Metapolitics: «La rivista della settimana: Antarès. Prospettive antimoderne»
Antarès Prospettive Antimoderne
Può esistere una modernità senza progresso? Non è facile rispondere perché è come indagare sul futuro di un’automobile priva di ruote… Che farsene di una Ferrari con le quattro gomme fuori uso? Che attendersi da una modernità incapace di progredire? Del resto, gli stessi apologeti della modernità, preoccupati quanto i denigratori, oggi preferiscono parlare di post-modernità, ossia di una realtà né moderna né antimoderna, assai simile a un inutile e malinconico deposito di vecchie automobili in attesa di demolizione.
Il nostro giro di parole ha un senso preciso, e spieghiamo subito quale: “Antarès”, rivista diretta e pensata da Andrea Scarabelli e da un gruppo, altrettanto giovane, di redattori (benché direttore responsabile sia Gianfranco de Turris, vecchia volpe cui va tutta la nostra stima…), sembra arrovellarsi intorno al complicato quesito di cui sopra. Non per nulla, e a proposito della nostra metafora automobilistica, uno dei fascicoli che abbiamo sotto gli occhi – il n. 1, per l’esattezza – propone il camminare come metafora di una modernità finalmente capace di apprezzare il gusto di andare a piedi… Del resto a cosa si fa cenno nel “Manifesto” pubblicato nello stesso fascicolo? A «un antimodernismo che non si risolva in una sterile critica del presente ma che sia in grado di fornire a questo ultimo strumenti che, invero, sono già in suo possesso. Dotare la modernità di una metafisica alla sua altezza: questa la celebre scommessa tra Faust e Mefistofele, della quale il presente progetto si sente erede». In sintesi: «Curare la modernità con la modernità stessa. Questa è la scommessa intellettuale che anima le presenti ricerche».
Ottimo. Perciò, per non uscire di metafora, le «prospettive antimoderne», come recita il sottotitolo, sono tali ma solo nei riguardi di una modernità “motorizzata”, intenta a spostare le linee del traguardo sempre più avanti, rifiutando di interrogarsi sul senso della sua corsa.
Però, e qui torniamo alla questione iniziale, è possibile una modernità senza progresso “incorporato”? In che modo, per riprendere il fascinoso titolo della rivista, Antarès potrà dialogare con il rivale Ares? Basterà una nuova metafisica? O forse va attribuito un senso diverso al progresso, proprio per mantenerlo a galla nel mare magnum modernità. Detto altrimenti: serve di sicuro una nuova metafisica ma – ecco il punto – capace di inglobare un concetto “altro” di progresso. Quale però? Ad esempio, si potrebbe rileggere l’opera di Robert Nisbet, dove, come mostra il ghiotto libro fresco di stampa di Spartaco Puppo (Robert Nisbet e il conservatorismo sociale, Mimesis), l’idea di progresso viene ricondotta – e depotenziata – nell’alveo di quella domanda di comunità, innata nell’uomo; domanda, la cui persistenza storica e sociologica rivela che il vero progresso non è rappresentato dal cambiamento in quanto tale, bensì da quei mutamenti in sintonia con il valore non negoziabile (perché intramontabile) della comunità. Ovviamente, Nisbet si riferisce alla comunità così come viene intesa nella cultura anglo-americana: una comunità liberale che non sia mera somma dei singoli individui, né puro surplus sovraindividuale, ma un insieme ordinato di pratiche e relazioni, rispettose delle libertà dei singoli, incluse quelle economiche. Semplificando: un olismo ben temperato, o comunque ritagliato su un equilibrio tra il tutto (i doveri) e le parti (i diritti), sempre attento al rispetto delle opzioni individuali e delle scelte di minoranza. Ennesimo tentativo di quadratura del circolo anche quello di Nisbet? Forse. Ma quale idea regolativa non lo è?
Del resto, piaccia o meno, senza un’idea di futuro (e di progresso) non c’è modernità, e senza modernità non c’è futuro (e progresso). Non è un gioco di parole: all’uomo moderno, preda di un grande smarrimento, va offerta una narrazione convincente e soprattutto integrale, capace di fondere insieme passato, presente, futuro. Quindi svolta metafisica, ma anche storica e sociologica. Di qui, l’impossibilità di rinunciare all’idea di progresso, non disgiunta da quella di comunità, nel senso però cui abbiamo accennato. Altrimenti, qual è il rischio? Quello di restare impantanati, come sta accadendo, nella post-modernità. Che, ripetiamo, è una modernità in attesa della sua “rottamazione”. Sempre che, ma su questo Antarès si è giustamente defilata, non si voglia riabbracciare la causa perduta del “passatismo”: errore uguale e contrario al “presentismo”. E la stessa cosa si potrebbe dire anche a proposito del “futurismo”, soprattutto se inteso erroneamente come culto del futuro in quanto tale.
Comunque la si pensi, non possiamo non porgere i nostri auguri (e complimenti) ai giovani di Antarès, anche per il solo fatto di aver così generosamente accettato l’ardua sfida. D’altronde, dove non c’è sfida non c’è neppure “progresso” intellettuale…
(Carlo Gambescia, «Metapolitics», 21 giugno 2012)