Prendi un periodo storico – e artistico – trattalo male, fallo passare per superficiale. E non capirai mai, davvero, quanto nella costruzione dell’immaginario collettivo sia stato centrale. La sottovalutazione è l’arma migliore con cui farsi fregare due volte: dalla propaganda travestita da intrattenimento prima, dall’appiattimento dell’analisi poi. Ecco perché libri come Invasion Usa – Idee e ideologie del cinema americano anni ’80 di Pier Maria Bocchi (ed. Bietti Heterotopia pag. 203, € 18,00) sono un raro balsamo: perché alla critica ideologica che accantona certi decenni con leggerezza e snobismo risponde con uno studio approfondito, un’esegesi intelligente e arguta di visioni, generi, intenzioni e intuizioni, una capacità di entrare dentro il cuore di un argomento complesso che molti semplificano. E a rendere il tutto molto più interessante è che a un impeto a volte propagandistico non più diretto, come quello che nel libro edito da Fazi e scritto da Jean-Michel Valantin Hollywood, Washington e il Pentagono viene raccontato con accurata ricerca storica, negli anni ’80 troviamo qualcosa di più difficile da interpretare. Non ci sono uffici nelle ambasciate a innaffiare registi, produttori e generi cinematografici, c’è piuttosto una svolta reaganiana nella testa di produttori, registi, spettatori. Persino nelle facce degli attori. Per capire che libro sia Invasion USA, si deve partire dal presupposto che il suo titolo cita un’opera del 1985. Diretta dal regista Joseph Zito, squisitamente dimenticabile e interpretata da un eroe di quei tempi (ma anche dei nostri, grazie ai facts sui social) come Chuck Norris. E già da questo intuiamo come vi sia, all’interno di questo volume, lo stesso grado di ironia e di serietà e rigore. Prendere uno dei film più iconici rispetto allo stereotipo del cinema anni ’80 che abbiamo ora è un buon modo per cominciare a raccontare che no, non erano affatto così facili da capire e da raccontare. Bocchi, infatti, parte col dimostrarci che sono stati contraddittori, non di rado schizofrenici, capaci di estremi propagandistici nei confronti del modello americano dilagante e prevaricante, quello reaganiano, padre poco nobile del trumpismo (e del suo immaginario) ma anche di essere specchio, non di rado deformante, di un’America alla deriva ideale ma profondamente ancorata a un’ideologia sempre più (pre)potente; è affascinante come Bocchi, che è saggista sopraffino (consigliamo tra le tante sue opere Mondo Queer e il suo Castoro su Micheal Mann) e critico cinematografico mai allineato, riesca a essere completo nell’esposizione e nell’analisi e allo stesso tempo maieutico nei confronti del lettore che, grazie al suo excursus storico e cinematografico e alle sue scelte, può portare avanti un ragionamento indipendente. E capire come i Chicago Boys reaganiani non hanno solo ucciso l’etica residua nell’economia statunitense e mondiale, l’identità migliore del Nord America e creato le basi prima per Bush sr, poi per Bush jr e ora per Trump – c’è chi è stato condannato dalla storia per molto meno -, ma hanno anche massacrato la New Hollywood e il lato migliore del cinema, delle nostre visioni. Ma anche alimentato un mercato e un’industria portandoli a ciò che sono ora. Il ping pong che l’autore fa tra ciò che accade nel mondo in quegli anni e ciò che arriva sul grande schermo contemporaneamente è un trattato di critica, per il modello che utilizza, comparativo e integrato. Così capisci che gli anni ’80 cinici ed egocentrici, vanesi e selvaggi, ponte tra l’impegno dei Settanta e la fine della storia dei Novanta, sono ben raccontati non solo dalla produzione peggiore ma anche da quella che ha costruito il nostro “nostalgismo” esasperato ed esasperante di questi anni (di certo non casuale). Gordon Gekko e Tony Montana, Wall Street e Scarface, ma anche Stallone, Schwarzenegger e Luke Skywalker, sono le facce dello stesso prisma, filtro attraverso cui capire cosa stava succedendo a noi, alla Settima Arte e alla Storia in quegli anni. Il tutto mentre l’opera di sottovalutazione – anche musicale: qualcuno ricorda Freddy Mercury nei figli degli anni ’80? No, si preferisce strapparsi i capelli per Gazebo e Righeira – procedeva senza ostacoli fin da allora. Con pigrizia, indolenza, tutti toglievano dignità ai movimenti artistici (ma anche politici) che nascono e partono da quei momenti, forse perché non ne coglievano la centralità. Piaccia o no, e leggendo Bocchi risulta ancora più evidente, in quel decennio il “noi” è divenuto definitivamente “io”, il “we” è solo “me”. Cambia la prospettiva del mondo e sul mondo del nostro immaginario, cambiano gli eroi – il massimo di collettività è la coppia di Arma Letale -, cambiano persino i moduli narrativi. Il Ritorno al Futuro non è solo una saga, ma lo sguardo che ci offre Zemeckis su cosa saremmo diventati. Non contento, il libro non affronta solo i generi e le macroevoluzioni, ma anche le cinematografie di alcuni singoli grandi autori, non individua solo gli alfieri dell’“ottantismo” (Lucas e Spielberg, assassini neanche troppo inconsapevoli della New Hollywood), ma quelli che come Scorsese e Allen ne rimangono influenzati ma non condizionati. O come De Palma che li incarna, gli ’80, e allo stesso tempo li scarnifica. La lista finale di 20+1 e l’indice sono due strumenti “manualistici” da conservare. Perché, al di là di tutto, quanto erano divertenti quegli anni? Forse troppo, ecco perché ci hanno fregato con tutte le scarpe.
Boris Sollazzo ©Il Dubbio
dicembre 2016