
Forse con un po’ di ironia, il titolo di questa recensione riprende il nome dell’autobiografia politica di Ingrao, il leader della corrente di Sinistra all’interno del Partito Comunista Italiano del periodo repubblicano. Al di là di battute ed etichettature, il libro di Stenio Solinas, “Gli ultimi Mohicani. Quel che resta della politica” (Bietti, 2013), racconta un percorso concettualmente simile, benché all’interno di un’opposta cultura politica: cambiare la Destra (non la Sinistra), standovi al di dentro, nella materialità delle sue contraddizioni e nei limiti delle sue classi dirigenti – sempre che si siano prodotte classi dirigenti, e non piccoli apparati transitati attraverso fasi, sigle e congerie dell’ultimo minuto.
Stenio Solinas era un esponente di primo piano di quel movimento che per facilitazione giornalistica si chiamò la Nuova Destra, ma che aveva alle spalle un certo lavorio intellettuale: il suo ieri era l’ironia irriverente di Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, che aveva tentato di “democraticizzare” senza troppo successo la struttura interna del Movimento Sociale Italiano, il suo mentore fu Tarchi, all’insegna del recupero della tradizione francese, nell’unione tra libertarismo e comunitarismo, il suo domani sarebbe stato (ma non vale) quello di un Buttafuoco, di una Perina, ben più che di un Veneziani.
E tuttavia quella Destra aveva il peccato originale di non essere ricompresa nell’arco repubblicano antifascista. Peccato non da poco, visto che ad esso sbrigativamente si accodarono persino partiti e movimenti politici che non avevano esattamente brillato per antifascismo militante (tutta la Democrazia Cristiana che non s’era riconosciuta nella Brigata Matteotti o nell’attivismo contro il regime, parte dei liberali e molti altri che avevano, sì, avversato la dittatura, ma senza farne rivendicazione politica, più spesso critica erudita e non sempre reale opposizione sociale).
In seconda battuta, nella ricostruzione di questo passaggio piace in Solinas il recupero di categorie romantiche che ci pare funzionino: per una minoranza di giovani degli anni Settanta e Ottanta la scelta della Destra Sociale fu, più che cataclisma ideologico e sbornia guerrafondaia, la necessità di stare dalla parte dei “vinti” (a modo loro), di quelli esclusi dal riconoscimento della cultura ufficiale. E Solinas non le manda a dire quando contesta la repressione penale e le collusioni, anche di apparato, degli ultimi Settanta, quando le leggi emergenziali avevano fatto il loro corso ed erano diventate patrimonio generale della potestà punitiva statuale.
Il libro, in fondo, racconta la passione della politica come arte del quotidiano, come discussione nel circolo, come esposizione di iniziative e condivisione di relazioni. Un percorso generazionale più largo delle appartenenze politiche, rispetto al quale il giornalista non ha remore nemmeno a criticare ferocemente e a condannare, come difficilmente la Destra aveva saputo fare, gli episodi più truci: dallo stupro di Franca Rame alla propensione, spesso reciproca, a spranghe, coltelli, pestaggi.
Se questa è la parte più lucida del lavoro, perché racconta l’amore per l’utopia che si lascia strumentalizzare in esaltazione dell’odio, non dispiace neanche la seconda sezione del testo; Solinas è un quieto lavoratore di concetto, nei secondi anni Ottanta. Fa, appunto, il giornalista; si impegna nel privato, ma si dichiara distante anni luce dalla cultura all’epoca in corso di radicamento, fatta di modelli largamente eteronomi, di voglia di successo e consumo, di stereotipizzazione persino delle pulsioni più ovvie (da quella fisica a quella di carriera, e così via).
Chi scrive non ha problemi a dichiararsi estraneo alle pratiche e alle idee di Solinas o del suo gruppo di riferimento politico negli anni presi in esame dal libro. Ciononostante, si può abbozzare tranquillamente una critica al cedimento di Almirante verso posizioni di mero conservatorismo sociale e una ancora più prudente rivalutazione di personaggi e temi della “sinistra rautiana”, facilmente più decorosi di tante, troppe, degenerazioni dell’appartenenza politica italiana, vista da destra e vista pure nei decenni successivi.
C’è, in fondo, il sogno di una transizione incompiuta, di un elogio dell’articolazione e della complessificazione che non si è mai trasposta da un’elite di osservatori più lucidi alla capacità rappresentativa e decisionale delle generazioni successive. In questo, più che inutile piagnisteo (il “come eravamo” che non regge mai alla prova di quel che siamo davvero stati), si vede soprattutto una pacata ammissione di sconfitta e un elenco, a volte poco indulgente, di occasioni mancate.
Un libro su cui riflettere. Anche quando si è mohicani nell’altra parte della prateria.
(Domenico Bilotti, «Apulia News», 15 ottobre 2013)