Un uomo la cui carriera ha attraversato il Secolo Breve, che ha affrontato ogni genere letterario, in assoluta libertà. Un uomo che, nell’avvicendarsi dei decenni, si è sempre battuto contro ogni censura, letteraria e ideologica: questo è stato Ray Bradbury. È naturale che si sia scagliato in più occasioni contro quella cappa opprimente e liberticida che risponde al nome dipolitically correctnes, la quale, esplosa in America, è poi stata entusiasticamente importata in Europa, mietendo parecchie vittime nella letteratura come nel cinema (è tornato recentemente sull’argomento Maurizio Acerbi, nel suo acuminato pamphlet Come sopravvivere al cinema di sinistra). Anche perché quel politicamente corretto Bradbury l’aveva descritto con decenni di anticipo nel suo capolavoro Fahrenheit 451. Quel romanzo distopico in cui i pompieri, al posto che spegnere incendi, li appiccano, bruciando i libri. E di bruciatori di libri il Novecento ne ha conosciuti parecchi… Non solo nazisti e comunisti, ma anche quelle cricche che si battono per la censura e il ritiro dei libri.
Bradbury stesso l’aveva raccontato nel 1996 a Ken Kelley, in un’intervista uscita anni fa in italiano nel volume Siamo noi i marziani, edito da Bietti a cura di Gianfranco de Turris e Tania di Bernardo: «A un certo punto» racconta lo scrittore, «il capo dei pompieri descrive come le minoranze, una per una, tappino le bocche e le menti della gente, rievocando dei precedenti: gli ebrei odiavano Fagin e Shylock – bruciateli entrambi o, almeno, non menzionateli mai; ai neri non piaceva che il negro Jim stesse sulla zattera con Huck – bruciatelo, quantomeno nascondetelo; i gruppi conservatori, difensori del valore della famiglia, detestavano Oscar Wilde – tornatene nell’armadio, Oscar; i comunisti odiavano la borghesia – fucilatela!».
Allora Bradbury criticava le maggioranze, il loro zittire ogni dissenso, ma le cose cambiano, e lui ne è sempre più cosciente. Se ne accorge, ad esempio, quando la critica progressista si abbatte su Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, definite scurrili e razziste per una parola, nigger. Ma lo sperimenta anche sulla propria pelle, allorché le militanti femministe del Vassar College gli chiedono d’inserire più personaggi femminili nelle Cronache marziane, o quando scopre che i partigiani dei diritti civili vorrebbero vedere più personaggi di colore ne L’estate incantata. Maggioranza e minoranza si uniscono, in una dittatura ideologica congiunta, una tenaglia che seleziona all’ingresso le idee, organizzando congiure al silenzio o processi mediatici, con la complicità della cultura ufficiale. Bradbury, libertario come non mai, esplode: «Che siate maggioranza o minoranza, piantatela! Che tutti quelli che vogliono dirmi cosa devo scrivere vadano al diavolo! La loro società si frammenta in sottosezioni di minoranze che, in effetti, bruciano i libri, proibendone la lettura». Quei gruppi che strumentalizzano il loro essere minoritari per affermarsi, esponenti della scuola del risentimento denunciata dal grande critico letterario Harold Bloom, secondo il quale un poeta appartenente a qualsivoglia minoranza etnica, sociale o sessuale – pardon!, di genere – ha più chance di un William Shakespeare. Aspetti che a Bradbury non interessano: un’opera d’arte non ha bisogno di giustificazioni che non siano estetiche. Ed è la qualità del lavoro l’unico aspetto che occorre considerare.
Prima di infestare tutti gli ambiti della cosiddetta cultura alta, tra l’altro, il politicamente corretto nacque nelle università statunitensi. Che ne pensava il poeta della fantascienza, che strutturò la propria formazione sulle biblioteche e su letture liberissime, invece che attaccarsi alla gonnella del guru accademico di turno? Semplicissimo: «Una gran balla. Non si può andare in giro con la pericolosa intenzione di dire a un’università cosa debba o non debba insegnare. I membri dei consigli di facoltà che si conformano a questa linea non sono altro che degli stupidi bigotti! Ogni volta che una cosa del genere salta fuori, bisognerebbe gridare: Idioti!, e rimetterli al loro posto». La stessa correttezza che aveva condotto gli atenei ad abbassare i requisiti di ammissione ai corsi di Laurea, così facilitando l’accesso anche agli studenti meno qualificati… Il parere di Bradbury? «L’intera idea dell’istruzione universitaria viene negata… L’istruzione è una pura faccenda di apprendimento: non possiamo più permetterci di lasciare che dei dannati politici la inquinino. Lasciamo l’inquinamento ai politici». L’aveva detto ridendo, nel 1996, parlando della cosiddetta «discriminazione positiva» nelle facoltà umanistiche, ma non avrebbe riso affatto vedendo lo stato attuale degli atenei, che hanno capillarmente messo in pratica quello che lui scherniva.
E poi, i luogotenenti del pol cor, «i gelidi, marmorei intellettuali di New York», esponenti di una cultura ufficiale sempre più chiusa e autoreferenziale… quelli che leggevano le sue opere alzando il sopracciglio, giudicandole poco impegnate, di pura evasione… roba da ragazzetti incapaci di crescere o da adulti rimasti bambini… Bradbury ne ha anche per loro, palloni gonfiati dall’informazione: «Ogni volta che sfoglio il New York Review of Books non faccio che trovarci snob! Una settimana, Susan Sontag scrive su Norman Podhoretz, la successiva è Podhoretz a scrivere sulla Sontag. Quella dopo ci sarà una recensione dei loro ultimi romanzi, e poi… tutta la faccenda è così incestuosa che non può che portare all’autodistruzione». Sono loro a dettare le mode, il canone (con la minuscola), sono loro a scegliere quali argomenti è opportuno trattare per sbancare al botteghino o rimpinguare i diritti d’autore. Fieramente indipendente, Bradbury non si piega. Lui, che nella sua vita ha sperimentato generi letterari diversi, cimentandosi nella prosa come nella poesia, nel teatro come nella televisione, seguendo sempre la propria ispirazione senza piegarsi alle voghe o alle ortodossie del momento: «È un modo di fare da bugiardi, traditori, truffatori e imbroglioni: plasmare la propria opera imitando quelle altrui, adeguarsi ai gusti letterari o intellettuali, modellare le proprie opinioni politiche in base a ciò che dicono gli altri». È lapidario: «Se si bada al gusto del proprio tempo per trovare la propria direzione, si è già morti». Un inattuale.
Sembra di sentire il suo amico Walt Disney (cui fu molto legato, tanto che per Disneyland progettò lo Spaceship Earth dell’EPCOT), che una volta disse a Oriana Fallaci, in una delle sue interviste più intense: «Ah, io non posso soffrire gli intellettuali. Sono pericolosi; vivono fuori dalla natura o non ne tengono conto. Io, tutte le volte che parlo con un intellettuale, sento il bisogno irresistibile di scaraventarlo in mezzo alla giungla perché si tolga dal capo le sue stupide ideologie».
È lo spirito del tempo – del loro tempo, che, mutatis mutandis, è anche il nostro – quello contro cui combatterono Ray e Walt. Uno spirito il cui prototipo, afferma Bradbury nel fatidico 1968 in un’intervista rilasciata a Phalanx, è «il romanzo di New York, quello dell’intellettuale ebreo semiomosessuale di quarantanove anni, pieno di sé e del suo QI. Il suo problema è: divorzierà? Andrà a vivere con la sua amante o con il ragazzo in fondo al corridoio? Ma, soprattutto, è ebreo, il che gli crea problemi; oppure è di colore, e questo gliene crea ancora di più». Tutte cose che a Bradbury, semplicemente, non interessavano. Era più risoluto nel cantare la stagione incantata della giovinezza (inDandelion wine e nella Fine dell’estate) o nel denunciare la censura operata dai media, appunto in Fahrenheit, o nel creare mitologie nuove con le sue esplorazioni fantascientifiche. Sono questi gli unici antidoti al politicamente corretto dilagante, al buonismo a mano armata. Leggere per credere: «Il bisogno di avventura è costante e, ancora una volta, viene snobbato dagli intellettuali che, in questo modo, non fanno che tarpare le ali ai propri figli. Ma non si possono uccidere i sogni. Il dovere sociale deve nascere dal vivere con un certo senso dello stile, dell’avventura e del romanticismo». Immenso Bradbury, con le sue opere ci ha insegnato a vivere questi sogni nell’epoca del disincanto.
(Andrea Scarabelli, «ilGiornale.it», 16 agosto 2016)