
A quattordici anni dal suo debutto sugli scaffali, Kill Baby Kill! Il cinema di Mario Bava (Bietti, pagg. 420, euro 22) ritorna in libreria grazie a Bietti, arricchendo di nuovi e interessanti contributi la già vasta schiera di saggi e testimonianze che, citando i curatori del volume Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni, “ci hanno aiutato a ricostruire il ritratto di un artista formidabile che non smetteremo mai di amare”, come dimostra l’affettuosa presentazione di Joe Dante, secondo cui i film “affascinanti e unici” di Bava “sono una parte piccola, ma piuttosto importante della cultura italiana, e mi sorprende che non siano popolari in patria”. Per fortuna (e pure grazie all’impegno di una serie di celebri estimatori, tanto più cruciali quanto più – all’apparenza – inaspettati), Bava è stato ampiamente riscoperto e la sua fama è in ascesa fra le nuove generazioni, ma ogni pubblicazione che lo riguarda è la benvenuta, soprattutto se, come in questo caso, si rivela scorrevole, spiritosa, puntuale e sinceramente affezionata a un maestro che forse non si sentiva né voleva essere definito tale.
Suddiviso in dieci segmenti (Un lento apprendistato, Il gotico e il terrore, Il peplum e il western, Il giallo e il thriller, La fantascienza, Gli effetti speciali, Il pop, Il crepuscolo, La critica e Lessico familiare) il volume si avvale, naturalmente, della consueta (ma sempre utile) serie di analisi tematiche e specifiche, a opera di Steve Della Casa (La dinastia dei Bava e Forzuti e vampiri), Tim Lucas (Il tocco delicato della paura), Alessandro Borri (Ontografie del fantastico), Alberto Pezzotta (Il regista nascosto), Roberto Silvestri (Scusi, dov’è il West?), Francesco Di Chiara (Le urla e il furore), Emanuele Marchesi e Paolo Noto (Il pianeta dei morti viventi), Giona A. Nazzaro (Il mondo non basta), Max Croci (Sangue e merletti neri), Sergio Grmek Germani (Il vecchio maestro e la televisione), Alessandro Boschi (Il Mario che sapeva troppo) e dello stesso Acerbo (Gli anni maledetti). Se tali testi forniscono la necessaria base da cui sviluppare la propria (ri)scoperta di Bava, Kill Baby Kill! vivacizza la lettura, affiancando agli approfondimenti critici le testimonianze dall’interno di Carlo Rambaldi (La bottega degli stregoni), Mario Monicelli (Inseguendo Totò e Fabrizi), Christopher Lee (Il potere dell’immaginazione), Luciano Emmer, Mimmo Palmara (Francisci, dittatore gentile), Alberto Bevilacqua (Una religiosità demoniaca) e Giorgio Ardisson (Ercole contro i Vichinghi). Ma, lungi dal limitarsi ai soli amarcord nostrani, il libro propone anche gli illustri tributi all’arte e al genio di Bava firmati da Tim Burton, Guillermo del Toro, Sam Raimi, Nicolas Winding Refn, Christophe Gans, Roman Coppola e Dennis Bartok (I tesori di Bava all’American Cinemathèque). Per quanto riguarda le interviste a tema Bava, oltre a recuperare un colloquio dello stesso Mario con Luciano Rispoli (datato 1974) e a conversare con i familiari del regista (i figli Elena e Lamberto, il nipote Roy), Kill Baby Kill! interpelle i colleghi Riccardo Freda, Roger Corman, Umberto Lenzi, Dario Argento e Sergio Martino, l’amico e sodale Massimo De Rita, lo sceneggiatore Ernesto Gastaldi, lo scrittore Renato Pestriniero, gli attori Barbara Steele, Mark Damon, John Saxon, John Phillip Law, Elke Sommer, Don Backy e Daria Nicolodi, i produttori Dino De Laurentiis, Alfredo Leone e Fulvio Luciano, e fan doc quali John Landis (“Bava possedeva uno stile tutto suo, un tocco, come si può riscontrare nei film di John Carpenter o Alfred Hitchcock”), Quentin Tarantino (“Fa parte di quel pugno di registi che hanno segnato notevolmente il mio lavoro. Era il mio eroe”), Luigi Cozzi (“Il cinema di Bava è un cinema assolutamente inventato, una volta smontato il set non rimaneva nulla di reale: era pura fantasia, pura arte, ciò che tutti i registi vorrebbero fare”) e i Manetti Bros. (“Bava era un vero artigiano del cinema”).
Infine, prima di cedere il passo all’imprescindibile sezione dedicata alla filmografia (spiegata e commentata sin nei minimi dettagli), Roberto Pisoni trova il modo di assemblare l’alfabeto di Mario Bava. Il risultato è una sapida raccolta di dichiarazioni personali, che va dalla A di artigiano (“Sono sicuro di aver fatto solo grandi stronzate. Sono un artigiano. Un artigiano romantico, di quelli scomparsi”) alla Z di zanzara, lemma in cui il regista scherza su come sia strano che proprio lui, “persona mite e timorosa”, che non ammazzerebbe “nemmeno una zanzara per il sacro rispetto che ho di ogni forma di vita”, si sia ritrovato (a causa del successo americano di La maschera del demonio) “sommerso da un lago di sangue brulicante di vampiri e morti a galla”. Eppure, alla B di bara, è lo stesso Bava a dichiarare: “Cosa desidero per il futuro? Una bara colma di sangue nella quale io possa riposare in pace, potendo però uscire la notte per addentare sul collo i film che ho fatto”. Considerando quanto certe pellicole siano state il suo viatico verso l’immortalità, ne ha tutto il diritto.
Angela Bosetto ©La rivista del cinematografo, gennaio-febbraio 2022