Sapere/Vedere: intervista su «Il videoclip nell'era di YouTube» per Saperevedere

Luca Pacilio
2015-04-15 10:17:05
Sapere/Vedere: intervista su «Il videoclip nell'era di YouTube» per Saperevedere

Tre parole all’Italia.

Diritti. Eguaglianza. Solidarietà.

Tre parole alla cultura italiana.

Intraprendenza. Stupore. Imprevedibilità.

Luca Pacilio è vicedirettore della rivista di critica cinematografica on line Spietati.it e collaboratore del settimanale di cinema, televisione e spettacolo «FilmTV», per il quale si occupa della rubrica Videostar, dedicata al videoclip contemporaneo. È l’autore del volume Il videoclip nell’era di YouTube. 100 videomaker per il nuovo millennio (Bietti Heterotopia, 2014).

Il tuo volume è assolutamente prezioso, se non unico, per comprendere e sistematizzare la produzione ultratrentennale di videoclip. Con tutti i limiti del caso, quali sono i passaggi salienti dagli albori degli anni Ottanta, a quella che definisci la golden age degli anni Novanta, alla diffusione in rete degli anni Zero, per arrivare alla recente ricerca di viralità e memorabilità degli anni Dieci?

Quella di  golden age non è una definizione personale, ma negli anni Zero è divenuta consolidata prassi, anche tra gli addetti ai lavori, riferirsi con quell’espressione agli anni Novanta videomusicali. In estrema sintesi, e a rischio di essere anche un po’ superficiali: gli anni Ottanta sono gli anni dei video iconici, con al centro la star, video che vendevano un personaggio, oltre che un brano musicale. Gli anni Novanta sono gli anni dei videomaker che puntano su narrazioni e concettualità, anni in cui il videoclip cambia radicalmente, l’epoca di Michel Gondry, Spike Jonze, Chris Cunningham, Jonathan Glazer. Con l’avvento della rete e il graduale declino dei canali televisivi tematici negli anni Zero si afferma una nuova generazione di registi che prosegue nel cammino tracciato dai maestri del decennio precedente, ma confrontandosi con una realtà produttiva decisamente ridimensionata. L’avvento di YouTube segna poi la rivoluzione più recente: viralità significa anche introiti, quindi i video vanno fatti per essere visti e cliccati e questo muta ancora una volta lo stato delle cose, perché mai come in questi anni idee e provocazioni sono diventate il carburante della videomusica. YouTube si afferma anche come un grande archivio e porta a un costante, sistematico sguardo a un patrimonio di immagini del passato finalmente a disposizione, pronto a soddisfare curiosità e tentazioni nostalgiche.

YouTube killed the MTV stars: in parte vero, in parte no.

I canali tematici selezionavano un prodotto e di fatto lo imponevano. YouTube non seleziona, propone qualunque cosa  e non impone nulla, almeno in apparenza. Il fruitore ha il manico del coltello dalla sua, il che è positivo (guarda quel che vuole quando vuole) e negativo (si trova di fronte a una marea di proposte e spesso non sa come orientarsi).

Nabil, regista tra i più significativi dell’ultima generazione, nella prefazione del tuo libro dice che con l’avvento di You Tube, «la situazione si è fatta molto più creativa… Non si tratta più di soldi e potere, ma di idee. Oggi sono le idee a produrre arte audiovisiva, al di là delle etichette: videoclip, videoarte, cinema e commercial, per me, sono estensioni della stessa arte … Non credo ci sia una gerarchia».

Sì, e questo si lega molto alla congiuntura economica: per i video non esistono più i grandi budget, quindi diventa imperativo per il videomaker essere creativo, originale, ideativo. Per questo la videomusica è così interessante: perché è un campo di sperimentazione costante, un generatore continuo di idee e soluzioni che finiscono con l’invadere anche ambiti affini.

Sei piuttosto duro nei confronti dell’atteggiamento che la critica cinematografica tradizionale ha avuto nei confronti dei videoclip, sottostimando la maggiore sperimentazione, l’espressione creativa e la consapevolezza delle forme in cui si esprime la contemporaneità.

È un dato di fatto. La critica ha sempre patito i “videoclippari”, li ha sempre sottostimati. Quella italiana poi… E oggi non meno di ieri. Basti guardare l’accoglienza vergognosa per Under the Skin di Jonathan Glazer a Venezia 2014 da parte di riviste blasonatissime. Oggi che i magazine di tutto il mondo lo celebrano, ecco le strategiche marce indietro, gli improvvisi giudizi positivi. Perché? Perché c’è pregiudizio nei confronti di queste figure e perché i critici sono spesso più preoccupati di preservare il loro status che di tastare il polso della situazione e farsene portavoce. Il videoclip poi si lega al sistema industriale, al mainstream e questo è già compromettente ai loro occhi, quindi aspettano che questi nomi si consolidino per poi ragionare a giochi fatti e su un terreno sicuro.

Quali sono i videomaker che sono riusciti a sostenere bene il passaggio da clip a film? Il sentiero è costellato anche da molti insuccessi e lungometraggi mediocri, se rapportati alle abilità dimostrate nel “linguaggio corto”

David Fincher, Michel Gondry, Spike Jonze e lo stesso Jonathan Glazer sono delle certezze del cinema attuale; alcuni episodi registici sono più riusciti di di altri, ma nel complesso possono vantare filmografie molto forti, tra le più interessanti del cinema contemporaneo. Mi sono piaciuti moltissimo i film di Mike Mills (Thumbsucker e Beginners), quelli di Garth Jennings (lo sfortunato Guida galattica per gli autostoppisti e, soprattutto, Son of Rambow, mai uscito in Italia). Ho amato The Onion Movie, il film di Tom Kuntz e Mike Maguire , che è molto coerente con il mondo che hanno espresso nei videoclip. Joseph Kahn con Detention ha diretto uno dei film più sintomatici di questi anni. In generale ho trovato interessanti le cose proposte dai videomaker, da Hype Williams a Nima Nourizadeh, da Jamie Thraves a Anton Corbijn. Anche il film di Floria Sigismondi è molto bello. Altre cose sono più deludenti: penso a The Horsemen di Jonas Åkerlund o The Cell di Tarsem, ma com’è normale che accada. A volte, poi, i videomaker vengono coinvolti in produzioni molto irregimentate e non è detto che riescano a uscirne indenni.

Film in cui l’utilizzo del linguaggio del clip e la influenza di una “visione musicale” è maggiormente riuscita, a tuo parere.

Under the Skin di Glazer poggia su una logica quasi integralmente videomusicale: è un lavoro di ricerca, molto ardito e coraggioso, perché è una produzione importante, con una star, ma anche un’opera non concessiva e a tutti gli effetti sperimentale. Credo che, stanti gli esiti maiuscoli, sia il film più importante mai realizzato, da questo punto di vista.

Lo stesso atteggiamento tiepido non si può dire ci sia stato per le continue contaminazioni e il dialogo interdisciplinare in ambito fashion. pubblicitario o artistico: i videomaker hanno di fatto venduto molto bene i loro codici autoriali a brand, musica e molto altro, condizionando non poco l’immaginario collettivo.

Questo è il loro mestiere: catturare gli umori e le tendenze, tradurli in immagini. Il videoclip deve cavalcare l’attualità e spingersi più avanti: condensa lo spirito del tempo, per questo finisce col dilagare. I videomaker più personali hanno poi imposto uno stile che, stando la pervasività del videoclip, è riuscito a diventare una cifra, a marchiare delle epoche. Registi come Cunningham e Gondry sono diventati parametrici. A volte, com’è inevitabile, la loro lezione è degenerata in maniera automatica, dei loro stilemi si è anche molto abusato. Ma questo avviene in tutti i campi creativi quando certe formule hanno successo.

Gli artisti: dallo star system all’hype system. Alcuni nomi sono certamente prevedibili, ma vorrei chiederti chi sono stati i veri influenzatori, coloro i quali, per varie ragioni, hanno conferito valore aggiunto al videoclip.

Come dicevo, nei fatidici Novanta, dal punto di vista registico e autoriale, Michel Gondry, Spike Jonze e Chris Cunningham hanno impresso una svolta al videoclip; ognuno a suo modo ha contribuito alla realizzazione di una sintassi che viene utilizzata ancora oggi, spesso anche inconsapevolmente. I grandi innovatori del mezzo nel terzo millennio a mio avviso sono invece Romain Gavras e Martin De Thurah.

Dal punto di vista specifico degli artisti, sono quelli che sono riusciti a creare dei percorsi videografici coerenti, ricercati, attraverso collaborazioni durature oppure attraverso intese occasionali, ma straordinariamente significative. Bjork, innanzitutto, l’artista che è stata in grado di collaborare con tutti i registi più importanti e sempre in tempi non sospetti, il più delle volte scoprendoli. Il suo sodalizio con Michel Gondry è il più importante della storia videomusicale. E poi Aphex Twin con Chris Cunningham, Feist con Patrick Daughers, gli Arcade Fire con Vincent Morrisset e da ultimo James Blake con Martin De Thurah. Lady Gaga ha fatto cose importanti nel decennio scorso, Kanye West e Lana del Rey negli ultimi anni sono forse le star più rilevanti da quel punto di vista.

L’abbattimento dei budget e, per converso, la reperibilità dei mezzi tecnici e dei software, sono le variabili tecniche più significative degli ultimi quindici anni?

Sono variabili molto significative perché hanno allargato le possibilità, permesso a molti aspiranti videomaker non solo di creare, ma anche di mostrare il proprio lavoro. In un lasso di tempo veramente ridotto la situazione si è completamente trasformata.

Molte serie tv degli ultimi anni sviluppano linguaggi di confine tra cinema/tv e clip. E mi riferisco sia alla parte visiva che alle colonne sonore. Quali sono, secondo te, quelle più interessanti sotto questo profilo.

Gli esempi sono molti: solo di recente Regina Spektor ha scritto You’ve got time apposta per Orange is the new black: la sigla è un clip della canzone con immagini slegate dalla serie. Anche per The Affair, Fiona Apple ha scritto un pezzo apposito, Container, e anche in questo caso costituisce un clip a sé pur anticipando ovviamente alcune suggestioni della serie. All’origine si può pensare a I Soprano, la cui sigla era quasi un clip di Woke up this morning degli Alabama 3. Di recente la bellissima sigla di True Detective ha fatto furore, mettendo in evidenza il magnifico lavoro di Patrick Clair. Le serie di Ryan Murphy usano spesso un montaggio “videoclipparo”, basti pensare a Nip/Tuck in particolare: nelle scene delle operazioni i chirurghi scelgono il cd e un brano e il montaggio è fortemente sintonizzato sulla musica; Glee, poi, parlando di ragazzetti che fanno musical, si confronta spesso con le performance di brani celebri. Non ho visto la serie, ma so che anche in American Horror Story, ci sono momenti musicali abbastanza incongruenti e slegati dal contesto narrativo che costituiscono veri e propri clip a sé. Anche Breaking Bad, soprattutto nell’uso del montaggio, e in molti passaggi, sembra guardare al mondo del videoclip.

Esiste un genere musicale che è oppure è stato in grado di dialogare meglio, nel suo complesso, con la produzione video.

Diciamo che ciascun genere musicale ha anche una tipologia di video di elezione, all’interno della quale si sviluppano e si aggiornano alcune modalità; certo, la grande svolta si è avuta con la musica elettronica che, non ponendo in primo piano l’esibizione della star, ha liberato il linguaggio da certi schemi immutabili e lo ha portato in un terreno nuovo, totalmente inesplorato. I risultati raggiunti in quell’ambito hanno avuto poi fortissime ricadute in tutto il mondo del videoclip.

Il panorama italiano è completamente assente dal tuo libro. Ci piacerebbe provare a concentrarci sul presente. Qualche nome di regista che ti sembra possa dire la sua ed essere competitivo o innovativo.

Nel libro volevo parlare del panorama internazionale. Ho anche pensato di dedicare un capitolo alla videografia italiana, ma si rischiava di fare un superficiale elenco di nomi, laddove la vastità dell’argomento richiedeva una trattazione ben più consistente e approfondita. Comunque un videomaker come Virgilio Villoresi se la gioca alla pari con il gotha della videomusica attuale. Mi piacciono molto anche i lavori artigianali e poetici di Bruno D’Elia, le idee di Luca Lumaca, Uolli, Saku, il collettivo John Snellinberg, la grande duttilità di registi affermati come Gaetano Morbioli e Cosimo Alemà. E poi tanti giovani come Francesco Lettieri, Stefano Poletti, Imperat e Acqua Sintetica. Poi c’è tutta la scena rap, che è una galassia nella galassia. C’è tanta creatività, in troppi casi mortificata dalle etichette che impongono diktat molto rigidi. Non c’è nessuna voglia di rischiare ed è un peccato perché in Italia non sono certo i talenti a mancare.

Quali invece le scene internazionali con maggiore vivacità e visibilità?

Parigi oggi è un punto di riferimento imprescindibile della videomusica: i francesi in questi anni hanno imposto una scuola, le loro creazioni tengono testa a quelle angloamericane. L’altra scena europea di livello è quella nordica.

I collettivi e i team di lavoro multidisciplinari sono un’esperienza frequente nel settore.

Sono una delle nuove realtà che si sono imposte negli anni Zero. Prima si trattava di situazioni molto episodiche, adesso il team è una formula ricorrente. È la conseguenza della nascita delle scene: non è un caso che in Francia, dove, come detto, il fermento è altissimo, se ne formino sempre di più.

Qualcuno/qualcosa di sopravvalutato.

Il fenomeno degli OkGo. È scaduto molto presto in formula e, per quanto il lavoro che svolgono con i registi è oggettivamente di alta fattura, ritengo che la sorpresa, una volta che diventa programmatica, suoni come un espediente, una soluzione paradossalmente non più sorprendente.

Qualcuno/qualcosa di sottostimato.

Alcuni videomaker britannici come Casey&Ewan, Cyrus Mirza, Ben Reed. Dimostrano che il budget contenuto non è un limite se ci sono delle idee. Sono un esempio per tutti.

Qualcuno/qualcosa a cui guardare con rispetto.

Moltissimi videomaker che operano nel mainstream, generalmente la loro abilità non viene riconosciuta, viene data per scontata. Ma servire la committenza, creare un prodotto per il largo pubblico richiede talento, intuito, grande senso pratico.

Il cliché che non vorresti più rivedere.

Il cliché va bene se è usato con cognizione di causa, a mio avviso. Non sono contro i cliché in generale; il video lavora moltissimo con essi: li crea, li sfrutta, li rinnova.

La sequenza più bella, a titolo del tutto personale.

 Il piano sequenza finale del video di Hey Jane degli Spiritualized, diretto da AG Rojas.

La casa di produzione a cui mandare il curriculum.

La multinazionale Partizan o l’inglese Colonel Blimp.

Il/i blog/sito/piattaforma indispensabile per i patiti e i nuovi curiosi.

MVOD.

Esistono ancora gli appassionati dei videoclip (a parte te e me)?

Direi di sì. Sicuramente MTV determinava un altro tipo di attenzione e di fedeltà, faceva affezionare il pubblico ai video attraverso la loro riproposizione sistematica, costruiva dei ricordi, in qualche modo li imponeva: e infatti chi è cresciuto tra gli Ottanta e i Novanta conosce a menadito i suoi video del cuore. Adesso che l’offerta è aumentata è più difficile creare quell’attaccamento, ma è una conseguenza dei tempi: oggi la scelta è enorme in ogni campo e la possibilità di avvicinarsi ai propri interessi anche gratuitamente (pensiamo a Spotify, nel mondo della musica) è decisamente aumentata, l’utilizzo è molto più veloce, i prodotti più effimeri. Ma se l’utilizzo è mutato, le passioni non si sono certo spente e i video hanno un loro pubblico affezionato.

<S> per…

Sound.

<V> per…

Vision.

The ultimate playlist.

Ashes to Ashes – David Bowie (dir. David Mallet, David Bowie), 1980

Beat It – Michael Jackson (dir. Bob Giraldi) 1982

Cry – Godley & Creme (dir. Godley & Cream), 1985

Sledgehammer – Peter Gabriel (dir. Stephen R. Johnson), 1986

Sowing the Seeds of Love – Tears for Fears (dir. Jim Blashfield), 1989

Vogue – Madonna (dir. David Fincher), 1990

Violently Happy – Bjork (dir. Jean-Baptiste Mondino), 1994

Virtual Insanity – Jamiroquai (dir. Jonathan Glazer), 1996

Possibly Maybe – Bjork (dir. Stephane Sednaoui), 1996

The Rain – Missy Elliott (dir. Hype Williams), 1997

Come to Daddy – Aphex Twin (dir. Chris Cunningham), 1997

Praise You – Fatboy Slim (dir. Spike Jonze, Roman Coppola), 1998

Let Forever Be – The Chemical Brothers (dir. Michel Gondry), 1999

Imitation of Life – REM (dir. Garth Jennings), 2001

Toxic – Britney Spears (dir. Joseph Kahn), 2004

What Else Is There? – Royksopp (dir. Martin de Thurah), 2005

Welcome to Heartbreak – Kanye West ft. Kid Cudi (dir. Nabil), 2008

Wrong – Depeche Mode (dir. Patrick Daughters), 2009

Bad Girls – M.I.A. (dir. Romain Gavras), 2011

Afterlife – Arcade Fire (dir. Spike Jonze), 2013

©saperevedere.it

1 gennaio 2015

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