediamo di averli compresi?
Nel deserto della bibliografia italiana, lo studio di Elisa Battistini, Lars von Trier. La luce oscura (Bietti, 2025) ci viene in soccorso in modo capillare. 650 fitte pagine sono una scommessa di spessore sisifico, accettata e vinta dall’autrice – giornalista e critico cinematografico – con esattezza non scevra da perizia. Non ho motivi per essere apologetico. Abbiamo desiderato a lungo uno studio italiano sul cinema di von Trier: La luce oscura dimostra che è valsa la pena aspettare.
Ed è vero, d’altro canto, che pensi a Lars von Trier e pensi a genio e sregolatezza. A splendori assoluti come Melancholia e Le onde del destino e al tempo stesso al biasimo pseudocritico spesso piovutogli addosso. Pensi alle accuse di misoginia, alle 5 ore mezza di Nymphomaniac sul limitare del porno. Insomma: se ti trovi a discorrere di Lars von Trier o ti mordi la lingua e stai zitto o ti dai una mossa e decidi da che parte stare. Tertium non datur, difficile rimanere indifferenti. Dissociare l’uomo-artista da uno specifico cinematografico declinato attraverso audacia contenutistico-espressiva confinanti col poetico, e l’efferato nel contempo. Il numero tre deve, fra le altre cose, confarsi al regista. Chissà se in virtù di misteriose astrazioni, riepiloga molte delle sue fasi creative. Tre i ritorni a The Kingdom (1994-2022). Tre i lungometraggi che compongono la cosiddetta “Trilogia del cuore d’oro”: Le onde del destino (1996), Idioti (1998) e Dancer in the dark (2000)]. Tre quelli della primigenia “Trilogia europea”: L’elemento del crimine (1984), Epidemic (1988) ed Europa (1991). La depressione (di cui von Triers ha peraltro lungamente sofferto) è invece il filo rosso (o nero?, nerissimo) della triade omonima composta da Antichrist (2009), Melancholia (2011) e Nymphomaniac (2014), accomunati, oltre che dai toni, dalla presenza di Charlotte Gainsbourg, a quanto pare la sola capace di spuntarla emotivamente sui metodi del regista danese (tanto Nicole Kidman con Dogville quanto Bjork con Dancer in the dark non ce l’hanno fatta: hanno mollato dopo soltanto un film).
Ulteriori informazioni (una messe corposa di informazioni ulteriori) si trovano tra le pagine di questo testo funzionalmente ipertrofico e ammaliante, benedetto dallo stesso von Trier che si è rivelato personalmente all’autrice, accettando di parlare di sé stesso e della sua carriera (che il diavolo sia meno brutto di come lo si dipinge?). Oscuro, discusso, ingegnoso, spiazzante (non solo per via del manifesto formale Dogma 95 che ha ideato, quindi praticato), von Trier sfiora, in ultima analisi, la tautologia: questo saggio ne esplora gli abissi, le luci, l’assoluta unicità, e riesce a farlo con un’accuratezza che sorprende.
Concludo con una doppia citazione dal volume. La prima è di Willem Dafoe (sic!, se si considera che l’autrice è nata e risiede in Italia), e riguarda la lavorazione di Antichrist.
“Per la preparazione di Antichrist, Lars mi spedì un libro sulla CBT […] terapia cognitivo comportamentale, e mi mise in contatto con la Columbia University di New York City, dove mi fu permesso di assistere ad alcune sedute con i pazienti. Si tratta di una terapia che aiuta le persone a dominare le proprie fobie. Non era soltanto la terapia che Lars aveva seguito, ma anche la base per il tipo di lavoro che il mio personaggio avrebbe fatto nel film […] La sua direzione [delle riprese, ndr] era sempre pragmatica, non psicologica. Ai miei occhi, tutto stava nel fatto che noi facessimo e lui cogliesse. Ci diede spesso indicazioni sciocche, ma divertenti, e abbastanza significative come ‘Charlotte, 10% in più; William, 40% in meno'”.
La seconda è della capacissima Elisa Battistini, che si esprime sui primi passi – passi da elefante in una cristalleria – di von Trier:
“Lo sperimentalismo, le regole, la fede nel proprio sentire, la performance come mitopoiesi: Lars von Trier fece irruzione nel mondo del cinema con coordinate molto nette. Le sue prime sortite sulla stampa danese mostrarono un giovane uomo ai limiti dell’arroganza e con in testa un disegno controcorrente, per cui l’immagine sarebbe dovuta tornare centrale e preminente rispetto al testo, alla storia, riconquistando al cinema il proprio statuto artistico e smarcandosi totalmente dalla televisione che stava schiacciando la creatività. La settima arte danese, per von Trier, aveva bisogno di essere intossicata da personalità che parlassero una lingua non ammansita, la vera lingua dell’arte, che non avrebbe potuto essere innocua e non avrebbe avuto niente a che fare con un conciliante realismo sociale”.
Sia detto, infine, senza ipocrisia: Lars von Trier. La luce oscura è un saggio da non perdere, che si impone come pietra miliare per qualsivoglia lavoro prossimo venturo sull’autore.
Mario Bonanno ©Sololibri.net luglio 2025